Da femminista che fa divulgazione anche sui social, mi capita spesso di ricevere messaggi, soprattutto da donne, che mi confidano di sentirsi “poco femministe”. Accade, ad esempio, quando scelgono di sposarsi, o quando rinunciano totalmente o parzialmente alla propria indipendenza in favore della sicurezza economica offerta dal partner. Molte mi confidano di sentirsi poco femministe quando si interrogano sulla coerenza delle proprie scelte quotidiane: indosso certi abiti perché lo desidero davvero o per compiacere lo sguardo maschile? Mi depilo perché lo voglio io o perché la società me lo chiede? Domande che possono sembrare marginali, ma che rivelano un nodo più profondo: cosa significa, oggi, vivere da femminista senza sentirsi costantemente in bilico tra indipendenza e sottomissione?
È da questo interrogativo che prende le mosse anche Storia dei miei peli (2025), l’ultimo romanzo di Lavinia Mannelli, che racconta la parabola di una giovane donna convinta delle proprie battaglie politiche e del proprio attivismo, eppure pronta a mettersi in discussione quando un inaspettato desiderio maschile — e con esso una nuova possibilità di sicurezza economica — la trascina in una dinamica che incrina le sue certezze.
Gli interrogativi che animano il romanzo di Mannelli sono gli stessi che attraversano molte esperienze contemporanee. Possono assumere contorni diversi: scegliere di monetizzare il proprio corpo sessualizzandolo online oppure legarsi per sempre a qualcuno, quando quel “sì” comporta l’adesione a un modello che limita l’autonomia e cristallizza i ruoli di genere. In questo senso, un esempio lampante è quello delle trad wife, giovani donne che sui social si presentano come casalinghe felici e orgogliose di esserlo, proponendo la dedizione totale alla casa e al marito come gesto di ribellione nei confronti delle tendenze contemporanee che descrivono le donne come felici e soddisfatte solo quando si affermano fuori dal contesto domestico. Questo immaginario, apparentemente rassicurante e familiare, si intreccia con correnti antifemministe, nazionaliste e talvolta apertamente suprematiste, che vedono nella sottomissione femminile il perno di un ordine sociale da preservare.
Qualunque sia la cornice, l’interrogativo resta lo stesso: qual è la linea che separa la libertà di scegliere — fosse anche una scelta anacronistica o contraria alla sensibilità vigente — da una sottomissione interiorizzata e resa invisibile?
Non si tratta di un quesito nuovo. La sottomissione è infatti un concetto su cui filosofia e psicologia si sono a lungo interrogate, oscillando tra interpretazioni morali, sociali e patologiche.
Per quanto riguarda gli uomini, un riferimento fondativo è il Discorso sulla servitù volontaria (2014) che Étienne de La Boétie scrisse nel 1549: qui la sottomissione non è pensata come condizione imposta, ma come disposizione interiorizzata. Gli uomini, sostiene La Boétie, finiscono per servire perché si abituano a farlo: arrivano perfino ad amare la propria condizione servile, contribuendo così a perpetuarla. Una riflessione che anticipa molti interrogativi moderni sul paradosso della libertà maschile, capace di convertirsi in docile obbedienza pur di conservare sicurezza e stabilità. Nel Novecento, la psicoanalisi ha affrontato la questione da un’altra angolatura. In Un bambino viene picchiato (2000), che Freud scrive nel 1919, la sottomissione maschile viene interpretata in chiave di fantasia sessuale e dinamica inconscia: la pulsione alla passività, considerata “perversa” perché devia dall’ideale virile di attività, diventa la matrice di desideri e angosce che restano rimossi. La sottomissione maschile è dunque per Freud qualcosa da spiegare, giustificare o patologizzare. Diverso il destino della sottomissione femminile, tradizionalmente descritta come naturale e socialmente desiderabile. Rousseau, nell’Emilio (2017) del 1762, immaginava l’educazione di Sophie finalizzata al piacere e alla cura dell’uomo: la sua virtù consisteva nell’essere dolce, accomodante, devota. Alla fine del Settecento, Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, in De l’éducation des femmes (1990), denunciava invece l’inganno di questa presunta ‘natura femminile’: non è la biologia a renderle obbedienti, ma un’educazione che abitua le donne alla dipendenza e al compiacimento, misurandone il valore sulla capacità di piacere e servire.
E ancora nel Novecento, teorie psicologiche apparentemente neutrali hanno perpetuato questa naturalizzazione: John Bowlby (1999), ad esempio, legava la femminilità alla capacità innata di cura, consolidando l’idea che l’abnegazione fosse un tratto “essenziale” delle donne.
Oggi, pur in un contesto diverso, queste dinamiche riemergono. La sottomissione maschile resta spesso stigmatizzata come ‘debolezza’ – basti pensare al linguaggio comune che deride gli uomini ‘succubi’ della partner o ‘zerbini’ sul luogo di lavoro –, mentre quella femminile continua a essere normalizzata come virtù: empatia, disponibilità, capacità di mediazione, ancora oggi celebrate come soft skills che rendono una donna preziosa nel lavoro e nelle relazioni.
Come sottolinea la studiosa Manon Garcia in Sottomesse non si nasce, lo si diventa:
“Le femministe hanno accuratamente evitato la questione della sottomissione femminile, probabilmente per non dare l’impressione di fare il gioco dei conservatori” (Garcia 2021, 19–20).
Per molto tempo, infatti, questo tema ha costituito il terreno su cui si è giocato uno scontro culturale. Secondo questa prospettiva, a sottomettersi sono le donne che non hanno altre possibilità perché invischiate all’interno di contesti sociali o religiosi che ne impediscono l’emancipazione. Una visione che non solo ignora la varietà delle esperienze femminili, ma rischia di cancellare le forme di agency che possono esistere anche in contesti fortemente vincolanti. Basti pensare, ad esempio, al caso del velo islamico: se da un lato può essere percepito come strumento di oppressione, dall’altro molte donne lo hanno trasformato in una modalità di espressione identitaria e, soprattutto, in una rivendicazione politica. Indossarlo diventa, allora, un modo per affermare la possibilità di coniugare fede, autodeterminazione e femminismo, mostrando come anche dentro vincoli rigidi possano emergere pratiche di soggettivazione.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di ‘sottomissione’? Anzitutto è bene sgombrare il campo da un equivoco: in questa sede il concetto di sottomissione non coincide con la pratica erotica agita in contesti consensuali come nelle relazioni kinky o BDSM. Qui la sottomissione assume i contorni di un gioco di ruolo negoziato, reversibile e delimitato, in cui il potere non è imposto ma messo in scena. Proprio per questo, può perfino rovesciare – almeno temporaneamente – le gerarchie sociali, offrendo uno spazio per esplorare desideri e posizioni che nella vita quotidiana restano negate.
La sottomissione di cui ci occupiamo qui riguarda al contrario quelle dinamiche relazionali in cui i rapporti di potere sono asimmetrici e radicati in un contesto sociale di disuguaglianza. È sempre Garcia a illustrarne la natura paradossale. Si tratta di:
“Un’attività nella passività: il soggetto deciderebbe di non essere più colui che decide indipendentemente dal grado di razionalità o complessità di una simile decisione. Possiamo ovviamente decidere di sottometterci in mancanza di altre scelte disponibili, ma si tratta in ogni caso di una decisione, perlomeno quella di non agire contro il potere esercitato su di noi” (2021, 28–29).
Per Garcia, la sottomissione non può essere compresa se non in relazione alla dominazione: il potere dell’uno si esercita sul corpo, sul tempo e sulle possibilità dell’altra. Ciò determina due dimensioni complementari: quella relazionale, che definisce la posizione dei soggetti all’interno di una gerarchia e il riconoscimento – o meno – della propria subordinazione; e quella dell’azione, che riguarda i comportamenti concreti con cui la sottomissione prende forma, sia nei gesti quotidiani sia nelle scelte di lungo periodo.
È a partire da questa definizione che la filosofa analizza quei casi in cui la sottomissione non è formalmente imposta, ma si presenta come opzione legittima, persino desiderabile. Questa prospettiva dialoga con la nozione di situazione elaborata da Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso ([1949] 2016). Con questo concetto la filosofa si riferisce alle condizioni materiali, simboliche e storiche che circoscrivono le reali possibilità di esistenza di ciascun soggetto. Attraverso questa prospettiva De Beauvoir intreccia esistenzialismo e fenomenologia per portare attenzione intorno all’esperienza situata del genere femminile, determinata dalla condizione di alterità. La dominazione maschile è possibile proprio perché trasforma le donne in un “Altro assoluto” (2023, 117), confinandole nel ruolo di oggetto dello sguardo e del desiderio altrui. È uno sguardo da cui non è possibile emanciparsi del tutto, e che agisce proprio rendendo naturale la propria presenza.
In questo senso, ciò che Garcia definisce “attività nella passività” si sovrappone alla lettura di De Beauvoir: la relazione di potere si traveste da libertà di scelta. Si tratta di una dinamica tipica della nostra società, in cui l’adesione a ruoli tradizionali, ai canoni di bellezza o a script relazionali diseguali non è il frutto di un comando diretto, ma deriva al contrario da una combinazione di aspettative sociali, richieste educative, incentivi simbolici e vincoli materiali.
Se si guarda a questi scenari attraverso la doppia lente della relazione e dell’azione, si vede che ciò che appare come un atto autonomo – sposarsi assumendo un ruolo di moglie dedita al marito e ai figli, monetizzare la propria sessualità grazie a piattaforme per adulti, adattare desideri e abitudini alle esigenze dell’altro – non è privo di agency, ma resta inscritto in una struttura che prevede una parte dominante e una subordinata.
In altre parole, si tratta di scelte reali ma vincolate, esercitate entro margini che restringono il ventaglio delle possibilità e che, comunque, non modificano la struttura sociale in cui si collocano. La sottomissione, letta in questa chiave, non è tanto una rinuncia o una scelta personale, ma un’esperienza di libertà parziale, esercitata entro confini ristretti e intrisa di contraddizioni: essere al tempo stesso sexy e rispettabili, indipendenti ma dedite alla famiglia, forti ma mai troppo.
Questa logica si estende anche alla sfera delle relazioni affettive, dove la sottomissione interiorizzata può rendere difficile esercitare una vera libertà di scelta. Negli ultimi anni il dibattito pubblico ha portato molta attenzione sul cosiddetto modello di consenso affermativo, riassunto nello slogan ‘sì significa sì’: l’idea che il rapporto sessuale sia lecito solo se tutte le parti coinvolte esprimono un consenso chiaro, esplicito e continuativo. Questo modello nasce in contrapposizione alla logica tradizionale del ‘no significa no’, che presupponeva la resistenza come unico segnale di rifiuto e che, di fatto, lasciava spesso spazio a zone grigie o ad abusi.
Tuttavia, perché un consenso affermativo sia realmente praticabile, occorre che le persone siano in grado di conoscere i propri desideri e di esprimerli senza timore di giudizio. Ed è qui che emergono le difficoltà: se la posizione femminile è già segnata da una disposizione alla subordinazione – costruita attraverso educazione, rappresentazioni culturali e aspettative sociali – allora il modello rischia di restare un ideale irraggiungibile. Per dire un sì pieno occorre, infatti, non solo sapere cosa si vuole, ma anche avere la consapevolezza che quel desiderio possa essere legittimo e accettabile, cosa niente affatto scontata considerando che molte donne crescono senza strumenti per esplorarlo o nominarlo, abituate a misurare il piacere in funzione di quello maschile.
Non è irrilevante ricordare che il concetto stesso di consenso (Garcia 2022), oggi centrale nel discorso pubblico, è stato in parte mutuato dalle pratiche BDSM, dove da tempo vige la regola che ogni interazione sia negoziata, esplicitata e passibile di revisione in ogni momento. In quel contesto, la cornice è chiara e condivisa da chi partecipa. Nelle relazioni sessuo-affettive ordinarie, invece, essa si ammanta di ‘naturalità’: si dà per scontato che le donne sappiano e vogliano comportarsi in un certo modo – essere disponibili, accomodanti, gratificanti – e proprio questa presunta normalità rende più difficile esplicitare il proprio consenso, non solo rispetto al contatto sessuale ma anche nelle fasi che lo precedono, dal corteggiamento alle dinamiche di avvicinamento. In realtà, nulla di tutto ciò ha a che vedere con la ‘natura’: sono aspettative sociali sedimentate, che hanno finito per confondersi con l’ovvio e con il normale.
Come osserva Katherine Angel in Il sesso che verrà (2022), l’educazione sessuale e sentimentale dominante ha storicamente ignorato il desiderio femminile, concentrandosi invece sulla prevenzione dei rischi e sull’adeguamento a uno script eterosessuale standardizzato. In questo schema, il corpo femminile è più spesso oggetto di desiderio che soggetto desiderante: un corpo che ‘si concede’ o ‘accetta’, ma raramente uno che propone, inventa, esplora. Il risultato è che il consenso formale può essere presente ma il desiderio reale restare opaco, frainteso o semplicemente muto. A questa opacità si aggiunge un altro elemento: la performatività del piacere. Molte donne imparano presto che mostrare un certo desiderio ‘addomesticato’, un entusiasmo e una gratitudine sessuale di facciata è parte integrante del copione, a prescindere da quanto ciò corrisponda davvero a quello che sentono.
Questa dinamica non è marginale. Se il consenso si riduce a una performance, diventa difficile distinguere tra adesione autentica e conformità a un ruolo. L’entusiasmo recitato protegge dalla possibilità di essere percepite come fredde, difficili o inadeguate, ma al prezzo di allontanare ancora di più dalla conoscenza dei propri bisogni. Questa messa in scena del piacere ha trovato, soprattutto in passato, un alleato nel linguaggio del self-help e della crescita personale, soprattutto nelle sue declinazioni sentimentali. Manuali, corsi e contenuti motivazionali rivolti alle donne hanno insistito spesso su un’idea di ‘lavoro su di sé’ che coincideva con l’arte di adattarsi: essere più comprensive, più flessibili, più disposte ad ascoltare e a cedere alle richieste altrui. La felicità di coppia, in questo racconto, dipende dall’abilità femminile di prevenire i conflitti e modulare il proprio comportamento in base alle esigenze del partner. È una pedagogia della sottomissione presentata come empowerment, e che raramente invitava a mettere in discussione il contesto in cui quei compromessi si rendono necessari.
Se a lungo l’educazione femminile è coincisa con una serie di prescrizioni pensate per far sperimentare alle donne il piacere della sottomissione – oscurandone la natura imposta – all’interno delle relazioni con gli uomini, la riflessione femminista di De Beauvoir e Manon ci consente di analizzare queste dinamiche rivelandone finalmente le criticità.
Tuttavia, il rischio è che questo patrimonio teorico si trasformi in un ulteriore motivo di affaticamento: uno strumento che, invece di liberare, alimenta il senso di colpa e l’autosorveglianza, imponendo di misurare ogni scelta in termini di coerenza con un ideale di emancipazione. Così il problema sembra ricadere ancora una volta sulle donne, chiamate a giustificare ogni gesto e a domandarsi se sia ‘abbastanza femminista’. Per questo è fondamentale che tali strumenti non si traducano in un nuovo regime di controllo individuale, ma diventino piuttosto la leva per ribaltare le condizioni collettive che rendono la sottomissione l’opzione più praticabile. Non tanto passare al setaccio i comportamenti quotidiani, quanto interrogare le strutture che restringono il campo delle possibilità. Ed è forse anche il modo migliore per rispondere a quelle donne che mi scrivono di sentirsi ‘poco femministe’: non spostare ancora una volta il peso sul singolo gesto, ma riconoscere che il problema non sta in loro, bensì in un sistema che rende difficile non solo distinguere tra libertà e sottomissione, ma soprattutto perseguire quella libertà in un contesto che continuamente rispedisce indietro. Solo allora potremo cominciare a chiederci, ogni volta, se quel “sì” che pronunciamo è davvero nostro, o se appartiene a una storia più lunga, scritta molto prima di noi.
Fotografia di Omar Iannuzzi
Bibliografia
Angel, K. 2022. Il sesso che verrà. Donne e desiderio nell’era del consenso, Blackie Edizioni, MIlano.
Bowlby, J. 1999. Attaccamento e perdita. Vol. I: L’attaccamento alla madre, Bollati Boringhieri, Torino.
Choderlos de Laclos, P‑A F. 1990. L’educazione delle donne, Sellerio, Palermo.
De Beauvoir, S. [1949] 2016. Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano.
De La Boétie, É. 2014. Discorso sulla servitù volontaria, Feltrinelli, Milano.
Freud, S. [1919] 2000. Un bambino viene picchiato. Contributo alla conoscenza dell’origine delle perversioni sessuali, in Opere di Sigmund Freud, vol. IX: L’Io e l’Es e altri scritti 1917–1923, Bollati Boringhieri, Torino.
Garcia, M. 2022. Di cosa parliamo quando parliamo di consenso. Sesso e rapporti di potere. Einaudi, Torino.
Garcia, M. 2021. Sottomessa non si nasce, si diventa, Nottetempo, Milano.
Mannelli, L. 2025. Storia dei miei peli, 66thand2nd, Roma.
Rousseau, J‑J. [1762] 2017. Emilio, Mondadori, Milano.