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IL TRIONFO DEL SIGNIFICANTE

Su quale campo si gioca il politically correct?

Questa è una riflessione critica, affettuosa e in parte autobiografica sul politically correct. Ci sono molti modi per essere politically correct, ma tutti hanno lo stesso obiettivo: utilizzare le parole – e più raramente gli altri segni – per mostrare che chi parla nutre un grande rispetto verso gli altri, soprattutto verso quelle categorie di persone che vengono ingiustamente derise, discriminate o escluse. Un’altra caratteristica accomuna le diverse forme di politically correct che vediamo attorno a noi: il fatto che il gioco si svolge quasi esclusivamente nel campo del significante. Mi spiego con un esempio. La differenza fra ‘sottotitolazione per non udenti’ e ‘sottotitolazione per sordi’ non sta in ciò che la frase vuol dire ma nell’espressione che si usa per dirlo. Come dicono i linguisti, almeno da quando si possono leggere le lezioni di de Saussure (de Saussure 1983 [1916]), la differenza fra le due espressioni non sta nel significato ma nel significante.

Questa impostazione deve molto all’Enciclopedia dell’Italiano Treccani, una fonte di indiscussa autorità sulle questioni linguistiche e culturali nel nostro paese. Ricopio la voce politically correct: «un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona».

Su ‘rispetto’ e ‘offesa’ non c’è discussione; il nostro comportamento individuale e collettivo deve promuovere il primo e bandire la seconda. Ma l’osservazione fatta sopra, ovvero che il politically correct è un comportamento linguistico giocato quasi del tutto sul piano del significante, non corrisponde alla voce dell’enciclopedia lì dove scrive che dobbiamo eliminare i pregiudizi «nella forma linguistica e nella sostanza». La coppia di termini ‘forma e sostanza’ assomiglia a ‘significante e significato’. Seguendo il mio ragionamento – e non so se mi posso permettere – avrei scritto ‘più nella forma che nella sostanza’.

Allora? Come stanno davvero le cose? Quattro storie del mio passato personale e familiare daranno corpo alla questione. Vedremo poi come queste storie differiscono dal politically correct dei giorni nostri e finiremo parlando della funzione magica del linguaggio e del fatto che la sovranità linguistica appartiene al popolo dei parlanti, che la esercita non si sa bene come e quasi sempre – di questo siamo certi – in totale indipendenza.

Quattro storie

Bruna

Uno dei miei primi ricordi di bambino è un tentativo riuscito di combattere l’intolleranza, la mia. Quando eravamo piccoli, mia sorella e io passavamo molto tempo con le nonne, perché i nostri genitori lavoravano tutto il giorno fuori casa. Crescere negli anni del boom economico con due nonne contadine e mai completamente inurbate per mentalità e abitudini è una delle grandi fortune della mia vita. Osservando e ascoltando loro e i miei genitori ho capito che ci si deve sempre comportare in modo rispettoso verso gli altri – sempre e con tutti. Non ricordo nessuna particolare opera di persuasione. Me l’hanno presentato come un fatto del mondo in cui ero da poco arrivato, assieme alla costa attorno a Monte Cònero e al sapore del pane di Varano, che fanno ancora così.

Mia nonna paterna faceva parte di un gruppo di tre o quattro famiglie che abitavano tutte in una grande casa colonica fra gli orti nella frazione chiamata Tavernelle alle porte di Ancona. Il suo cognome era Pesaresi, ma il clan – per così dire – si chiamava Tomasò. In questa casa multifamiliare abitava Bruna, una ragazzina con la sindrome di Down e per la quale tutti avevano un occhio speciale di riguardo. Nessuno dubitava che fosse una Tomasona come gli altri, la principale differenza è che crescendo sarebbe rimasta bambina. Bruna era affezionata agli altri bambini e quando mi vedeva arrivare con nonna mi correva incontro contenta. Io però ero spaventato dal suo aspetto e dai suoi modi e scappavo. Osservando la mia reazione di fronte alla disabilità, mia nonna, d’accordo con gli altri Tomasoni, adottò un semplice rimedio. Quando mi portava dai Tomasoni avvisava la famiglia di Bruna, che la faceva uscire per incontrarmi. Così, poco alla volta, imparai a starle accanto come tutti e a giocarci assieme, anche se un po’ di paura in fondo mi era rimasta. Non occorre aggiungere che nonna diceva con grande naturalezza che Bruna era ‘mongoloide’ e con la stessa naturalezza, come si è visto, esprimeva il suo estremo rispetto verso il prossimo molto più nella sostanza che nella forma.

Nonno Edoardo

A differenza delle nonne con le quali sono cresciuto, i nonni non li ho potuti conoscere, ma da uno di loro mi è arrivata una storia che spiega forse meglio di quella di Bruna cosa significava per loro il rispetto incondizionato del prossimo. La mia altra nonna raccontava di come nonno Edoardo, suo marito, andò a trovare un giorno un amico all’ospedale. L’amico respirava male e temevano che avesse preso la tubercolosi. Allora, per non farlo sentire un emarginato e dargli speranza che se la sarebbe cavata, mio nonno bevve dallo stesso bicchiere che l’amico malato teneva sul comodino accanto al letto. Ricordo l’espressione rassegnata negli occhi azzurri di nonna. Era cresciuta in una società dura e patriarcale e non era abituata a mettere in discussione il suo uomo. Ma me lo faceva capire che aveva fatto una scemenza, anche se in fondo ammirava il gesto di affetto esagerato e folle.

Quattrocchi

La terza storia illustra che l’orientamento culturale di incondizionato rispetto che vedevo attorno a me da bambino si estendeva anche all’uso del linguaggio. Era il primo giorno di scuola di mia sorella, il primo ottobre del 1971. Io ero già in terza elementare e mi sentivo molto più grande di lei, tanto da credere di poterla prendere in giro impunemente. Eravamo sull’uscio di casa quando mi accorgo che era preoccupata di mostrarsi con gli occhiali, che non le piaceva portare, ai compagni di classe ancora sconosciuti. Con la cattiveria stolta dei bambini – soprattutto dei maschi – le dico con tono canzonatorio che è una ‘quattrocchi’. Perché ricordo tutto così bene? Perché non ero arrivato all’ultima sillaba che mia madre, per esprimere in modo convincente il suo dissenso, mi stampa uno schiaffone in faccia e mi informa che non mi dovevo permettere mai più. Era un fatto inaudito. Nostra madre era convinta che non si devono mai picchiare i bambini e infatti non ricordo altri episodi. Ma il suo orientamento ideologico contrario all’uso della violenza nell’educazione dei figli non le aveva fatto perdere di vista il buon senso. Lo schiaffo di quel giorno, dopo oltre mezzo secolo, conserva tutta la sua forza persuasiva.

La filippina messicana

Passano venticinque anni e il politically correct si sta diffondendo dalle università americane verso il resto del mondo. Mi trovo a insegnare al Department of English della University of the Philippines (U.P.). Fondata agli inizi del Novecento da professori di Harvard inviati nella nuova colonia americana oltre il Pacifico, U.P. era diventata l’avamposto più occidentale della tradizione accademica degli Stati Uniti. Potete immaginare quindi che nel campus di Manila si parlava tanto di politically correct. È questo il contesto dell’ultima storia che vorrei raccontare. Avevo tradotto e pubblicato a Manila una raccolta di racconti italiani (Stecconi 1996) e stavo cercando di percorrere la strada in senso inverso, ovvero presentare dei racconti filippini ai lettori italiani (Stecconi 1999). Un episodio che mi capitò mentre stavo preparando questa seconda raccolta mi fece capire che effetto fa la mancanza di rispetto. Riprendo l’episodio dall’introduzione del libro.

«Passeggiavo per il centro di Roma un giorno quando mi capitò di ascoltare due signore eleganti che conversavano pochi passi dietro di me. A un certo punto una dice all’altra: “Luisa, te l’ho già detto che ho preso una filippina messicana?”. Rimasi basito; da quando avevo spostato la residenza a Manila, “filippina” era diventato sinonimo di “domestica”. Di nuovo: che male c’è? In fin dei conti si tratta solo di una parola; anzi, magari finirà per scalzare “colf” che è un termine brutto e ipocrita. Ma temo che di questo passo si finisca per pensare (senza pensare) che le Filippine siano un paese di “filippine”. Più in generale, occorre combattere l’idea che il paese sia tanto oppresso dalla insensata distribuzione mondiale della ricchezza da non aver nient’altro da offrire che le sue ricchezze naturali, compresa una forza lavoro abbondante e a buon mercato. Sarà bene precisare allora che a Manila ci sono bravissime domestiche e poi ci sono anche ottimi scrittori, e mi pare che si possa dire lo stesso di Stoccolma o di Roma» (Stecconi 1999, 12-13).

Il trionfo del significante

Le prime due storie che ho presentato raccontano comportamenti non verbali: nonna che mi fa giocare con Bruna e il nonno scellerato che beve dal bicchiere dell’amico malato. Le altre due invece raccontano comportamenti verbali: io che prendo in giro mia sorella e la signora romana che dice ‘filippina’ per intendere ‘domestica’. La distanza fra questi episodi e il politically correct di oggi è grande. Nemmeno le due ultime storie si svolgono principalmente sul piano del significante, perché mia madre rispose al mio insulto di bambino con un ceffone, mentre con un po’ di fantasia si può pensare che la pubblicazione di Balikbayan sia la risposta alla signora romana.

Vediamo allora alcuni esempi di questo gioco linguistico del politically correct – nel senso di Wittgenstein – che osserviamo negli ultimi decenni e che è tanto lontano da come i miei genitori e i miei nonni intendevano il rispetto del prossimo. Nel 2013 il settimanale inglese The Economist dava notizia di una legge dello stato americano di Washington che aveva eliminato ogni espressione sessuata dai suoi documenti ufficiali. Per esempio, il termine penmanship, ‘bella calligrafia’, era stato sostituito da handwriting, ‘calligrafia’, perché al suo interno c’è man, che significa ‘uomo’. A gennaio del 2023 la School of Social Work della University of Southern California ha eliminato la parola “field” (campo) perché il termine potrebbe essere razzista pensando ai tempi in cui nei campi degli Stati Uniti lavoravano gli schiavi. Di conseguenza, l’Office of Field Education adesso si chiama Office of Practicum Education. Gli ultimi due esempi vengono dall’Europa. A marzo del 2024, il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha adottato un nuovo Regolamento generale di Ateneo che utilizza nella sua interezza il ‘femminile sovraesteso’. Quindi il rettore Deflorian viene designato nel regolamento come «la rettrice». Lo stesso avviene per la decana, le professoresse, le componenti del Nucleo di valutazione, la direttrice del Sistema bibliotecario di Ateneo e così via (qui il comunicato stampa pubblicato il giorno dell’approvazione). Infine, a giugno del 2024 Euronews ha usato questa foto a corredo di una notizia su una classifica delle migliori università in cui si può cogliere l’intento di rappresentare in modo bilanciato generi e popolazioni umane.


Tabu e magia

Non presento questi fatti come esempi di irragionevoli eccessi; sarebbe un giudizio superficiale e ingiusto. L’intento dello stato di Washington e dell’Università di Trento di non escludere le donne e quello della University of Southern California di non offendere i neri americani è innegabile e commendevole. Dobbiamo applaudire anche Euronews che segnala la sua sensibilità verso la diversità etnica e di genere con un’immagine e non solo con le parole. Questi fatti vengono presentati piuttosto come esempi del fenomeno che mi sembra sia il cuore del politically correct: il tabu linguistico, caratterizzato dal divieto di utilizzare certi significanti che stanno per qualcosa di inaccettabile, imbarazzante o proibito. Pare che tutte le culture del mondo conoscano il tabu linguistico nelle sue diverse forme. Tradizionalmente, riguarda soprattutto ambiti come la magia e il divino, il sesso, la morte e la malattia. La nonna che mi ha insegnato a giocare con Bruna non ha mai pronunciato in vita sua la parola ‘cancro’ – diceva ‘brutto male’ o ‘malaccio’ – e quando lechiedevo perché, rispondeva che se lo dici lo chiami. Anche questo convincimento irrazionale pare che sia comunissimo nelle culture umane. Il comandamento dei cristiani che recita «Non nominare il nome di Dio invano» ne è un’espressione.

Osserviamo più da vicino come funziona il meccanismo. Si prende il significante di un segno linguistico – come le lettere o i suoni che troviamo nelle parole ‘cancro’ oppure ‘Yahweh’, il nome ebraico di Dio – e gli si attribuisce la capacità magica di evocare il potere del referente che esiste fuori dal linguaggio: nel nostro caso, una malattia potenzialmente mortale e l’immenso potere divino. Partendo da questa idea Borges ha scritto un racconto intitolato «La escritura del Dios» in cui il mago Tzinacán dichiara di aver imparato “una fórmula de catorce palabras casuales (que parecen casuales) y me bastaría decirla en voz alta para ser todopoderoso” («una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente». Borges 1974 [1949], 599. Traduzione dell’autore). Ma perché la magia riesca è necessario obbedire ciecamente al significante. Il mago Tzinacán non potrebbe tralasciare nemmeno una delle quattordici parole né modificarle in alcun modo. La funzione magica del linguaggio sancisce il trionfo incontrastato del significante.

Come assistere il popolo dei parlanti

A questo punto, occorre verificare se e in che misura anche il politically correct attribuisca tanto potere al significante. È proprio vero, come ho scritto nell’introduzione di Balikbayan, che l’elegante signora romana solo in forza dell’utilizzo di un certo termine avrebbe finito per pensare che le Filippine sono un paese di domestiche? Probabilmente, se se lo fosse chiesto esplicitamente si sarebbe risposta di no, che certamente nelle Filippine la gente fa mille mestieri. Ma se non se lo fosse mai chiesto? Sarebbe arrivata veramente all’equazione filippina=domestica ‘senza pensare’, ovvero senza rendersene conto?

Francesco Sabatini, storico della lingua e già presidente dell’Accademia della Crusca, imposta la questione in modo illuminante: «Non c’è alcun dubbio che, allo stato in cui ognuno riceve la lingua e la usa, questa racchiude e propone una data visione del mondo: la lingua è un binario su cui viaggia il pensiero. È d’altronde questa la sua funzione perché la lingua deve «orientarci» nel mondo; ma dobbiamo renderci pienamente conto di questa sua azione se vogliamo che la nostra mente conservi il controllo di se stessa e non cada sotto l’effetto degli automatismi linguistici» (Sabatini 1993, 11).

Questo mi pare il cuore della questione. Come Tzinacán, la signora romana rischia di cadere sotto l’effetto della formula solo se vi si abbandona, magari in modo inconsapevole. Ma, a differenza del mago, non acquisterebbe alcun potere soprannaturale. Quindi le conviene seguire il consiglio del grande linguista, riflettere sulla situazione, e mantenere il controllo delle proprie opinioni e credenze.

Alla luce di tutto questo, resta da chiederci quale sia l’impatto possibile del politically correct sul linguaggio e sulla realtà esterna al linguaggio. Lo faccio riprendendo un altro esempio presentato prima. In che misura la scelta simbolica di utilizzare il ‘femminile sovraesteso’ nel Regolamento generale di Ateneo può mantenere la questione della parità di genere all’attenzione degli organi di governo dell’Università di Trento? L’intento di superare i pregiudizi è fuori discussione. Affrontare in modo così radicale e coraggioso una forma grammaticale percepita come discriminatoria lancia ipso facto un messaggio positivo. Ma oltre all’intrinseca valenza simbolica, che impatto ha questo comportamento linguistico sulla parità di genere in ateneo?

Rileggendo l’ultima domanda mi rendo conto di star avanzando pretese esagerate. Se il meccanismo del politically correct non è la lingua del Dio di Borges, non è giusto chiedere così tanto al significante. Non si possono riporre speranze eccessive nel suo potere di cambiare il modo di pensare della gente e raddrizzare le odiose storture della nostra società. Naturalmente, ciò non significa che non serve a niente e che possiamo tranquillamente smettere di parlare e scrivere in modo attento e rispettoso. Quando siamo venuti al mondo, la casa dei segni era già stata costruita e completamente arredata. Tuttavia, è dovere di ciascuno di noi partecipare alla sua costante manutenzione e ristrutturazione, anche con il politically correct e i sacrosanti obiettivi che persegue. Ne ho già parlato qui su Ātman Journal (Per un’ecologia della semiosfera). Ma non saremo capaci di compiere neppure la più semplice opera di manutenzione se non impariamo come funziona il meccanismo e se non siamo consapevoli dell’impatto che può avere e soprattutto di dove proprio non può arrivare. È illusorio e a volte controproducente cercare di determinare il cambiamento dell’uso linguistico e, per mezzo di esso, indirizzare le persone verso certe credenze, opinioni e atteggiamenti.

La lingua e la cultura evolvono insieme, lentamente e senza sosta. Lo fanno in modo autenticamente democratico e comunque quasi sempre imprevedibile e incontrollabile. Si tratta di una regione speciale dell’esperienza umana, probabilmente la vera regione capitale, e siamo sempre pronti a ribellarci per difenderne l’indipendenza. Eppure, anche in queste condizioni delicate, una politica linguistica accorta e consapevole è possibile. «Conduttore dell’uso è il popolo dei parlanti (donne e uomini)», ha scritto ancora Sabatini, «ma «assistere» questo conduttore non è proibito» (Sabatini 1993, 13).

Questa considerazione mette fine al discorso che mi ero proposto di sviluppare. Ho contrapposto alcuni episodi personali e familiari a ciò che si intende oggi per politically correct cercando di mettere in luce il ruolo che gioca la funzione magica del linguaggio in questa politica linguistica e il rapporto che istituisce con il popolo dei parlanti, che detiene la sovranità linguistica e la esercita con fiera indipendenza.

Bibliografia

Ferdinand de Saussure. Corso di linguistica generale, a cura di Tullio De Mauro. Bari, Laterza. 1983 [prima edizione Cours de linguistique générale. Paris, Payot. 1916].

Ubaldo Stecconi. Daydreams and Nightmares: A Fearless Anthology of Italian Short Stories, traduzione di Carmina Ma. Veronica Ll. Bautista e Ubaldo Stecconi). Pasig City, Anvil Publishing. 1996.

Ubaldo Stecconi. Balikbayan: Racconti filippini contemporanei. Milano, Feltrinelli. 1999.

Jorge Luis Borges. Obras Completas. Buenos Aires, Emecé editores. 1974, pp. 596-599 [prima edizione nella raccolta El Aleph. Buenos Aires, Losada. 1949].

Alma Sabatini. Il sessismo nella lingua italiana. Roma, Presidenza del Consiglio dei ministri. 1993 [prima edizione 1987].

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