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Agosto
23 Agosto 2024

IL TRION­FO DEL SIGNI­FI­CAN­TE

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  1. Su qua­le cam­po si gio­ca il poli­ti­cal­ly cor­rect?

    Que­sta è una rifles­sio­ne cri­ti­ca, affet­tuo­sa e in par­te auto­bio­gra­fi­ca sul poli­ti­cal­ly cor­rect. Ci sono mol­ti modi per esse­re poli­ti­cal­ly cor­rect, ma tut­ti han­no lo stes­so obiet­ti­vo: uti­liz­za­re le paro­le – e più rara­men­te gli altri segni – per mostra­re che chi par­la nutre un gran­de rispet­to ver­so gli altri, soprat­tut­to ver­so quel­le cate­go­rie di per­so­ne che ven­go­no ingiu­sta­men­te deri­se, discri­mi­na­te o esclu­se. Un’altra carat­te­ri­sti­ca acco­mu­na le diver­se for­me di poli­ti­cal­ly cor­rect che vedia­mo attor­no a noi: il fat­to che il gio­co si svol­ge qua­si esclu­si­va­men­te nel cam­po del signi­fi­can­te. Mi spie­go con un esem­pio. La dif­fe­ren­za fra ‘sot­to­ti­to­la­zio­ne per non uden­ti’ e ‘sot­to­ti­to­la­zio­ne per sor­di’ non sta in ciò che la fra­se vuol dire ma nell’espressione che si usa per dir­lo. Come dico­no i lin­gui­sti, alme­no da quan­do si pos­so­no leg­ge­re le lezio­ni di de Saus­su­re (de Saus­su­re 1983 [1916]), la dif­fe­ren­za fra le due espres­sio­ni non sta nel signi­fi­ca­to ma nel signi­fi­can­te.

    Que­sta impo­sta­zio­ne deve mol­to all’Enciclopedia del­l’I­ta­lia­no Trec­ca­ni, una fon­te di indi­scus­sa auto­ri­tà sul­le que­stio­ni lin­gui­sti­che e cul­tu­ra­li nel nostro pae­se. Rico­pio la voce poli­ti­cal­ly cor­rect: «un orien­ta­men­to ideo­lo­gi­co e cul­tu­ra­le di estre­mo rispet­to ver­so tut­ti, nel qua­le cioè si evi­ta ogni poten­zia­le offe­sa ver­so deter­mi­na­te cate­go­rie di per­so­ne. Secon­do tale orien­ta­men­to, le opi­nio­ni che si espri­mo­no devo­no appa­ri­re esen­ti, nel­la for­ma lin­gui­sti­ca e nel­la sostan­za, da pre­giu­di­zi raz­zia­li, etni­ci, reli­gio­si, di gene­re, di età, di orien­ta­men­to ses­sua­le o rela­ti­vi a disa­bi­li­tà fisi­che o psi­chi­che del­la per­so­na».

    Su ‘rispet­to’ e ‘offe­sa’ non c’è discus­sio­ne; il nostro com­por­ta­men­to indi­vi­dua­le e col­let­ti­vo deve pro­muo­ve­re il pri­mo e ban­di­re la secon­da. Ma l’osservazione fat­ta sopra, ovve­ro che il poli­ti­cal­ly cor­rect è un com­por­ta­men­to lin­gui­sti­co gio­ca­to qua­si del tut­to sul pia­no del signi­fi­can­te, non cor­ri­spon­de alla voce dell’enciclopedia lì dove scri­ve che dob­bia­mo eli­mi­na­re i pre­giu­di­zi «nel­la for­ma lin­gui­sti­ca e nel­la sostan­za». La cop­pia di ter­mi­ni ‘for­ma e sostan­za’ asso­mi­glia a ‘signi­fi­can­te e signi­fi­ca­to’. Seguen­do il mio ragio­na­men­to – e non so se mi pos­so per­met­te­re – avrei scrit­to ‘più nel­la for­ma che nel­la sostan­za’.

    Allo­ra? Come stan­no dav­ve­ro le cose? Quat­tro sto­rie del mio pas­sa­to per­so­na­le e fami­lia­re daran­no cor­po alla que­stio­ne. Vedre­mo poi come que­ste sto­rie dif­fe­ri­sco­no dal poli­ti­cal­ly cor­rect dei gior­ni nostri e fini­re­mo par­lan­do del­la fun­zio­ne magi­ca del lin­guag­gio e del fat­to che la sovra­ni­tà lin­gui­sti­ca appar­tie­ne al popo­lo dei par­lan­ti, che la eser­ci­ta non si sa bene come e qua­si sem­pre – di que­sto sia­mo cer­ti – in tota­le indi­pen­den­za.

    Quat­tro sto­rie

    Bru­na

    Uno dei miei pri­mi ricor­di di bam­bi­no è un ten­ta­ti­vo riu­sci­to di com­bat­te­re l’intolleranza, la mia. Quan­do era­va­mo pic­co­li, mia sorel­la e io pas­sa­va­mo mol­to tem­po con le non­ne, per­ché i nostri geni­to­ri lavo­ra­va­no tut­to il gior­no fuo­ri casa. Cre­sce­re negli anni del boom eco­no­mi­co con due non­ne con­ta­di­ne e mai com­ple­ta­men­te inur­ba­te per men­ta­li­tà e abi­tu­di­ni è una del­le gran­di for­tu­ne del­la mia vita. Osser­van­do e ascol­tan­do loro e i miei geni­to­ri ho capi­to che ci si deve sem­pre com­por­ta­re in modo rispet­to­so ver­so gli altri – sem­pre e con tut­ti. Non ricor­do nes­su­na par­ti­co­la­re ope­ra di per­sua­sio­ne. Me l’hanno pre­sen­ta­to come un fat­to del mon­do in cui ero da poco arri­va­to, assie­me alla costa attor­no a Mon­te Còne­ro e al sapo­re del pane di Vara­no, che fan­no anco­ra così.

    Mia non­na pater­na face­va par­te di un grup­po di tre o quat­tro fami­glie che abi­ta­va­no tut­te in una gran­de casa colo­ni­ca fra gli orti nel­la fra­zio­ne chia­ma­ta Taver­nel­le alle por­te di Anco­na. Il suo cogno­me era Pesa­re­si, ma il clan – per così dire – si chia­ma­va Toma­sò. In que­sta casa mul­ti­fa­mi­lia­re abi­ta­va Bru­na, una ragaz­zi­na con la sin­dro­me di Down e per la qua­le tut­ti ave­va­no un occhio spe­cia­le di riguar­do. Nes­su­no dubi­ta­va che fos­se una Toma­so­na come gli altri, la prin­ci­pa­le dif­fe­ren­za è che cre­scen­do sareb­be rima­sta bam­bi­na. Bru­na era affe­zio­na­ta agli altri bam­bi­ni e quan­do mi vede­va arri­va­re con non­na mi cor­re­va incon­tro con­ten­ta. Io però ero spa­ven­ta­to dal suo aspet­to e dai suoi modi e scap­pa­vo. Osser­van­do la mia rea­zio­ne di fron­te alla disa­bi­li­tà, mia non­na, d’accordo con gli altri Toma­so­ni, adot­tò un sem­pli­ce rime­dio. Quan­do mi por­ta­va dai Toma­so­ni avvi­sa­va la fami­glia di Bru­na, che la face­va usci­re per incon­trar­mi. Così, poco alla vol­ta, impa­rai a star­le accan­to come tut­ti e a gio­car­ci assie­me, anche se un po’ di pau­ra in fon­do mi era rima­sta. Non occor­re aggiun­ge­re che non­na dice­va con gran­de natu­ra­lez­za che Bru­na era ‘mon­go­loi­de’ e con la stes­sa natu­ra­lez­za, come si è visto, espri­me­va il suo estre­mo rispet­to ver­so il pros­si­mo mol­to più nel­la sostan­za che nel­la for­ma.

    Non­no Edoar­do

    A dif­fe­ren­za del­le non­ne con le qua­li sono cre­sciu­to, i non­ni non li ho potu­ti cono­sce­re, ma da uno di loro mi è arri­va­ta una sto­ria che spie­ga for­se meglio di quel­la di Bru­na cosa signi­fi­ca­va per loro il rispet­to incon­di­zio­na­to del pros­si­mo. La mia altra non­na rac­con­ta­va di come non­no Edoar­do, suo mari­to, andò a tro­va­re un gior­no un ami­co all’ospedale. L’amico respi­ra­va male e teme­va­no che aves­se pre­so la tuber­co­lo­si. Allo­ra, per non far­lo sen­ti­re un emar­gi­na­to e dar­gli spe­ran­za che se la sareb­be cava­ta, mio non­no bev­ve dal­lo stes­so bic­chie­re che l’amico mala­to tene­va sul como­di­no accan­to al let­to. Ricor­do l’espressione ras­se­gna­ta negli occhi azzur­ri di non­na. Era cre­sciu­ta in una socie­tà dura e patriar­ca­le e non era abi­tua­ta a met­te­re in discus­sio­ne il suo uomo. Ma me lo face­va capi­re che ave­va fat­to una sce­men­za, anche se in fon­do ammi­ra­va il gesto di affet­to esa­ge­ra­to e fol­le.

    Quat­troc­chi

    La ter­za sto­ria illu­stra che l’orientamento cul­tu­ra­le di incon­di­zio­na­to rispet­to che vede­vo attor­no a me da bam­bi­no si esten­de­va anche all’uso del lin­guag­gio. Era il pri­mo gior­no di scuo­la di mia sorel­la, il pri­mo otto­bre del 1971. Io ero già in ter­za ele­men­ta­re e mi sen­ti­vo mol­to più gran­de di lei, tan­to da cre­de­re di poter­la pren­de­re in giro impu­ne­men­te. Era­va­mo sull’uscio di casa quan­do mi accor­go che era pre­oc­cu­pa­ta di mostrar­si con gli occhia­li, che non le pia­ce­va por­ta­re, ai com­pa­gni di clas­se anco­ra sco­no­sciu­ti. Con la cat­ti­ve­ria stol­ta dei bam­bi­ni – soprat­tut­to dei maschi – le dico con tono can­zo­na­to­rio che è una ‘quat­troc­chi’. Per­ché ricor­do tut­to così bene? Per­ché non ero arri­va­to all’ultima sil­la­ba che mia madre, per espri­me­re in modo con­vin­cen­te il suo dis­sen­so, mi stam­pa uno schiaf­fo­ne in fac­cia e mi infor­ma che non mi dove­vo per­met­te­re mai più. Era un fat­to inau­di­to. Nostra madre era con­vin­ta che non si devo­no mai pic­chia­re i bam­bi­ni e infat­ti non ricor­do altri epi­so­di. Ma il suo orien­ta­men­to ideo­lo­gi­co con­tra­rio all’uso del­la vio­len­za nell’educazione dei figli non le ave­va fat­to per­de­re di vista il buon sen­so. Lo schiaf­fo di quel gior­no, dopo oltre mez­zo seco­lo, con­ser­va tut­ta la sua for­za per­sua­si­va.

    La filip­pi­na mes­si­ca­na

    Pas­sa­no ven­ti­cin­que anni e il poli­ti­cal­ly cor­rect si sta dif­fon­den­do dal­le uni­ver­si­tà ame­ri­ca­ne ver­so il resto del mon­do. Mi tro­vo a inse­gna­re al Depart­ment of English del­la Uni­ver­si­ty of the Phi­lip­pi­nes (U.P.). Fon­da­ta agli ini­zi del Nove­cen­to da pro­fes­so­ri di Har­vard invia­ti nel­la nuo­va colo­nia ame­ri­ca­na oltre il Paci­fi­co, U.P. era diven­ta­ta l’avamposto più occi­den­ta­le del­la tra­di­zio­ne acca­de­mi­ca degli Sta­ti Uni­ti. Pote­te imma­gi­na­re quin­di che nel cam­pus di Mani­la si par­la­va tan­to di poli­ti­cal­ly cor­rect. È que­sto il con­te­sto dell’ultima sto­ria che vor­rei rac­con­ta­re. Ave­vo tra­dot­to e pub­bli­ca­to a Mani­la una rac­col­ta di rac­con­ti ita­lia­ni (Stec­co­ni 1996) e sta­vo cer­can­do di per­cor­re­re la stra­da in sen­so inver­so, ovve­ro pre­sen­ta­re dei rac­con­ti filip­pi­ni ai let­to­ri ita­lia­ni (Stec­co­ni 1999). Un epi­so­dio che mi capi­tò men­tre sta­vo pre­pa­ran­do que­sta secon­da rac­col­ta mi fece capi­re che effet­to fa la man­can­za di rispet­to. Ripren­do l’episodio dall’introduzione del libro.

    «Pas­seg­gia­vo per il cen­tro di Roma un gior­no quan­do mi capi­tò di ascol­ta­re due signo­re ele­gan­ti che con­ver­sa­va­no pochi pas­si die­tro di me. A un cer­to pun­to una dice all’al­tra: “Lui­sa, te l’ho già det­to che ho pre­so una filip­pi­na mes­si­ca­na?”. Rima­si basi­to; da quan­do ave­vo spo­sta­to la resi­den­za a Mani­la, “filip­pi­na” era diven­ta­to sino­ni­mo di “dome­sti­ca”. Di nuo­vo: che male c’è? In fin dei con­ti si trat­ta solo di una paro­la; anzi, maga­ri fini­rà per scal­za­re “colf” che è un ter­mi­ne brut­to e ipo­cri­ta. Ma temo che di que­sto pas­so si fini­sca per pen­sa­re (sen­za pen­sa­re) che le Filip­pi­ne sia­no un pae­se di “filip­pi­ne”. Più in gene­ra­le, occor­re com­bat­te­re l’i­dea che il pae­se sia tan­to oppres­so dal­la insen­sa­ta distri­bu­zio­ne mon­dia­le del­la ric­chez­za da non aver nien­t’al­tro da offri­re che le sue ric­chez­ze natu­ra­li, com­pre­sa una for­za lavo­ro abbon­dan­te e a buon mer­ca­to. Sarà bene pre­ci­sa­re allo­ra che a Mani­la ci sono bra­vis­si­me dome­sti­che e poi ci sono anche otti­mi scrit­to­ri, e mi pare che si pos­sa dire lo stes­so di Stoc­col­ma o di Roma» (Stec­co­ni 1999, 12–13).

    Il trion­fo del signi­fi­can­te

    Le pri­me due sto­rie che ho pre­sen­ta­to rac­con­ta­no com­por­ta­men­ti non ver­ba­li: non­na che mi fa gio­ca­re con Bru­na e il non­no scel­le­ra­to che beve dal bic­chie­re dell’amico mala­to. Le altre due inve­ce rac­con­ta­no com­por­ta­men­ti ver­ba­li: io che pren­do in giro mia sorel­la e la signo­ra roma­na che dice ‘filip­pi­na’ per inten­de­re ‘dome­sti­ca’. La distan­za fra que­sti epi­so­di e il poli­ti­cal­ly cor­rect di oggi è gran­de. Nem­me­no le due ulti­me sto­rie si svol­go­no prin­ci­pal­men­te sul pia­no del signi­fi­can­te, per­ché mia madre rispo­se al mio insul­to di bam­bi­no con un cef­fo­ne, men­tre con un po’ di fan­ta­sia si può pen­sa­re che la pub­bli­ca­zio­ne di Bali­k­ba­yan sia la rispo­sta alla signo­ra roma­na.

    Vedia­mo allo­ra alcu­ni esem­pi di que­sto gio­co lin­gui­sti­co del poli­ti­cal­ly cor­rect – nel sen­so di Witt­gen­stein – che osser­via­mo negli ulti­mi decen­ni e che è tan­to lon­ta­no da come i miei geni­to­ri e i miei non­ni inten­de­va­no il rispet­to del pros­si­mo. Nel 2013 il set­ti­ma­na­le ingle­se The Eco­no­mi­st dava noti­zia di una leg­ge del­lo sta­to ame­ri­ca­no di Washing­ton che ave­va eli­mi­na­to ogni espres­sio­ne ses­sua­ta dai suoi docu­men­ti uffi­cia­li. Per esem­pio, il ter­mi­ne pen­man­ship, ‘bel­la cal­li­gra­fia’, era sta­to sosti­tui­to da hand­w­ri­ting, ‘cal­li­gra­fia’, per­ché al suo inter­no c’è man, che signi­fi­ca ‘uomo’. A gen­na­io del 2023 la School of Social Work del­la Uni­ver­si­ty of Sou­thern Cali­for­nia ha eli­mi­na­to la paro­la “field” (cam­po) per­ché il ter­mi­ne potreb­be esse­re raz­zi­sta pen­san­do ai tem­pi in cui nei cam­pi degli Sta­ti Uni­ti lavo­ra­va­no gli schia­vi. Di con­se­guen­za, l’Office of Field Edu­ca­tion ades­so si chia­ma Offi­ce of Prac­ti­cum Edu­ca­tion. Gli ulti­mi due esem­pi ven­go­no dall’Europa. A mar­zo del 2024, il Con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne dell’Università di Tren­to ha adot­ta­to un nuo­vo Rego­la­men­to gene­ra­le di Ate­neo che uti­liz­za nel­la sua inte­rez­za il ‘fem­mi­ni­le sovrae­ste­so’. Quin­di il ret­to­re Deflo­rian vie­ne desi­gna­to nel rego­la­men­to come «la ret­tri­ce». Lo stes­so avvie­ne per la deca­na, le pro­fes­so­res­se, le com­po­nen­ti del Nucleo di valu­ta­zio­ne, la diret­tri­ce del Siste­ma biblio­te­ca­rio di Ate­neo e così via (qui il comu­ni­ca­to stam­pa pub­bli­ca­to il gior­no dell’approvazione). Infi­ne, a giu­gno del 2024 Euro­news ha usa­to que­sta foto a cor­re­do di una noti­zia su una clas­si­fi­ca del­le miglio­ri uni­ver­si­tà in cui si può coglie­re l’intento di rap­pre­sen­ta­re in modo bilan­cia­to gene­ri e popo­la­zio­ni uma­ne.

    Tabu e magia

    Non pre­sen­to que­sti fat­ti come esem­pi di irra­gio­ne­vo­li ecces­si; sareb­be un giu­di­zio super­fi­cia­le e ingiu­sto. L’intento del­lo sta­to di Washing­ton e dell’Università di Tren­to di non esclu­de­re le don­ne e quel­lo del­la Uni­ver­si­ty of Sou­thern Cali­for­nia di non offen­de­re i neri ame­ri­ca­ni è inne­ga­bi­le e com­men­de­vo­le. Dob­bia­mo applau­di­re anche Euro­news che segna­la la sua sen­si­bi­li­tà ver­so la diver­si­tà etni­ca e di gene­re con un’immagine e non solo con le paro­le. Que­sti fat­ti ven­go­no pre­sen­ta­ti piut­to­sto come esem­pi del feno­me­no che mi sem­bra sia il cuo­re del poli­ti­cal­ly cor­rect: il tabu lin­gui­sti­co, carat­te­riz­za­to dal divie­to di uti­liz­za­re cer­ti signi­fi­can­ti che stan­no per qual­co­sa di inac­cet­ta­bi­le, imba­raz­zan­te o proi­bi­to. Pare che tut­te le cul­tu­re del mon­do cono­sca­no il tabu lin­gui­sti­co nel­le sue diver­se for­me. Tra­di­zio­nal­men­te, riguar­da soprat­tut­to ambi­ti come la magia e il divi­no, il ses­so, la mor­te e la malat­tia. La non­na che mi ha inse­gna­to a gio­ca­re con Bru­na non ha mai pro­nun­cia­to in vita sua la paro­la ‘can­cro’ – dice­va ‘brut­to male’ o ‘malac­cio’ – e quan­do lechie­de­vo per­ché, rispon­de­va che se lo dici lo chia­mi. Anche que­sto con­vin­ci­men­to irra­zio­na­le pare che sia comu­nis­si­mo nel­le cul­tu­re uma­ne. Il coman­da­men­to dei cri­stia­ni che reci­ta «Non nomi­na­re il nome di Dio inva­no» ne è un’espressione.

    Osser­via­mo più da vici­no come fun­zio­na il mec­ca­ni­smo. Si pren­de il signi­fi­can­te di un segno lin­gui­sti­co – come le let­te­re o i suo­ni che tro­via­mo nel­le paro­le ‘can­cro’ oppu­re ‘Yah­weh’, il nome ebrai­co di Dio – e gli si attri­bui­sce la capa­ci­tà magi­ca di evo­ca­re il pote­re del refe­ren­te che esi­ste fuo­ri dal lin­guag­gio: nel nostro caso, una malat­tia poten­zial­men­te mor­ta­le e l’immenso pote­re divi­no. Par­ten­do da que­sta idea Bor­ges ha scrit­to un rac­con­to inti­to­la­to «La escri­tu­ra del Dios» in cui il mago Tzi­na­cán dichia­ra di aver impa­ra­to “una fór­mu­la de cator­ce pala­bras casua­les (que pare­cen casua­les) y me basta­ría decir­la en voz alta para ser todo­po­de­ro­so” («una for­mu­la di quat­tor­di­ci paro­le casua­li (che sem­bra­no casua­li) e mi baste­reb­be pro­nun­ciar­la ad alta voce per esse­re onni­po­ten­te». Bor­ges 1974 [1949], 599. Tra­du­zio­ne dell’autore). Ma per­ché la magia rie­sca è neces­sa­rio obbe­di­re cie­ca­men­te al signi­fi­can­te. Il mago Tzi­na­cán non potreb­be tra­la­scia­re nem­me­no una del­le quat­tor­di­ci paro­le né modi­fi­car­le in alcun modo. La fun­zio­ne magi­ca del lin­guag­gio san­ci­sce il trion­fo incon­tra­sta­to del signi­fi­can­te.

    Come assi­ste­re il popo­lo dei par­lan­ti

    A que­sto pun­to, occor­re veri­fi­ca­re se e in che misu­ra anche il poli­ti­cal­ly cor­rect attri­bui­sca tan­to pote­re al signi­fi­can­te. È pro­prio vero, come ho scrit­to nell’introduzione di Bali­k­ba­yan, che l’elegante signo­ra roma­na solo in for­za dell’utilizzo di un cer­to ter­mi­ne avreb­be fini­to per pen­sa­re che le Filip­pi­ne sono un pae­se di dome­sti­che? Pro­ba­bil­men­te, se se lo fos­se chie­sto espli­ci­ta­men­te si sareb­be rispo­sta di no, che cer­ta­men­te nel­le Filip­pi­ne la gen­te fa mil­le mestie­ri. Ma se non se lo fos­se mai chie­sto? Sareb­be arri­va­ta vera­men­te all’equazione filippina=domestica ‘sen­za pen­sa­re’, ovve­ro sen­za ren­der­se­ne con­to?

    Fran­ce­sco Saba­ti­ni, sto­ri­co del­la lin­gua e già pre­si­den­te dell’Accademia del­la Cru­sca, impo­sta la que­stio­ne in modo illu­mi­nan­te: «Non c’è alcun dub­bio che, allo sta­to in cui ognu­no rice­ve la lin­gua e la usa, que­sta rac­chiu­de e pro­po­ne una data visio­ne del mon­do: la lin­gua è un bina­rio su cui viag­gia il pen­sie­ro. È d’altronde que­sta la sua fun­zio­ne per­ché la lin­gua deve «orien­tar­ci» nel mon­do; ma dob­bia­mo ren­der­ci pie­na­men­te con­to di que­sta sua azio­ne se voglia­mo che la nostra men­te con­ser­vi il con­trol­lo di se stes­sa e non cada sot­to l’ef­fet­to degli auto­ma­ti­smi lin­gui­sti­ci» (Saba­ti­ni 1993, 11).

    Que­sto mi pare il cuo­re del­la que­stio­ne. Come Tzi­na­cán, la signo­ra roma­na rischia di cade­re sot­to l’effetto del­la for­mu­la solo se vi si abban­do­na, maga­ri in modo incon­sa­pe­vo­le. Ma, a dif­fe­ren­za del mago, non acqui­ste­reb­be alcun pote­re sopran­na­tu­ra­le. Quin­di le con­vie­ne segui­re il con­si­glio del gran­de lin­gui­sta, riflet­te­re sul­la situa­zio­ne, e man­te­ne­re il con­trol­lo del­le pro­prie opi­nio­ni e cre­den­ze.

    Alla luce di tut­to que­sto, resta da chie­der­ci qua­le sia l’impatto pos­si­bi­le del poli­ti­cal­ly cor­rect sul lin­guag­gio e sul­la real­tà ester­na al lin­guag­gio. Lo fac­cio ripren­den­do un altro esem­pio pre­sen­ta­to pri­ma. In che misu­ra la scel­ta sim­bo­li­ca di uti­liz­za­re il ‘fem­mi­ni­le sovrae­ste­so’ nel Rego­la­men­to gene­ra­le di Ate­neo può man­te­ne­re la que­stio­ne del­la pari­tà di gene­re all’attenzione degli orga­ni di gover­no dell’Università di Tren­to? L’intento di supe­ra­re i pre­giu­di­zi è fuo­ri discus­sio­ne. Affron­ta­re in modo così radi­ca­le e corag­gio­so una for­ma gram­ma­ti­ca­le per­ce­pi­ta come discri­mi­na­to­ria lan­cia ipso fac­to un mes­sag­gio posi­ti­vo. Ma oltre all’intrinseca valen­za sim­bo­li­ca, che impat­to ha que­sto com­por­ta­men­to lin­gui­sti­co sul­la pari­tà di gene­re in ate­neo?

    Rileg­gen­do l’ultima doman­da mi ren­do con­to di star avan­zan­do pre­te­se esa­ge­ra­te. Se il mec­ca­ni­smo del poli­ti­cal­ly cor­rect non è la lin­gua del Dio di Bor­ges, non è giu­sto chie­de­re così tan­to al signi­fi­can­te. Non si pos­so­no ripor­re spe­ran­ze ecces­si­ve nel suo pote­re di cam­bia­re il modo di pen­sa­re del­la gen­te e rad­driz­za­re le odio­se stor­tu­re del­la nostra socie­tà. Natu­ral­men­te, ciò non signi­fi­ca che non ser­ve a nien­te e che pos­sia­mo tran­quil­la­men­te smet­te­re di par­la­re e scri­ve­re in modo atten­to e rispet­to­so. Quan­do sia­mo venu­ti al mon­do, la casa dei segni era già sta­ta costrui­ta e com­ple­ta­men­te arre­da­ta. Tut­ta­via, è dove­re di cia­scu­no di noi par­te­ci­pa­re alla sua costan­te manu­ten­zio­ne e ristrut­tu­ra­zio­ne, anche con il poli­ti­cal­ly cor­rect e i sacro­san­ti obiet­ti­vi che per­se­gue. Ne ho già par­la­to qui su Ātman Jour­nal (Per un’ecologia del­la semio­sfe­ra). Ma non sare­mo capa­ci di com­pie­re nep­pu­re la più sem­pli­ce ope­ra di manu­ten­zio­ne se non impa­ria­mo come fun­zio­na il mec­ca­ni­smo e se non sia­mo con­sa­pe­vo­li dell’impatto che può ave­re e soprat­tut­to di dove pro­prio non può arri­va­re. È illu­so­rio e a vol­te con­tro­pro­du­cen­te cer­ca­re di deter­mi­na­re il cam­bia­men­to dell’uso lin­gui­sti­co e, per mez­zo di esso, indi­riz­za­re le per­so­ne ver­so cer­te cre­den­ze, opi­nio­ni e atteg­gia­men­ti.

    La lin­gua e la cul­tu­ra evol­vo­no insie­me, len­ta­men­te e sen­za sosta. Lo fan­no in modo auten­ti­ca­men­te demo­cra­ti­co e comun­que qua­si sem­pre impre­ve­di­bi­le e incon­trol­la­bi­le. Si trat­ta di una regio­ne spe­cia­le dell’esperienza uma­na, pro­ba­bil­men­te la vera regio­ne capi­ta­le, e sia­mo sem­pre pron­ti a ribel­lar­ci per difen­der­ne l’indipendenza. Eppu­re, anche in que­ste con­di­zio­ni deli­ca­te, una poli­ti­ca lin­gui­sti­ca accor­ta e con­sa­pe­vo­le è pos­si­bi­le. «Con­dut­to­re dell’uso è il popo­lo dei par­lan­ti (don­ne e uomi­ni)», ha scrit­to anco­ra Saba­ti­ni, «ma «assi­ste­re» que­sto con­dut­to­re non è proi­bi­to» (Saba­ti­ni 1993, 13).

    Que­sta con­si­de­ra­zio­ne met­te fine al discor­so che mi ero pro­po­sto di svi­lup­pa­re. Ho con­trap­po­sto alcu­ni epi­so­di per­so­na­li e fami­lia­ri a ciò che si inten­de oggi per poli­ti­cal­ly cor­rect cer­can­do di met­te­re in luce il ruo­lo che gio­ca la fun­zio­ne magi­ca del lin­guag­gio in que­sta poli­ti­ca lin­gui­sti­ca e il rap­por­to che isti­tui­sce con il popo­lo dei par­lan­ti, che detie­ne la sovra­ni­tà lin­gui­sti­ca e la eser­ci­ta con fie­ra indi­pen­den­za.

    Biblio­gra­fia

    Fer­di­nand de Saus­su­re. Cor­so di lin­gui­sti­ca gene­ra­le, a cura di Tul­lio De Mau­ro. Bari, Later­za. 1983 [pri­ma edi­zio­ne Cours de lin­gui­sti­que géné­ra­le. Paris, Payot. 1916].

    Ubal­do Stec­co­ni. Day­dreams and Night­ma­res: A Fear­less Antho­lo­gy of Ita­lian Short Sto­ries, tra­du­zio­ne di Car­mi­na Ma. Vero­ni­ca Ll. Bau­ti­sta e Ubal­do Stec­co­ni). Pasig City, Anvil Publi­shing. 1996.

    Ubal­do Stec­co­ni. Bali­k­ba­yan: Rac­con­ti filip­pi­ni con­tem­po­ra­nei. Mila­no, Fel­tri­nel­li. 1999.

    Jor­ge Luis Bor­ges. Obras Com­ple­tas. Bue­nos Aires, Eme­cé edi­to­res. 1974, pp. 596–599 [pri­ma edi­zio­ne nel­la rac­col­ta El Ale­ph. Bue­nos Aires, Losa­da. 1949].

    Alma Saba­ti­ni. Il ses­si­smo nel­la lin­gua ita­lia­na. Roma, Pre­si­den­za del Con­si­glio dei mini­stri. 1993 [pri­ma edi­zio­ne 1987].

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