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Luglio
13 Luglio 2023

IL PUGI­LE

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Red Ber­nar­di era un pugi­le, e Red era il suo vero nome. Un brut­to scher­zo del­la madre, ammi­ra­tri­ce sfe­ga­ta­ta – ma non abba­stan­za da sape­re che si trat­tas­se di un nome d’ar­te – di Red Can­zian, quel­lo dei Pooh. Al ritor­no dal­l’a­na­gra­fe il padre di Red pestò per bene la moglie, ma ormai era fat­ta.

Parec­chi anni dopo Red face­va il but­ta­fuo­ri, a tar­da sera, e l’uo­mo di fati­ca ai mer­ca­ti gene­ra­li, drit­to fino all’al­ba. Di gior­no dor­mi­va. Era un pugi­le pome­ri­dia­no.

Era sta­to un buon peso medio, da gio­va­ne due vol­te Cam­pio­ne Nazio­na­le. A ven­ti­quat­tro anni s’e­ra gio­ca­to anche la cin­tu­ra Euro­pea, ma era usci­to a pez­zi dal ring. Da allo­ra era anda­to giù qual­che vol­ta, altre ave­va vin­to, ma non ave­va pen­sa­to che alla bor­sa. Sape­va di dover met­te­re qual­co­sa da par­te per la vec­chia­ia, ma lo stes­so non gli era riu­sci­to.

A tren­ta­sei anni suo­na­ti si cam­pa­va a fati­ca, ma non rinun­cia­va mai ad alle­nar­si con meto­do. Boxa­re gli pia­ce­va, e i chi­li pre­si in dodi­ci anni l’a­ve­va­no tra­sfor­ma­to in un medio­mas­si­mo piut­to­sto agi­le.

Nei fine set­ti­ma­na anda­va in giro in tut­ta Ita­lia a far­si met­te­re al tap­pe­to dai gio­va­ni emer­gen­ti per una busta sot­ti­le di ban­co­no­te.

E ave­va appun­to tren­ta­sei anni fat­ti quan­do rice­vet­te una chia­ma­ta di quel­le che cam­bia­no la vita.

“Red, sono Don.”

“Don, vec­chio bastar­do. Di soli­to ti fai sen­ti­re solo per dar­mi brut­te noti­zie.”

“Sta­vol­ta è diver­so Red.”

“Spa­ra.”

“Sei pron­to?”

“Sì, dim­mi.”

“Inten­do: sei pron­to per com­bat­te­re? Sei in for­ma?”

“Don, non ser­ve ad un caz­zo che sia in for­ma. Devo anda­re giù quan­do me lo dite voi e per far­lo non c’è biso­gno di esse­re in for­ma.”

“Ti ho det­to che sta­vol­ta è diver­so, Red. Devi esse­re bel­lo. Sem­bra­re una bestia. Dura­re cin­que round alme­no.”

“Sai che fati­ca, Don. L’ul­ti­ma vol­ta sono dura­to otto a pren­de­re carez­ze da quel ragaz­zot­to di Mila­no. Ave­va mani come piu­me ed è sta­ta dura arri­va­re ad otto per­ché mi sta­vo addor­men­tan­do. Cin­que ripre­se? È fat­ta. Dim­mi dove e soprat­tut­to… Quan­to.”

“Un milio­ne. Red, com­bat­ti per il tito­lo.”

“Pian­ta­la di dir caz­za­te Don. E pian­ta­la anche di pre­ten­de­re di esser chia­ma­to Don, che sei ridi­co­lo.”

“E tu che ti chia­mi Red?”

“Mi c’ha chia­ma­to mia madre, a me. Ma a te no. Tu sei Danie­le.”

“Ok, lascia­mo per­de­re. Ascol­ta, non dico caz­za­te Red. Ti voglio­no come sfi­dan­te di Patrick Kea­ne, il Cam­pio­ne Euro­peo.”

“Oh mer­da.”

“Hai det­to bene Red. Cin­que ripre­se. Devi sta­re su cin­que ripre­se alme­no.”

“Non è sem­pli­ce. Quel­lo ha pugni pesan­ti, caz­zo. Quan­do ha vin­to il tito­lo ha ste­so il tede­sco con un solo mon­tan­te.”

“Cin­que ripre­se Red. E non dovrai più sca­ri­ca­re frut­ta ai mer­ca­ti gene­ra­li.”

“Quan­do?”

“Un mese, a Dubli­no.”

“Ma per­ché pro­prio io?”

“Voglio­no ven­de­re il match anche in Ame­ri­ca, striz­za­no l’oc­chio alle comu­ni­tà irlan­de­si e ita­lia­ne. Ormai agli ame­ri­ca­ni fa schi­fo la boxe. A noi che ci fre­ga? A noi inte­res­sa che ci sei tu.”

“Ma ho tren­ta­sei anni, non capi­sco.”

“Ascol­ta Red, non fare l’in­ge­nuo. Han­no scel­to te per­ché devi per­de­re. Hai un bel pas­sa­to, in Euro­pa qual­cu­no si ricor­da anco­ra del­l’in­con­tro per il tito­lo… Caz­zo è sta­ta una bat­ta­glia quel­la. Gli orga­niz­za­to­ri san­no che sei affi­da­bi­le. Se devi anda­re giù, lo farai. Sen­ti, te lo dico sin­ce­ra­men­te. Kea­ne è a pez­zi, flac­ci­do e len­to. Non fa altro che bere Guin­ness e sco­pa­re qua­lun­que cosa gli capi­ti a tiro. I suoi mi dico­no che non vin­ce­reb­be con­tro un bam­bi­no di die­ci anni. Ma non ha con­ces­so sfi­de per il tito­lo per trop­po tem­po, e la Fede­ra­zio­ne gli ha impo­sto di met­ter­lo in palio. Ovvia­men­te non lo vuo­le per­de­re. Per cui deve sem­bra­re tut­to vero. Cin­que ripre­se e cam­bi vita. Ci con­to?”

“Capi­to, Don. Con­ta­ci. E gra­zie.”

Don riag­gan­ciò.

Red si rese con­to che era una di quel­le pro­po­ste che non si pos­so­no rifiu­ta­re.

Si rese anche con­to che avreb­be com­bat­tu­to per il tito­lo, ma che sta­vol­ta non avreb­be per­so il son­no per le set­ti­ma­ne pre­ce­den­ti il match, come ave­va fat­to a ven­ti­quat­tro anni, sognan­do la vit­to­ria. Sta­vol­ta non ave­va nul­la da sogna­re, se non i sol­di.

Red si mise la bor­sa in spal­la e uscì per anda­re in pale­stra. Era deci­so a non dire a nes­su­no del match. Pote­va­no solo rom­per­gli le pal­le, o chie­der­gli un pre­sti­to. Sape­va come anda­va­no cer­te cose. E sape­va anche alle­nar­si da solo, come face­va da anni.

Appe­na entra­to in pale­stra sen­tì subi­to l’o­do­re di sudo­re stan­tio e di cre­ma per il riscal­da­men­to. Gli pia­ce­va anco­ra. Ma sen­tì anche un gran­de silen­zio. Tut­ti s’e­ra­no fer­ma­ti, e vol­ta­ti ver­so di lui. Lo guar­da­ro­no con un misto di ammi­ra­zio­ne e di invi­dia.

Capì che era fot­tu­to: la noti­zia era sta­ta più velo­ce. Fran­co, il pro­prie­ta­rio del­la pale­stra, pian­tò un novel­li­no e gli si fece incon­tro. Lo guar­dò con serie­tà stu­dia­ta, e gli det­te una mana­ta leg­ge­ra sul pet­to, pro­prio sopra al cuo­re. “Red. Se hai biso­gno sai che sono qui.”

Red lo odia­va. Anda­va in quel­la pale­stra solo da quan­do s’e­ra deci­so a fare il-pugi­le-che-va-al-tap­pe­to-per-sol­di e sola­men­te per­ché era la più eco­no­mi­ca del­la cit­tà. Ma Fran­co non vale­va nul­la, e di pugi­la­to non capi­va un caz­zo.

Così lo igno­rò e si avviò al suo ango­li­no, dove pre­se a sal­ta­re un po’ la cor­da. Len­ta­men­te, tut­ti si rimi­se­ro a far le pro­prie cose.

Red pas­sò alla pera, alter­nan­do col­pi len­ti a col­pi velo­ci. Era distrat­to, non riu­sci­va a con­cen­trar­si. Avreb­be com­bat­tu­to per il tito­lo, caz­zo. Ma non era la cosa giu­sta da pen­sa­re. Dove­va pen­sa­re a resta­re in pie­di cin­que ripre­se, a scam­bia­re un po’ di bei col­pi con Kea­ne, poi a sdra­iar­si al tap­pe­to con mol­to rea­li­smo. E ad incas­sa­re. Soprat­tut­to ad incas­sa­re. Men­tre con­ti­nua­va a col­pi­re la pera, comin­ciò a sen­tir­si osser­va­to: qual­co­sa gli piz­zi­ca­va in mez­zo alle sca­po­le. Fer­mò il pic­co­lo sac­co e si girò di scat­to.

C’e­ra un ragaz­zi­no, Enzo, lo cono­sce­va.

La pri­ma cosa che pen­sò è che dove­va ave­re una deci­na d’an­ni, e anche lui avreb­be potu­to bat­te­re Kea­ne, stan­do a quel che dice­va Don.

“Ciao Enzo, tut­to ok?”

“È vero che com­bat­te­rai per il tito­lo, Red?”

“Sì, è vero.”

“E vin­ci?”

Red rise. Ma era un sor­ri­so tri­ste. Al ragaz­zi­no vole­va far­lo sem­bra­re solo il ghi­gno di chi ha la sola cer­tez­za che pren­de­rà un sac­co di bot­te.

“Non lo so Enzo, non lo so” – dis­se, toc­can­do­gli una spal­la col guan­to­ne – “Vedi, quel­lo è il Cam­pio­ne. Pic­chia for­te. Pen­so abbia per­so una sola vol­ta.”

“Due.”

“Ah, ti sei già infor­ma­to?”

“Ho guar­da­to su Inter­net. Su Inter­net dico­no che sia fuo­ri for­ma, che fac­cia tar­di la not­te e beva mol­to.”

Red alzò le spal­le.

“Inter­net non è la Bib­bia. Gira­no un sac­co di caz­za­te. Io so solo che lui è il Cam­pio­ne, e io devo alle­nar­mi al mas­si­mo.”

“Cer­to Red, scu­sa. È che… Che voglio che tu vin­ci, ecco. Vin­ci per noi Red.”

A Red non rima­se una sola goc­cia di sali­va in boc­ca. Gli fece un cen­no con la testa e si girò ver­so la pera. Fin­se di aggiu­star­si i guan­to­ni, striz­zò gli occhi umi­di e ripre­se a boxa­re pia­no. Sen­tì il ragaz­zi­no allon­ta­nar­si. Gli pia­ce­va, Enzo, e gli pia­ce­va­no tut­ti quei ragaz­zi­ni che anda­va­no in pale­stra per non fini­re in brut­ti giri. Quel­li che ave­va­no fret­ta di arri­va­re a quat­tor­di­ci anni non per ave­re il moto­ri­no, ma per poter boxa­re coi gran­di. Quel­li che non vole­va­no ave­re una vita di mer­da, e per far­ce­la non cer­ca­va­no scor­cia­to­ie.

Red pen­sò anco­ra che entro un mese avreb­be com­bat­tu­to per il tito­lo. Quel pen­sie­ro lo distur­ba­va. In pale­stra era impos­si­bi­le con­cen­trar­si. Deci­se di anda­re a cor­re­re fuo­ri. Si cam­biò le scar­pe, infi­lò una giac­ca e uscì in stra­da, dove il sole sta­va già lascian­do spa­zio alla sera. Una mez­z’o­ret­ta, non di più, pri­ma di far­si la doc­cia e anda­re al pub a fare il but­ta­fuo­ri. Cin­que ripre­se e non avreb­be dovu­to pen­sar­ci più. Al pub ci sareb­be anda­to per bere, non per lavo­ra­re.

Nei gior­ni seguen­ti la noti­zia che avreb­be com­bat­tu­to per il tito­lo comin­ciò a cir­co­la­re anche fuo­ri dal­l’am­bien­te. Per stra­da lo rico­no­sce­va­no tut­ti: era un figlio del quar­tie­re. Quel nome, Red, era tor­na­to a cir­co­la­re sul­le lab­bra di tan­ti che lo pro­nun­cia­va­no con orgo­glio. C’e­ra la coda a dire ‘io l’ho visto cre­sce­re’.

A Red tut­ta quel­l’at­ten­zio­ne non pia­ce­va. Sta­vol­ta no. A ven­ti­quat­tro anni sì, lo ricor­da­va. Allo­ra si sen­ti­va il Re del­la cit­tà, nei mesi pre­ce­den­ti la sfi­da per il tito­lo. La scon­fit­ta non ave­va cam­bia­to nul­la, era sta­to un gran com­bat­ti­men­to e tut­ti ave­va­no visto che leo­ne fos­se il loro ragaz­zo.

Ma sta­vol­ta no.

Sta­vol­ta Red sape­va che li avreb­be delu­si. Sape­va di dover reci­ta­re, e si sareb­be ver­go­gna­to.

Si sta­va già ver­go­gnan­do.

Quel­li a guar­dar­lo con mag­gior inte­res­se era­no gli uomi­ni che vive­va­no fuo­ri dal­le sale scom­mes­se. Li ave­va sem­pre visti fuo­ri, rara­men­te den­tro. For­se per­ché den­tro ci anda­va­no a gio­ca­re i pivel­li. Le scom­mes­se vere si face­va­no fuo­ri. Il Gob­bo gli andò a par­la­re. Il Gob­bo non si chia­ma­va così per­ché fos­se cur­vo, ma per­ché sug­ge­ri­va agli altri cosa doves­se­ro dire. E fare. Era sag­gio segui­re i suoi sug­ge­ri­men­ti.

Red lo sape­va, e non gli pia­ce­va.

“Red, tut­ti cre­dia­mo in te. Non ci delu­de­re.”

“Gra­zie. Non vi delu­de­rò. Ora, anzi, vado ad alle­nar­mi.”

“Cos’è tut­ta que­sta fret­ta” – dis­se il Gob­bo, spin­gen­do un brac­cio fin sul­le spal­le di Red. Il Gob­bo era bas­so. “Dic­ci alme­no come stai, Red.”

“Bene, sto bene.”

“Bene, tipo che vin­ce­rai?”

“Bene, tipo che… Che ci pro­ve­rò. Ma non sarà faci­le.”

“Ah, non sarà faci­le. Ho capi­to. Bene. Dodi­ci ripre­se sono tan­te, eh? Non fini­sce mai un match per il tito­lo.”

“Sì, sono lun­ghe.”

“Ma anche otto sono mol­te.”

“Sì, anche otto sono dure da tene­re.”

“Sei, inve­ce, sei si ten­go­no.”

“Eh, di soli­to sei si fan­no bene.”

“Ma sta­vol­ta…” – comin­ciò il Gob­bo.

“… Ma sta­vol­ta è dura. È il Cam­pio­ne quel­lo. Anche arri­va­re a sei è dura.”

“Maga­ri ci accon­ten­tia­mo anche di qual­co­sa meno, eh, Red?”

“Può esse­re, sì. Chis­sà, può esse­re. Qual­co­sa meno.”

“Ho capi­to, Red. Roger. Non ci delu­de­re.”

“No, Gob­bo, non vi delu­de­rò.”

“Sei un bra­vo figlio­lo, Red.”

“Gra­zie. Pos­so anda­re in pale­stra ora?”

“Ma cer­to, Red, cer­to. Ci vedia­mo a Dubli­no.”

“Vie­ni anche tu?”

“Cre­do di sì, Red. Sarò lì con alcu­ni ami­ci. Chis­sà che alla fine non ti si fac­cia un rega­li­no. Se tu ci rega­li un buon match… Chis­sà.”

Red si allon­ta­nò. Era com­ple­ta­men­te madi­do di sudo­re. Ora ave­va addos­so anche quel­li.

Arri­vò in pale­stra e la pri­ma per­so­na che vide fu Enzo. “Hai cor­so, Red?”

Red gli sor­ri­se, stan­co.

“Sì, ho cor­so. Tu ti sei alle­na­to come si deve?”

“Sì Red, alla gran­de. Come fai tu.”

“Bra­vo Enzi­no” – dis­se il pugi­le, strin­gen­do­gli ami­che­vol­men­te la base del col­lo e asse­stan­do­gli un col­pet­to.

“Da gran­de voglio esse­re come te, Red.”

Red sbian­cò. Sti­rac­chiò anco­ra un sor­ri­so.

“Non sono per­fet­to, Enzo.”

“Non impor­ta. Sei un gran­de pugi­le. E vin­ce­rai.”

“Potrei non vin­ce­re Enzo. Potrei per­de­re. Potreb­be met­ter­mi KO.”

“Ma tu ti impe­gni tan­to, Red. Te lo meri­ti più di tut­ti.”

“Ti rin­gra­zio. Ma potreb­be non basta­re.”

“Ma non è giu­sto!” – sbot­tò il ragaz­zo.

“La vita non è giu­sta, Enzo. Ricor­da­lo” – dis­se Red – pri­ma di aggiun­ge­re, fra sé e sé, infi­lan­do­si nel­la por­ta: “La vita è una mer­da.”

Col­pì il sac­co furio­sa­men­te per tut­to il tem­po del­l’al­le­na­men­to, fino a far­si cade­re le brac­cia. Si fece la doc­cia, andò al pub e annun­ciò al pro­prie­ta­rio che non avreb­be più lavo­ra­to lì.

Era tem­po di anda­re a Dubli­no.

***

A metà del­la ter­za ripre­sa Red dove­va anco­ra riscal­dar­si. Kea­ne era più flac­ci­do di quan­to aves­se­ro det­to. Col­pi­va mol­le, non face­va male. Era len­to, pre­ve­di­bi­le. Red era in for­ma, avreb­be potu­to sten­der­lo.

E comin­ciò a pen­sar­ci.

Comin­ciò a pen­sa­re che ave­va la pos­si­bi­li­tà di vin­ce­re il tito­lo. Di rea­liz­za­re il sogno dal qua­le dodi­ci anni pri­ma ave­va dovu­to sve­gliar­si.

Cam­pio­ne.

Sareb­be sta­to per sem­pre un Cam­pio­ne. S’im­ma­gi­nò nei salot­ti del­la tele­vi­sio­ne, da vec­chio, a com­men­ta­re i match. S’im­ma­gi­nò inter­vi­sta­to da gior­na­li e tv per set­ti­ma­ne. Sognò quan­to doves­se esse­re pia­ce­vo­le il peso di quel­la cin­tu­ra.

Arri­vò anche il gong del­la ter­za ripre­sa. Red era sta­to atten­to ad incas­sa­re qual­che col­po, e rifi­lar­ne anche alcu­ni discre­ti. Era­no sta­te tre ripre­se che gli esper­ti avreb­be­ro defi­ni­to ‘inter­lo­cu­to­rie’.

Sedu­to sul­lo sga­bel­li­no al pro­prio ango­lo, Red si guar­dò attor­no. Non face­va caso alla spu­gna che il mas­sag­gia­to­re gli pas­sa­va sul­la testa. In pri­ma fila scor­se il ghi­gno del Gob­bo. Era venu­to sul serio, alla fine. Quei tizi abbi­glia­ti in manie­ra tutt’altro che sobria al suo fian­co dove­va­no esse­re gli ami­ci. Sta­va­no sor­ri­den­do in dire­zio­ne di Red.

Il pugi­le si pre­oc­cu­pò.

Die­tro le cor­de Don con­ti­nua­va a dir­gli che anda­va tut­to bene, che man­ca­va­no solo due ripre­se, di non fare caz­za­te e di pen­sa­re ad un futu­ro sere­no.

Red comin­ciò la quar­ta ripre­sa distrat­to, e incas­sò un mon­tan­te. Ai tem­pi d’o­ro di Kea­ne, quel­lo avreb­be signi­fi­ca­to un KO. Red inve­ce lo sen­tì ben bene sul­la man­di­bo­la, ma nem­me­no gli si pie­ga­ro­no le gam­be.

In quel momen­to Red capì che avreb­be dav­ve­ro potu­to vin­ce­re il match e lau­rear­si Cam­pio­ne.

Chiu­se l’av­ver­sa­rio all’an­go­lo e pre­se a col­pir­lo ai fian­chi nel cor­po a cor­po. L’ir­lan­de­se a mala­pe­na rea­gi­va. Red pen­sa­va ad Enzi­no. Pen­sa­va a quan­to sareb­be sta­to con­ten­to di veder­lo entra­re in pale­stra con la gros­sa cin­tu­ra di Cam­pio­ne in vita. Pen­sò anche a quan­to al ragaz­zo sareb­be pia­ciu­to indos­sar­la, per gio­co.

Arri­vò la cam­pa­na che Red sta­va anco­ra pen­san­do a cosa avreb­be det­to alla tele­vi­sio­ne, nel­la pri­ma inter­vi­sta dopo il match.

“Che caz­zo fai?” – gli urlò nel­l’o­rec­chio Don.

“Si può sape­re che caz­zo stai com­bi­nan­do Red? Hai volu­to reci­ta­re per bene? Ecco, ci sei riu­sci­to. La gen­te s’è diver­ti­ta, sia­mo a posto. Alla pros­si­ma vol­ta che ti toc­ca in fac­cia fini­sci lun­go diste­so, e non ti rial­zi fino a che non smon­ta­no il ring, inte­si?”

Red nem­me­no guar­dò il mana­ger.

“Red, non fare caz­za­te. So a cosa stai pen­san­do. Ecco, non ci pen­sa­re. Se vai giù ades­so, con la bor­sa che ti dan­no cam­pi alla gran­de tut­ta la vita. Se fai la caz­za­ta inve­ce non so quan­to ti riman­ga da sta­re al mon­do. Capi­to?”

Dal suo ango­lo, Red guar­dò ver­so il Gob­bo e i suoi ami­ci. Non gli sor­ri­de­va­no più.

Comin­ciò la quin­ta ripre­sa.

Al pri­mo jab di Kea­ne, Red die­de segui­to alla sua deci­sio­ne del­l’ul­ti­mo momen­to e finì a ter­ra con un tuf­fo. Men­tre vola­va giù, pen­sa­va ad Enzo. Il ragaz­zo avreb­be dovu­to rin­gra­ziar­lo per la lezio­ne che gli sta­va dan­do. “La vita è una mer­da, Enzo. Abi­tua­ti e non reste­rai delu­so”.

Ales­san­dro Mar­chi

 

 

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