4

Luglio
4 Luglio 2025

IL FAN­TA­SMA DEL­LA LIBER­TÀ: VIAG­GIO IN TUSHE­TI

0 CommentI
41 visualizzazioni
34 min

Dei tush si dico­no tre cose: che par­la­no la lin­gua batsi, che non man­gia­no mai il maia­le e che ucci­do­no le bestie su alta­ri di pie­tra. In esta­te fan­no festa nei pro­pri vil­lag­gi men­tre in inver­no scom­pa­io­no. Per il trop­po fred­do e per la trop­pa neve, scen­do­no a val­le nel Kakhe­ti o, anco­ra più a sud, ver­so il deser­to di Vashlo­va­ni.

Si potreb­be pen­sa­re a un popo­lo noma­de, ma sareb­be un erro­re: i tush esi­sto­no dav­ve­ro solo quan­do sono in Tushe­ti, anche se per pochi mesi l’anno; per il resto del tem­po si adat­ta­no a vive­re come gli altri geor­gia­ni. 

In que­sto sce­na­rio pie­tri­fi­ca­to sul­le cime del Cau­ca­so, alcu­ni uomi­ni si fan­no custo­di del regno. Sono per lo più gio­va­ni, con la testa gros­sa e ton­da come le uova, i capel­li cor­ti come tut­ti i sovie­ti­ci e, se non fos­se per loro, for­se que­sta lin­gua di ter­ra, inca­sto­na­ta tra la Cece­nia e il Dage­stan, non appar­ter­reb­be più alla Geor­gia, ma alla Rus­sia. Eppu­re, non lo san­no. Alla doman­da per­ché resti, esi­ste solo una rispo­sta: per­ché sì. 

E sen­za par­la­re il batsi, sen­za defi­nir­si ani­mi­sti o dare spie­ga­zio­ni sul maia­le, brin­da­no ammuc­chia­ti den­tro un’unica stan­za.

Qual­cu­no alza il bic­chie­re e gri­da: «Gau­ma­r­jos!» che in geor­gia­no vuol dire ciao ma anche cin­cin, e que­sto dovreb­be far riflet­te­re su un pae­se che si ubria­ca nel­lo stes­so modo in cui si salu­ta al mat­ti­no. Gli altri into­na­no: «Gau­ma­r­jos!» e noi, sedu­ti su una tra­ve, con loro.

Tut­to quel­lo che ser­vi­rà per vive­re

È pro­prio otto­bre, quan­do par­tia­mo da Tbi­li­si per il Tushe­ti e, men­tre scen­dia­mo da un taxi gui­da­to da uno scet­ti­cis­si­mo aze­ro, e poi risa­lia­mo ver­so nord-est con un pul­mi­no da dodi­ci posti che qui chia­ma­no mar­sh­ru­t­ke, e infi­ne ci com­pri­mia­mo su una Suba­ru cine­se, il cie­lo cala e si adden­sa. La piog­gia con­ge­la. 

Cer­to, stia­mo salen­do, ma più che nel­lo spa­zio, sem­bra di viag­gia­re nel tem­po, di affret­tar­si in un autun­no che fino­ra non ha fat­to capo­li­no nem­me­no in Geor­gia, dove il cal­do arden­te e il fred­do odio­so sono sim­bo­li nazio­na­li di resi­sten­za. 

Ira­kli, con un naso stret­to e spor­gen­te, rac­co­glie me, il mio com­pa­gno di viag­gio e la nostra tra­dut­tri­ce di fron­te alle latri­ne di Alva­ni, die­tro un edi­fi­cio pub­bli­co dismes­so. 

Cari­chia­mo la spe­sa in bau­lie­ra: ven­ti­quat­tro uova, die­ci kha­cha­pu­ri, le pata­te, le cipol­le e il caf­fè solu­bi­le, cioè tut­to quel­lo che ser­vi­rà per vive­re. 

Pri­ma di usci­re dall’asfalto, ci fer­mia­mo con la mac­chi­na di fron­te a una fine­strel­la, c’è una men­so­la con sopra del­le meren­di­ne e dei ceri­ni, Ira­kli com­pra una bibi­ta aran­cio­ne a testa e ce le lan­cia sopra i sedi­li.

Salu­ta il signo­re die­tro il ban­co come fos­se un ami­co, e da lì ini­zia­no le buche. 

Pre­sto le fiu­ma­ne di peco­re che scen­do­no a val­le tra­sfor­ma­no il tra­git­to in un sin­ghioz­zo e gli zoc­co­li attac­ca­ti alle gam­bet­te sot­ti­li sdruc­cio­la­no sul ciglio. Allun­go lo sguar­do ver­so il bur­ro­ne, ma qual­co­sa mi fa tra­sa­li­re. 

Ora ricor­do la fra­se: «Lo sai che que­sta è la stra­da più peri­co­lo­sa del mon­do?»

Cer­to, ma sarà solo dopo: con una bufe­ra di neve che tra­sfor­ma i fioc­chi in sas­si sul para­brez­za. Oppu­re quan­do Ira­kli sospi­ra guar­dan­do una cur­va, ed è evi­den­te che è un uomo che sospi­ra di rado. Sarà men­tre fuo­ri, fis­san­do la neb­bia, le sue scar­pe diven­ta­no bian­che, e noi dob­bia­mo ave­re fidu­cia. 

Sarà solo a quel pun­to che me ne ren­de­rò con­to. 

La stra­da

Per rag­giun­ge­re il Tushe­ti biso­gna attra­ver­sa­re il pas­so di Aba­no a 3.000 metri, ridi­scen­de­re ver­so il fiu­me Ala­za­ni e, dun­que, risa­li­re. 

La via si iner­pi­ca sul Cau­ca­so nord-ordien­ta­le del­la Geor­gia come una capra mon­ta­na: si viag­gia sem­pre di sbie­co. Dopo i pri­mi ven­ti chi­lo­me­tri gli albe­ri lascia­no il posto all’erba bru­cia­ta e i rivo­li si sciol­go­no solo nel­le ore cen­tra­li del gior­no. 

In cima, pro­prio sul­la cur­va più alta di que­sta stra­da stret­ta e sen­za para­pet­ti, c’è un bar. È un paral­le­le­pi­pe­do fat­to di lamie­ra, con la bom­bo­let­ta è sta­to scrit­to café ma è chiu­so, spran­ga­to. Sem­bra una locan­da per fan­ta­smi, e non ser­ve esse­re sen­si­ti­vi per riu­sci­re a sen­tir­li: basta apri­re il fine­stri­no di un dito che subi­to entra­no eser­ci­ti di spi­ri­ti inson­ni. 

Qua­si a ogni tor­nan­te si incon­tra­no tar­ghe di auto, reli­quie di car­roz­ze­ria, lapi­di mar­mo­riz­za­te e ceri­ni spen­ti. Ogni vol­ta che pas­sa­no, i tush si fer­ma­no e pre­ga­no un ami­co o un fra­tel­lo cadu­to lun­go la via, accen­do­no que­sti ceri­ni fila­men­to­si e, se han­no tem­po, fan­no un pic­nic.

Ira­kli, ad esem­pio, si man­gia un uovo sodo e un pez­zo del kha­cha­pu­ri che abbia­mo com­pra­to, fis­sa la tom­ba su cui ci sono tre foto e uno dei vol­ti è mol­to simi­le al suo. Poi beve un sor­so di suc­co aran­cio­ne e sgu­scia l’uovo con cura. 

Un brut­to inci­den­te, suo padre. 

«Gau­ma­r­jos» bor­bot­ta tra sé.

Dopo poco ini­zia a nevi­ca­re così for­te che la neve somi­glia a una bar­rie­ra neb­bio­sa, s’intuisce il diru­po ma non se ne vede l’altezza, la stra­da sci­vo­la in manie­ra pre­oc­cu­pan­te, ma Ira­kli con­ti­nua a gui­da­re. 

Il buon sen­so intan­to gri­da: tor­na­te indie­tro! non anda­te un metro più su! Ma il silen­zio dell’autista tush rive­la un accor­do che capi­rò solo più tar­di: «Non biso­gna teme­re. Qui non sei tu che con­qui­sti la mon­ta­gna, qui è lei che deci­de se lasciar­ti pas­sa­re».

A un cer­to pun­to, si scor­go­no le pri­me case. 

Gli uomi­ni del fred­do

La capi­ta­le del Tushe­ti si chia­ma Oma­lo. Per fare con­ten­ti i turi­sti, ades­so esi­ste Oma­lo vec­chia – det­ta anche alta – e Oma­lo nuo­va – det­ta Oma­lo e basta.

La con­cen­tra­zio­ne di gue­st hou­se nel vil­lag­gio è impres­sio­nan­te, qua­si tut­te disa­bi­ta­te se non nei mesi d’estate. 

D’estate infat­ti, Oma­lo tor­na a risplen­de­re come in una miti­ca età dell’oro mai vera­men­te vis­su­ta: si ripe­to­no ritua­li ani­mi­sti, si fan­no sacri­fi­ci paga­ni e i maschi si sfi­da­no per vin­ce­re la for­tu­na. Che la buo­na sor­te pos­sa esse­re con­qui­sta­ta, è indub­bio; che lo si fac­cia tenen­do­si sul­le spal­le un pro­prio com­pa­gno, pure.

Tut­ta­via, per rima­ne­re in inver­no, non biso­gna esse­re scon­fit­ti duran­te le gare, biso­gna esse­re paz­zi, o incor­rot­ti. 

La como­di­tà non li con­vin­ce a scen­de­re, come non li con­vin­co­no i sol­di, o la com­pa­gnia. 

Men­tre la gen­te tor­na a val­le, quel­li che resta­no devo­no fare i con­ti con metri di neve e l’isolamento tota­le; la vita è così dura che diven­ta una que­stio­ne misti­ca, spi­ri­tua­le. 

No, è uno sba­glio defi­nir­li paz­zi, incor­rot­ti, o anche solo tena­ci. 

Que­sti uomi­ni sono spa­ven­ta­ti e basta, han­no ela­bo­ra­to truc­chi per una soprav­vi­ven­za letar­gi­ca solo per­ché cre­do­no che il loro spa­ven­to abbia ragio­ni fon­da­te. D’altronde: cosa suc­ce­de quan­do i custo­di lascia­no il regno? Che que­sto cam­bia, o si degra­da o vie­ne con­qui­sta­to da nuo­vi inte­res­sa­ti. 

Quin­di i Tush han­no ragio­ne a resta­re. E la pri­ma cosa che biso­gna sape­re è che non fan­no nien­te, qua­si tut­to il tem­po, e ci rie­sco­no bene. 

Non han­no un lavo­ro, non han­no un greg­ge, non han­no le chia­vi alle por­te né i vetri alle fine­stre. 

I pasto­ri sono tut­ti sce­si, a pie­di oppu­re a caval­lo; ci voglio­no set­ti­ma­ne di pre­pa­ra­zio­ne e in que­sti casi anche la sel­la­tu­ra divie­ne un’arte, di quel­le rigo­ro­se e com­ples­se. Richie­de un sape­re di nodi e un sape­re di fibre, è fat­ta di mol­ti stra­ti di lana infel­tri­ta e deco­ra­ta secon­do i moti­vi tipi­ci tush: rom­bi, rom­bet­ti, qua­dra­ti, stel­le mal­fat­te. Poi ci sono il cuo­io e le cor­de, le staf­fe. 

Con la lana le don­ne fan­no anche le cal­ze, i tap­pe­ti e cer­ti man­tel­li lun­ghi fino alle cavi­glie, pesan­ti come un cada­ve­re: per­ché quan­do i pasto­ri tra­scor­ro­no not­ti inte­re nel­le radu­re, ciò che più spes­so li ucci­de non è la neve, ma il ven­to. Maga­ri tor­na­no a casa sal­vi, ma se il ven­to gli ha taglia­to la pel­le, allo­ra muo­io­no in fret­ta, gio­va­ni e malan­da­ti. 

Nell’unico mini-mar­ket aper­to, dove tra gli scaf­fa­li c’è una bran­da disfat­ta, ven­do­no anche dei cap­pel­li tra­di­zio­na­lis­si­mi, fat­ti di pelo bian­co e nero e alti come quel­li del­lo zar. Tut­ta­via, non sono con­vin­ta che li usi­no anco­ra, sem­bra­no ormai solo dei sou­ve­nir. 

I pri­mi di otto­bre le don­ne fan­no bol­li­re le uova e poi se ne van­no in mac­chi­na ver­so la cit­tà, la mag­gior par­te ad Alva­ni. 

I pasto­ri, inve­ce par­to­no al pas­so con il greg­ge, fino al deser­to di Vashlo­va­ni a qua­si tre­cen­to chi­lo­me­tri dai loro vil­lag­gi. Nei quin­di­ci gior­ni di cam­mi­no man­gia­no for­mag­gio fer­men­ta­to e le uova che le don­ne gli han­no lascia­to e, quan­do gli resta solo il for­mag­gio, allo­ra bevo­no sola­men­te più cha­cha, grap­pa a tut­ti gli effet­ti resu­sci­tan­te ma pri­ma anco­ra fata­le. 

Dopo la tran­su­man­za, il Tushe­ti divie­ne buio. 

Un eli­cot­te­ro pas­sa cir­ca una vol­ta al mese a por­ta­re i vive­ri a chi è rima­sto, e per for­tu­na è così fred­do che le cose non ammuf­fi­sco­no mai. 

Imma­gi­no tun­nel di neve sca­va­ti da un por­ti­ca­to all’altro per incon­trar­si, per ricor­dar­si di esse­re vivi spec­chian­do­si negli occhi degli altri. È vero che anche il ghiac­cio può esse­re spec­chio, ma più spes­so ci si vede l’abisso.

Un pasto­re sen­za greg­ge

Tra tut­ti quei pasto­ri c’è un uomo che si chia­ma Dato. 

Chiun­que cono­sca la Geor­gia, potreb­be tran­quil­la­men­te osser­va­re che que­sto non dice nien­te di lui, per­ché qui mol­tis­si­mi uomi­ni si chia­ma­no Dato, e che que­sto non è un nome, ma solo un modo per abbre­via­re gli altri.

Dato è un ex pasto­re, il pri­mo che incon­tro in tut­ta la mia vita. Ho sem­pre cre­du­to, infat­ti, che fare il pasto­re non fos­se un mestie­re come gli altri e che un greg­ge non si potes­se abban­do­na­re come si abban­do­na la cas­sa del super­mer­ca­to, lo spor­tel­lo del­la ban­ca o la pro­pria scri­va­nia dell’ufficio. Io cre­de­vo che fare il pasto­re voles­se dire esse­re pasto­re, ma guar­dan­do Dato mi sem­bra che sia tut­to mol­to più sem­pli­ce di così. Ora che lo dico mi accor­go di esse­re mol­to ridi­co­la: l’essenza del­la pasto­ri­zia, ma cosa vuo­le dire? Dato ci rac­con­ta che ha smes­so di por­ta­re le peco­re qual­che anno fa, ma che in com­pen­so accu­di­sce un gat­to. 

Ulti­ma­men­te ha ini­zia­to ad alle­va­re caval­li, ma da due set­ti­ma­ne tut­ti e die­ci i suoi Kabar­din sono fug­gi­ti. Cre­de che tor­ne­ran­no, ma i suoi ami­ci rido­no sapen­do che mori­ran­no, se non sono già mor­ti, per le tem­pe­ra­tu­re e per i pre­da­to­ri del­le mon­ta­gne.

Ci sono lupi?

Ovvia­men­te.

Oltre­tut­to, i caval­li in Tushe­ti sono di raz­za pic­co­la, come in tut­ti gli alti­pia­ni del mon­do, solo che qui chi li caval­ca è gros­so e for­zu­to, non un asia­ti­co svel­to. I tush han­no mani toz­ze e pan­ce lar­ghe, e que­sto basta ad ave­re pena per le bestie che li sor­reg­go­no lun­go le stra­de. Se non fos­se che Dato acca­rez­za così tene­ra­men­te il suo gat­to da imma­gi­nar­lo qua­si leg­ge­ro, sem­pre gen­ti­le. Rac­con­ta che la vera pau­ra è quel­la degli orsi. 

Sì, cer­to che ne ha visto uno, dice, e poi scop­pia a ride­re. 

Una not­te era solo. A bada­re le bestie. No, dicia­mo che dove­va bada­re le bestie ma si era asso­pi­to di sopra. A un cer­to pun­to l’aveva sve­glia­to un rumo­re, un gru­gni­to da fie­ra fero­ce. Dato ave­va scel­to di non anda­re a vede­re, ma poi quel­lo era aumen­ta­to, si era fat­to gri­do capri­no, si era fat­to lamen­to; e se per un pasto­re un rumo­re che desta è allar­me, un rumo­re che non fa riad­dor­men­ta­re è scon­giu­ra. Così ave­va imbrac­cia­to il fuci­le. Non c’erano luce né luna, per cui ave­va solo fiu­ta­to l’onda del suo­no nell’aria e atte­so di sen­ti­re nuo­va­men­te il movi­men­to dell’animale. Ave­va spa­ra­to, qual­co­sa era cadu­to. Quan­do il mat­ti­no dopo era anda­to a vede­re sareb­be sta­to meglio non far­lo: ave­va ucci­so la sua pic­co­la capra. 

Cos’è un popo­lo di con­fi­ne

Dato è un uomo con occhi pic­co­li e ver­di e bril­lan­ti, ride ogni vol­ta che rac­con­ta qual­co­sa di serio. Ori­gi­na­rio di Dar­tlo, un vil­lag­gio che pare cadu­to nel­la rupe, con le tor­ri cece­ne e le case diroc­ca­te, vive ades­so a Oma­lo e gesti­sce la sua gue­st hou­se. All’ingresso del­la stan­za dove si man­gia, si cuci­na e si soprav­vi­ve, ha scrit­to stop rus­sia; c’è anche un car­tel­lo che sem­bra indi­ca­re il wi-fi ma il segna­le non pren­de in nes­sun pun­to dell’intera regio­ne. Per con­net­ter­si al mon­do, c’è quin­di una radio, acce­sa tut­ti i gior­ni e tut­te le not­ti a tut­te le ore, Dato la met­te sopra il ter­raz­zo e ascol­ta. O non ascol­ta, chi può dir­lo. 

Cono­sce le hit ame­ri­ca­ne e le hit geor­gia­ne, sa cosa suc­ce­de nel mon­do e si adi­ra anche se può far­ci ben poco, può solo ascol­ta­re e aspet­ta­re.

La pri­ma mat­ti­na, quan­do ci sve­glia­mo, risuo­na­no le paro­le Israe­li e Pale­sti­ne e, anche se il Tushe­ti sem­bra dimen­ti­ca­to per­fi­no dal­la guer­ra, in real­tà non è così. 

I con­fi­ni di que­sti posti sono sta­ti mar­to­ria­ti per seco­li, chi vive sul Cau­ca­so sa bene quan­to sia incer­ta la sor­te del suo pas­sa­por­to, che è sem­pre là in alto che si gio­ca­no i con­ti più duri. 

Dar­tlo e Oma­lo sono vil­lag­gi dop­pi pro­prio per que­sto: in esta­te gli abi­tan­ti si tra­sfe­ri­va­no nel­la zona alta e for­ti­fi­ca­ta per difen­der­si dal­le inva­sio­ni, men­tre nei mesi fred­di se ne anda­va­no più in bas­so, ripa­ra­ti dal­le intem­pe­rie. Non impor­ta­va se fos­se­ro giù o fos­se­ro su, era­no sem­pre Dar­tlo e sem­pre Oma­lo.

«Quan­do c’era anco­ra l’Unione Sovie­ti­ca, era­va­mo pro­prio ugua­li ugua­li» mi rac­con­ta un signo­re che ha pian­ta­to dei fio­ri davan­ti la sua casa che, va da sé, da giu­gno diven­ta una gue­st hou­se. «Ave­va­mo rela­zio­ni gli uni con gli altri. Nel 1984, il gover­no deci­se di costrui­re scuo­le e chie­se e pure una sta­zio­ne di poli­zia, il vil­lag­gio fio­rì ma, quan­do l’unione cad­de, la Geor­gia si dimen­ti­cò di Oma­lo e dei suoi abi­tan­ti. Pian pia­no la gen­te comin­ciò ad abban­do­na­re le case. I ser­vi­zi non ser­vi­va­no più.»

Dopo ci sono sta­ti scon­tri, vio­len­ze e guer­ri­glie, per­ché, se duran­te il regi­me la Rus­sia sape­va cosa far­se­ne, del Tushe­ti, il gover­no neo-geor­gia­no ave­va ben più dif­fi­col­tà a capi­re come sfrut­tar­lo.

«Pri­ma era­va­mo simi­li» dice il signo­re, come se una dit­ta­tu­ra fos­se un buon modo per egua­glia­re tut­ti, ma la veri­tà è che a me sem­bra anco­ra lo stes­so. È nel­la pel­le legno­sa che si somi­glia­no, nel­la reti­cen­za alla paro­la e nel modo di strap­pa­re il pane, diver­so da quel­lo di un mina­to­re o di un mari­na­io, per­ché non è solo la durez­za che acco­mu­na que­sta gen­te, ma la mon­ta­gna stes­sa, che è mon­ta­gna ovun­que e in tut­to il mon­do così com’è. 

È uno spi­ri­to, la mon­ta­gna, è un guar­da­re dall’alto, un pano­ra­ma che è sem­pre in pro­por­zio­ni alte­ra­te e disu­ma­ne. 

Il cie­lo vici­no e la ter­ra lon­ta­na. 

Ecco cos’è la mon­ta­gna. 

Non a caso ci han­no sem­pre mes­so sopra gli dèi.

Il sacro e l’alcol: stru­men­ti per una resi­sten­za 

In Tushe­ti tut­to divie­ne facil­men­te sacro. I luo­ghi, gli alta­ri, le feste, i brin­di­si, la bir­ra, le cime. Cul­ti ani­mi­sti e paga­ni si sono fusi con il cri­stia­ne­si­mo dan­do vita a una reli­gio­ne chia­ma­ta dal cau­ca­so­lo­go ceco Václav A. Čer­ný: jva­ri­smo

Il ter­mi­ne jva­ri deno­ta una cer­ta ener­gia o luce o san­tua­rio, Dio ha mol­te­pli­ci figli, ghti­sh­vi­lis, che sono a sua vol­ta divi­ni­tà. L’Uno è sud­di­vi­so in due prin­ci­pi oppo­sti, che ani­ma­no il mon­do e lo ten­go­no in equi­li­brio. Il pri­mo è purez­za, coscien­za e para­di­so, ed è rap­pre­sen­ta­to nien­te di meno che dall’uomo; l’altro è pec­ca­to, ten­ta­zio­ne, incon­scio e indo­vi­na­te? È la don­na. 

Attor­no ai vil­lag­gi esi­sto­no aree acces­si­bi­li solo ai maschi, dove si ten­go­no cer­chi con­si­lia­ri e si sor­seg­gia la bir­ra sacra, bir­ra iden­ti­ca alle altre, ma pro­dot­ta con l’orzo bene­det­to. La rac­col­ta assu­me anco­ra oggi un signi­fi­ca­to par­ti­co­la­re, ma nel pas­sa­to era dav­ve­ro uno dei momen­ti più impor­tan­ti dell’anno. Il capo del clan annun­cia­va il gior­no del­la mie­ti­tu­ra e la comu­ni­tà si riu­ni­va per sele­zio­na­re gli ani­ma­li da sacri­fi­ca­re alle divi­ni­tà. Poi il capo apri­va il bari­le di bir­ra e riem­pi­va i cali­ci d’argento, accen­de­va le can­de­le vici­no alle offer­te e reci­ta­va alcu­ne pre­ghie­re. «Gau­ma­r­jos!» dice­va solen­ne­men­te. Poi si diri­ge­va nel cam­po, taglia­va qual­che spi­ga d’orzo e infi­ne pas­sa­va la fal­ce ai mie­ti­to­ri. C’erano per­so­ne che ave­va­no il solo e fon­da­men­ta­le com­pi­to di por­ta­re tini di bir­ra in con­ti­nua­zio­ne, per non lascia­re mai a sec­co nes­su­no. La mie­ti­tu­ra era accom­pa­gna­ta da can­ti e uno di loro ini­zia­va più o meno così: «Jva­ri bene­di­ca Iakh­sar e Iakh­sar bene­di­ca il tuo popo­lo»; gli altri, intor­no, ripe­te­va­no lo stes­so. Era un gior­no sacro, di festa, pie­no di signi­fi­ca­to. 

Ma le don­ne ne era­no esclu­se, e lo sono tutt’ora. Anche al gior­no d’oggi, alle don­ne è vie­ta­to par­te­ci­pa­re alla mag­gior par­te dei riti e fre­quen­ta­re quei luo­ghi dove si pren­do­no le deci­sio­ni impor­tan­ti.

«Non potrem­mo mai pren­de­re in con­si­de­ra­zio­ne una don­na» si giu­sti­fi­ca Dato «per­ché potreb­be inna­mo­rar­si di un uomo di un altro vil­lag­gio e fug­gi­re. Potreb­be fare la spia». Quan­do lo dice, si vede che un po’ se ne ver­go­gna, per­ché la paro­la spia, in qual­sia­si luo­go dell’ex Unio­ne Sovie­ti­ca, è una paro­la di accu­sa pro­fon­da. 

Di don­ne, comun­que, in inver­no in Tushe­ti non ne resta nes­su­na. 

Con una spal­la­ta, Dato apre la por­ta di casa sua, che è una stan­za. Sul­le assi di legno ci sono altre assi di poli­sti­ro­lo, un cusci­no con una fede­ra rosa e sul tavo­lo ci sono quat­tro bic­chie­ri. Dato apre una bot­ti­glia di vino che nascon­de­va nel­la giac­ca e lo ver­sa a tut­ti. I bic­chie­ri sono fred­di e pol­ve­ro­si, il vino è aci­do e den­so. Meno­ma­le che è fred­do. 

Poi si sie­de su una sedia e comin­cia a rac­con­ta­re. Par­la di filo­so­fia, di lun­ghe gior­na­te spe­se sen­za far nul­la, par­la di infan­zia e di nuo­ve scel­te. Ripe­te che i caval­li o tor­ne­ran­no o toc­che­rà andar­li a cer­ca­re. Non dice che potreb­be­ro esse­re mor­ti, non lo pen­sa affat­to. 

Par­la degli orsi. Par­la del­le feste di luglio nel suo pae­se, del­le pro­ve di for­za tra uomi­ni e si ram­ma­ri­ca che quest’anno gli faces­se male una spal­la, per­ché gli uomi­ni devo­no sali­re in pie­di sugli altri e poi cam­mi­na­re in cer­chio e non cade­re per pri­mi. Se si cade per pri­mi, l’anno sarà di sven­tu­ra. 

Dei sacri­fi­ci del­le bestie. Del­le bestie che diven­ta­no com­pa­gne di vita.

Par­la di liber­tà, come han­no già fat­to tut­te le per­so­ne pri­ma di lui che abbia­mo inter­vi­sta­to duran­te la nostra per­ma­nen­za. Liber­tà l’hanno pro­nun­cia­ta  in batsi, o l’hanno pro­nun­cia­ta in geor­gia­no, e se all’inizio pare scon­ta­ta, pian pia­no assu­me un signi­fi­ca­to nuo­vo, per me, di zec­ca: la liber­tà è del sel­vag­gio. 

È una con­di­zio­ne di natu­ra e nien­te che si deb­ba con­qui­sta­re, piut­to­sto biso­gna fare atten­zio­ne che non ce la por­ti­no via. E Dato lo sa che per esse­re libe­ri biso­gna rima­ne­re den­tro al recin­to. Nel­la pro­pria zona pro­tet­ta e iso­la­ta, in habi­tat desti­na­ti all’estinzione nel­la regio­ne più irrag­giun­gi­bi­le di tut­ta la Geor­gia. 

C’erano pro­get­ti per que­sta stra­da di alta mon­ta­gna, pro­po­ste per ren­der­la più sicu­ra, più fre­quen­ta­ta. C’erano nazio­ni e impre­se pron­te al finan­zia­men­to e ai lavo­ri. 

Ma i tush han­no det­to no, nean­che per sogno. Si sono oppo­sti con la for­za e la pau­ra indi­ge­na di non esse­re più ciò che si è sem­pre sta­ti, vale a dire pasto­ri o gen­te dif­fi­ci­le, vale a dire libe­ri. 

Tut­to è sacro per­ché la liber­tà lo è. E pure la mon­ta­gna. 

Dato, con i suoi occhiet­ti sibe­ria­ni e il naso­ne da ren­na, guar­da la sua casa a Dar­tlo, una pala­fit­ta diroc­ca­ta. Men­tre cala il buio, risa­le ver­so la mac­chi­na attra­ver­so scor­cia­to­ie da stam­bec­co, poi sve­glia Ira­kli che ha bevu­to trop­pi bic­chie­ri di cha­cha e si è addor­men­ta­to duran­te la nostra visi­ta. È l’ora del tra­mon­to. 

I tra­mon­ti d’altitudine sono sem­pre gen­ti­li, non sono come quel­li del deser­to che dan­no acces­so a un altro mon­do, qui in un atti­mo è già tut­to pastel­lo e le sago­me dei mon­ti sfu­ma­no via. 

Ira­kli si schiaf­feg­gia al fred­do la fac­cia e tor­na in mac­chi­na, con l’amico stap­pa una bir­ra e comin­cia a gui­da­re sui ver­san­ti sco­sce­si del Cau­ca­so nord-orien­ta­le. Si vede male la stra­da ma si vedo­no bene le stel­le.

Nel men­tre uomi­ni scen­do­no ver­so Alva­ni, e poi ver­so il Kakhe­ti meri­dio­na­le e poi anco­ra più giù, al con­fi­ne con l’Azerbaigian, segui­ti dai loro greg­gi fosfo­re­scen­ti.

Oma­lo si chiu­de in un guscio bian­co. Ed è pri­ma­ve­ra.

Set­te mesi dopo: i tush nel deser­to (men­tre pio­ve)

Quan­do sia­mo tor­na­ti, sia­mo tor­na­ti in un posto diver­so, in una sta­gio­ne diver­sa, per incon­tra­re gli altri tush, quel­li che se ne era­no anda­ti. 

Il Vashlo­va­ni Natio­nal Park è il deser­to del Cau­ca­so. Qui l’Alazani, che sor­ge in Tushe­ti e attra­ver­sa popo­li e regio­ni alquan­to sin­go­la­ri, fini­sce; e non in un mare, non in un lago, ma risuc­chia­to dal­la ter­ra argil­lo­sa.

Brul­lo, sec­co, mite d’inverno e roven­te in esta­te, il Vashlo­va­ni Natio­nal Park ospi­ta gaz­zel­le dal­la coda nera, leo­par­di per­sia­ni, aqui­le, avvol­toi e mol­tis­si­me altre spe­cie pro­tet­te. Occu­pa il ter­ri­to­rio tra l’Azerbaigian set­ten­trio­na­le e la pun­ta del­la Geor­gia a sud-est, e l’unica stra­da che si può per­cor­re­re, una stra­da di ter­ra ros­sa che fa su e giù tra col­li­net­te e canyon, ne rap­pre­sen­ta pro­prio il con­fi­ne. A sini­stra la Geor­gia e a destra l’Azerbaigian.

Per attra­ver­sar­lo ser­ve un pass spe­cia­le e si può dor­mi­re nel­le ran­ger sta­tions dove si tro­va qual­che bran­da di for­tu­na, a vol­te una bom­bo­la di gas mez­za pie­na e, più rara­men­te, qual­che coper­ta di lana. Al di là dei ran­ger, non vi abi­ta nes­sun altro che non sia­no i pasto­ri del Tushe­ti che, per sver­na­re in que­sta val­le, paga­no un affit­to piut­to­sto sala­to al gover­no. Le case sono capan­ne, le stal­le sono tira­te su con il fan­go e la paglia. 

Die­tro si sta­glia­no le mon­ta­gne nere, men­tre davan­ti, dal­la step­pa, arri­va­no i fumi del­le indu­strie aze­re. Ai geor­gia­ni è seve­ra­men­te vie­ta­to anda­re di là e agli aze­ri è vie­ta­to veni­re di qua.

Il tele­fo­no di una per­so­na occi­den­ta­le, inve­ce, impaz­zi­sce. La scher­ma­ta si illu­mi­na dan­do il ben­ve­nu­to pri­ma in un pae­se e poi nell’altro, e di nuo­vo nell’uno e nell’altro a secon­da del­le tasche o del­le cur­ve; tut­ta­via, il segna­le non c’è mai.

Come solu­zio­ne, vici­no a una stal­la i pasto­ri han­no pian­ta­to un lun­go basto­ne di legno, e con una cor­da han­no lega­to un tega­me di allu­mi­nio alla cima. Ecco, que­sto è l’unico posto in cui pren­de il cel­lu­la­re per chi­lo­me­tri ster­mi­na­ti di nien­te.

Un pasto­re tira fuo­ri dal­la tasca il suo e fa il gesto di una chia­ma­ta, poi sbuf­fa per­ché non va. Indi­ca il cie­lo: con que­ste nuvo­le è un pec­ca­to, ma pro­prio non va.

Abbia­mo attra­ver­sa­to il par­co duran­te i quat­tro gior­ni più pio­vo­si dell’anno e, come da copio­ne, abbia­mo distrut­to la nostra auto, for­se per­ché sta­vol­ta non c’era un Ira­kli ubria­co a gui­dar­la.

Dopo qual­che ora di stra­da, sia­mo costret­ti a fer­mar­ci nel­la casa di un pasto­re tush, e pre­sto, come se la nostra mac­chi­na gri­das­se stra­nie­ri! stra­nie­ri!, sono arri­va­ti anche due vec­chi col greg­ge e un basto­ne da stre­go­ni. 

La capan­na che ci acco­glie puz­za di capra, è come se ce ne fos­se mor­ta una lì den­tro; è come se, un atti­mo pri­ma di mori­re, aves­se bevu­to litri e litri di cha­cha. Dal sof­fit­to pen­zo­la­no dei sac­chi di fari­na vuo­ti e tra i pie­di ci si attor­ci­glia­no cuc­cio­li di gat­to e mam­me di gat­to di nuo­vo incin­te. 

La stu­fa è acce­sa. Fuo­ri pio­ve a dirot­to. 

Mi ero fat­ta un’altra idea, dopo esse­re sta­ta tra le mon­ta­gne. Pen­sa­vo a que­sto posto come un rifu­gio tie­pi­do e feli­ce, ma la veri­tà è che la vasti­tà è deso­lan­te. 

Il pasto­re che ci ospi­ta ha gli occhi un po’ vitrei, eppu­re bril­la­no come quel­li di Dato. Gli chie­do se ha dei figli e lui fa con le mani un sei, poi comin­cia a elen­car­li e il quar­to nome è pro­prio lui: Dato. Mi ecci­to subi­to. 

Men­tre sto per mostrar­gli la foto e chiu­de­re il cer­chio più sen­sa­to di tut­to il mio viag­gio, il pasto­re abbas­sa le pal­pe­bre e si addor­men­ta per­du­to nel­la sua cha­cha; io non lo sve­glio.

Que­sto posto d’altronde è una sala d’attesa lun­ga sei mesi, ci si appi­so­la bene, e for­se è meglio dor­mi­re che sco­pri­re la veri­tà. 

Baste­reb­be il sole, come basta sem­pre, per far cam­bia­re idea sul­la vasti­tà deso­lan­te, ma in que­sto deser­to con­ti­nua a pio­ve­re e il mar­ro­ne-argil­la, il mar­ro­ne-mulo, il mar­ro­ne-fiu­me e il mar­ro­ne-pel­le inva­do­no lo spa­zio e lo ren­do­no iden­ti­co tut­to il tem­po.  

La risa­ta agra dei pasto­ri si accom­pa­gna ai rac­con­ti dei loro pre­pa­ra­ti­vi: non appe­na tor­ne­rà il sole, potran­no met­ter­si in cam­mi­no e tor­na­re a casa. 

Gui­da­ti dall’Alazani, pian pia­no comin­ce­ran­no a sali­re, lasce­ran­no i fiu­mi nel­le gole pro­fon­de e i greg­gi trot­te­ran­no, i cani mor­si­che­ran­no gli stin­chi del­le peco­re più distrat­te. Lun­go la stra­da, si fer­me­ran­no a guar­da­re le foto dei fra­tel­li mor­ti, pre­ghe­ran­no sem­pre e spes­so ber­ran­no. Le uova sode però, non le avran­no di sicu­ro. 

E quan­do arri­ve­ran­no in Tushe­ti, allo­ra ver­ran­no assa­li­ti di nuo­vo dal­la liber­tà, che è una liber­tà che si può ave­re solo se si guar­da dall’alto, per­ché l’alto vede il bas­so e sé stes­so, ma il bas­so non può. 

«Gau­ma­r­jos!» gri­de­rà il pri­mo. E tut­ti i mor­ti e tut­ti i vivi con lui.

Que­sto viag­gio, come una serie di altre spe­di­zio­ni fat­te ai con­fi­ni del­la Geor­gia, sono sta­ti pos­si­bi­li gra­zie al pro­get­to edi­to­ria­le Inland, che pro­va a rac­con­ta­re luo­ghi estre­mi attra­ver­so le sto­rie di chi li abi­ta. Il secon­do nume­ro ha come pro­ta­go­ni­sta la Geor­gia, con le sue con­trad­di­zio­ni poli­ti­che, le sue comu­ni­tà mar­gi­na­li e la sua cul­tu­ra ibri­da, eter­no pon­te tra l’est e l’ovest del nostro mon­do. 

Foto­gra­fie a cura di Ric­car­do Lana

Con­di­vi­di:
I commenti sono chiusi
0
    0
    Carrello
    Il tuo carrello è vuotoRitorna allo shop