Dei tush si dicono tre cose: che parlano la lingua batsi, che non mangiano mai il maiale e che uccidono le bestie su altari di pietra. In estate fanno festa nei propri villaggi mentre in inverno scompaiono. Per il troppo freddo e per la troppa neve, scendono a valle nel Kakheti o, ancora più a sud, verso il deserto di Vashlovani.
Si potrebbe pensare a un popolo nomade, ma sarebbe un errore: i tush esistono davvero solo quando sono in Tusheti, anche se per pochi mesi l’anno; per il resto del tempo si adattano a vivere come gli altri georgiani.
In questo scenario pietrificato sulle cime del Caucaso, alcuni uomini si fanno custodi del regno. Sono per lo più giovani, con la testa grossa e tonda come le uova, i capelli corti come tutti i sovietici e, se non fosse per loro, forse questa lingua di terra, incastonata tra la Cecenia e il Dagestan, non apparterrebbe più alla Georgia, ma alla Russia. Eppure, non lo sanno. Alla domanda perché resti, esiste solo una risposta: perché sì.
E senza parlare il batsi, senza definirsi animisti o dare spiegazioni sul maiale, brindano ammucchiati dentro un’unica stanza.
Qualcuno alza il bicchiere e grida: «Gaumarjos!» che in georgiano vuol dire ciao ma anche cincin, e questo dovrebbe far riflettere su un paese che si ubriaca nello stesso modo in cui si saluta al mattino. Gli altri intonano: «Gaumarjos!» e noi, seduti su una trave, con loro.
Tutto quello che servirà per vivere
È proprio ottobre, quando partiamo da Tbilisi per il Tusheti e, mentre scendiamo da un taxi guidato da uno scetticissimo azero, e poi risaliamo verso nord-est con un pulmino da dodici posti che qui chiamano marshrutke, e infine ci comprimiamo su una Subaru cinese, il cielo cala e si addensa. La pioggia congela.
Certo, stiamo salendo, ma più che nello spazio, sembra di viaggiare nel tempo, di affrettarsi in un autunno che finora non ha fatto capolino nemmeno in Georgia, dove il caldo ardente e il freddo odioso sono simboli nazionali di resistenza.
Irakli, con un naso stretto e sporgente, raccoglie me, il mio compagno di viaggio e la nostra traduttrice di fronte alle latrine di Alvani, dietro un edificio pubblico dismesso.
Carichiamo la spesa in bauliera: ventiquattro uova, dieci khachapuri, le patate, le cipolle e il caffè solubile, cioè tutto quello che servirà per vivere.
Prima di uscire dall’asfalto, ci fermiamo con la macchina di fronte a una finestrella, c’è una mensola con sopra delle merendine e dei cerini, Irakli compra una bibita arancione a testa e ce le lancia sopra i sedili.
Saluta il signore dietro il banco come fosse un amico, e da lì iniziano le buche.
Presto le fiumane di pecore che scendono a valle trasformano il tragitto in un singhiozzo e gli zoccoli attaccati alle gambette sottili sdrucciolano sul ciglio. Allungo lo sguardo verso il burrone, ma qualcosa mi fa trasalire.
Ora ricordo la frase: «Lo sai che questa è la strada più pericolosa del mondo?»
Certo, ma sarà solo dopo: con una bufera di neve che trasforma i fiocchi in sassi sul parabrezza. Oppure quando Irakli sospira guardando una curva, ed è evidente che è un uomo che sospira di rado. Sarà mentre fuori, fissando la nebbia, le sue scarpe diventano bianche, e noi dobbiamo avere fiducia.
Sarà solo a quel punto che me ne renderò conto.
La strada
Per raggiungere il Tusheti bisogna attraversare il passo di Abano a 3.000 metri, ridiscendere verso il fiume Alazani e, dunque, risalire.
La via si inerpica sul Caucaso nord-ordientale della Georgia come una capra montana: si viaggia sempre di sbieco. Dopo i primi venti chilometri gli alberi lasciano il posto all’erba bruciata e i rivoli si sciolgono solo nelle ore centrali del giorno.
In cima, proprio sulla curva più alta di questa strada stretta e senza parapetti, c’è un bar. È un parallelepipedo fatto di lamiera, con la bomboletta è stato scritto café ma è chiuso, sprangato. Sembra una locanda per fantasmi, e non serve essere sensitivi per riuscire a sentirli: basta aprire il finestrino di un dito che subito entrano eserciti di spiriti insonni.
Quasi a ogni tornante si incontrano targhe di auto, reliquie di carrozzeria, lapidi marmorizzate e cerini spenti. Ogni volta che passano, i tush si fermano e pregano un amico o un fratello caduto lungo la via, accendono questi cerini filamentosi e, se hanno tempo, fanno un picnic.
Irakli, ad esempio, si mangia un uovo sodo e un pezzo del khachapuri che abbiamo comprato, fissa la tomba su cui ci sono tre foto e uno dei volti è molto simile al suo. Poi beve un sorso di succo arancione e sguscia l’uovo con cura.
Un brutto incidente, suo padre.
«Gaumarjos» borbotta tra sé.
Dopo poco inizia a nevicare così forte che la neve somiglia a una barriera nebbiosa, s’intuisce il dirupo ma non se ne vede l’altezza, la strada scivola in maniera preoccupante, ma Irakli continua a guidare.
Il buon senso intanto grida: tornate indietro! non andate un metro più su! Ma il silenzio dell’autista tush rivela un accordo che capirò solo più tardi: «Non bisogna temere. Qui non sei tu che conquisti la montagna, qui è lei che decide se lasciarti passare».
A un certo punto, si scorgono le prime case.
Gli uomini del freddo
La capitale del Tusheti si chiama Omalo. Per fare contenti i turisti, adesso esiste Omalo vecchia – detta anche alta – e Omalo nuova – detta Omalo e basta.
La concentrazione di guest house nel villaggio è impressionante, quasi tutte disabitate se non nei mesi d’estate.
D’estate infatti, Omalo torna a risplendere come in una mitica età dell’oro mai veramente vissuta: si ripetono rituali animisti, si fanno sacrifici pagani e i maschi si sfidano per vincere la fortuna. Che la buona sorte possa essere conquistata, è indubbio; che lo si faccia tenendosi sulle spalle un proprio compagno, pure.
Tuttavia, per rimanere in inverno, non bisogna essere sconfitti durante le gare, bisogna essere pazzi, o incorrotti.
La comodità non li convince a scendere, come non li convincono i soldi, o la compagnia.
Mentre la gente torna a valle, quelli che restano devono fare i conti con metri di neve e l’isolamento totale; la vita è così dura che diventa una questione mistica, spirituale.
No, è uno sbaglio definirli pazzi, incorrotti, o anche solo tenaci.
Questi uomini sono spaventati e basta, hanno elaborato trucchi per una sopravvivenza letargica solo perché credono che il loro spavento abbia ragioni fondate. D’altronde: cosa succede quando i custodi lasciano il regno? Che questo cambia, o si degrada o viene conquistato da nuovi interessati.
Quindi i Tush hanno ragione a restare. E la prima cosa che bisogna sapere è che non fanno niente, quasi tutto il tempo, e ci riescono bene.
Non hanno un lavoro, non hanno un gregge, non hanno le chiavi alle porte né i vetri alle finestre.
I pastori sono tutti scesi, a piedi oppure a cavallo; ci vogliono settimane di preparazione e in questi casi anche la sellatura diviene un’arte, di quelle rigorose e complesse. Richiede un sapere di nodi e un sapere di fibre, è fatta di molti strati di lana infeltrita e decorata secondo i motivi tipici tush: rombi, rombetti, quadrati, stelle malfatte. Poi ci sono il cuoio e le corde, le staffe.
Con la lana le donne fanno anche le calze, i tappeti e certi mantelli lunghi fino alle caviglie, pesanti come un cadavere: perché quando i pastori trascorrono notti intere nelle radure, ciò che più spesso li uccide non è la neve, ma il vento. Magari tornano a casa salvi, ma se il vento gli ha tagliato la pelle, allora muoiono in fretta, giovani e malandati.
Nell’unico mini-market aperto, dove tra gli scaffali c’è una branda disfatta, vendono anche dei cappelli tradizionalissimi, fatti di pelo bianco e nero e alti come quelli dello zar. Tuttavia, non sono convinta che li usino ancora, sembrano ormai solo dei souvenir.
I primi di ottobre le donne fanno bollire le uova e poi se ne vanno in macchina verso la città, la maggior parte ad Alvani.
I pastori, invece partono al passo con il gregge, fino al deserto di Vashlovani a quasi trecento chilometri dai loro villaggi. Nei quindici giorni di cammino mangiano formaggio fermentato e le uova che le donne gli hanno lasciato e, quando gli resta solo il formaggio, allora bevono solamente più chacha, grappa a tutti gli effetti resuscitante ma prima ancora fatale.
Dopo la transumanza, il Tusheti diviene buio.
Un elicottero passa circa una volta al mese a portare i viveri a chi è rimasto, e per fortuna è così freddo che le cose non ammuffiscono mai.
Immagino tunnel di neve scavati da un porticato all’altro per incontrarsi, per ricordarsi di essere vivi specchiandosi negli occhi degli altri. È vero che anche il ghiaccio può essere specchio, ma più spesso ci si vede l’abisso.
Un pastore senza gregge
Tra tutti quei pastori c’è un uomo che si chiama Dato.
Chiunque conosca la Georgia, potrebbe tranquillamente osservare che questo non dice niente di lui, perché qui moltissimi uomini si chiamano Dato, e che questo non è un nome, ma solo un modo per abbreviare gli altri.
Dato è un ex pastore, il primo che incontro in tutta la mia vita. Ho sempre creduto, infatti, che fare il pastore non fosse un mestiere come gli altri e che un gregge non si potesse abbandonare come si abbandona la cassa del supermercato, lo sportello della banca o la propria scrivania dell’ufficio. Io credevo che fare il pastore volesse dire essere pastore, ma guardando Dato mi sembra che sia tutto molto più semplice di così. Ora che lo dico mi accorgo di essere molto ridicola: l’essenza della pastorizia, ma cosa vuole dire? Dato ci racconta che ha smesso di portare le pecore qualche anno fa, ma che in compenso accudisce un gatto.
Ultimamente ha iniziato ad allevare cavalli, ma da due settimane tutti e dieci i suoi Kabardin sono fuggiti. Crede che torneranno, ma i suoi amici ridono sapendo che moriranno, se non sono già morti, per le temperature e per i predatori delle montagne.
Ci sono lupi?
Ovviamente.
Oltretutto, i cavalli in Tusheti sono di razza piccola, come in tutti gli altipiani del mondo, solo che qui chi li cavalca è grosso e forzuto, non un asiatico svelto. I tush hanno mani tozze e pance larghe, e questo basta ad avere pena per le bestie che li sorreggono lungo le strade. Se non fosse che Dato accarezza così teneramente il suo gatto da immaginarlo quasi leggero, sempre gentile. Racconta che la vera paura è quella degli orsi.
Sì, certo che ne ha visto uno, dice, e poi scoppia a ridere.
Una notte era solo. A badare le bestie. No, diciamo che doveva badare le bestie ma si era assopito di sopra. A un certo punto l’aveva svegliato un rumore, un grugnito da fiera feroce. Dato aveva scelto di non andare a vedere, ma poi quello era aumentato, si era fatto grido caprino, si era fatto lamento; e se per un pastore un rumore che desta è allarme, un rumore che non fa riaddormentare è scongiura. Così aveva imbracciato il fucile. Non c’erano luce né luna, per cui aveva solo fiutato l’onda del suono nell’aria e atteso di sentire nuovamente il movimento dell’animale. Aveva sparato, qualcosa era caduto. Quando il mattino dopo era andato a vedere sarebbe stato meglio non farlo: aveva ucciso la sua piccola capra.
Cos’è un popolo di confine
Dato è un uomo con occhi piccoli e verdi e brillanti, ride ogni volta che racconta qualcosa di serio. Originario di Dartlo, un villaggio che pare caduto nella rupe, con le torri cecene e le case diroccate, vive adesso a Omalo e gestisce la sua guest house. All’ingresso della stanza dove si mangia, si cucina e si sopravvive, ha scritto stop russia; c’è anche un cartello che sembra indicare il wi-fi ma il segnale non prende in nessun punto dell’intera regione. Per connettersi al mondo, c’è quindi una radio, accesa tutti i giorni e tutte le notti a tutte le ore, Dato la mette sopra il terrazzo e ascolta. O non ascolta, chi può dirlo.
Conosce le hit americane e le hit georgiane, sa cosa succede nel mondo e si adira anche se può farci ben poco, può solo ascoltare e aspettare.
La prima mattina, quando ci svegliamo, risuonano le parole Israeli e Palestine e, anche se il Tusheti sembra dimenticato perfino dalla guerra, in realtà non è così.
I confini di questi posti sono stati martoriati per secoli, chi vive sul Caucaso sa bene quanto sia incerta la sorte del suo passaporto, che è sempre là in alto che si giocano i conti più duri.
Dartlo e Omalo sono villaggi doppi proprio per questo: in estate gli abitanti si trasferivano nella zona alta e fortificata per difendersi dalle invasioni, mentre nei mesi freddi se ne andavano più in basso, riparati dalle intemperie. Non importava se fossero giù o fossero su, erano sempre Dartlo e sempre Omalo.
«Quando c’era ancora l’Unione Sovietica, eravamo proprio uguali uguali» mi racconta un signore che ha piantato dei fiori davanti la sua casa che, va da sé, da giugno diventa una guest house. «Avevamo relazioni gli uni con gli altri. Nel 1984, il governo decise di costruire scuole e chiese e pure una stazione di polizia, il villaggio fiorì ma, quando l’unione cadde, la Georgia si dimenticò di Omalo e dei suoi abitanti. Pian piano la gente cominciò ad abbandonare le case. I servizi non servivano più.»
Dopo ci sono stati scontri, violenze e guerriglie, perché, se durante il regime la Russia sapeva cosa farsene, del Tusheti, il governo neo-georgiano aveva ben più difficoltà a capire come sfruttarlo.
«Prima eravamo simili» dice il signore, come se una dittatura fosse un buon modo per eguagliare tutti, ma la verità è che a me sembra ancora lo stesso. È nella pelle legnosa che si somigliano, nella reticenza alla parola e nel modo di strappare il pane, diverso da quello di un minatore o di un marinaio, perché non è solo la durezza che accomuna questa gente, ma la montagna stessa, che è montagna ovunque e in tutto il mondo così com’è.
È uno spirito, la montagna, è un guardare dall’alto, un panorama che è sempre in proporzioni alterate e disumane.
Il cielo vicino e la terra lontana.
Ecco cos’è la montagna.
Non a caso ci hanno sempre messo sopra gli dèi.
Il sacro e l’alcol: strumenti per una resistenza
In Tusheti tutto diviene facilmente sacro. I luoghi, gli altari, le feste, i brindisi, la birra, le cime. Culti animisti e pagani si sono fusi con il cristianesimo dando vita a una religione chiamata dal caucasologo ceco Václav A. Černý: jvarismo.
Il termine jvari denota una certa energia o luce o santuario, Dio ha molteplici figli, ghtishvilis, che sono a sua volta divinità. L’Uno è suddiviso in due principi opposti, che animano il mondo e lo tengono in equilibrio. Il primo è purezza, coscienza e paradiso, ed è rappresentato niente di meno che dall’uomo; l’altro è peccato, tentazione, inconscio e indovinate? È la donna.
Attorno ai villaggi esistono aree accessibili solo ai maschi, dove si tengono cerchi consiliari e si sorseggia la birra sacra, birra identica alle altre, ma prodotta con l’orzo benedetto. La raccolta assume ancora oggi un significato particolare, ma nel passato era davvero uno dei momenti più importanti dell’anno. Il capo del clan annunciava il giorno della mietitura e la comunità si riuniva per selezionare gli animali da sacrificare alle divinità. Poi il capo apriva il barile di birra e riempiva i calici d’argento, accendeva le candele vicino alle offerte e recitava alcune preghiere. «Gaumarjos!» diceva solennemente. Poi si dirigeva nel campo, tagliava qualche spiga d’orzo e infine passava la falce ai mietitori. C’erano persone che avevano il solo e fondamentale compito di portare tini di birra in continuazione, per non lasciare mai a secco nessuno. La mietitura era accompagnata da canti e uno di loro iniziava più o meno così: «Jvari benedica Iakhsar e Iakhsar benedica il tuo popolo»; gli altri, intorno, ripetevano lo stesso. Era un giorno sacro, di festa, pieno di significato.
Ma le donne ne erano escluse, e lo sono tutt’ora. Anche al giorno d’oggi, alle donne è vietato partecipare alla maggior parte dei riti e frequentare quei luoghi dove si prendono le decisioni importanti.
«Non potremmo mai prendere in considerazione una donna» si giustifica Dato «perché potrebbe innamorarsi di un uomo di un altro villaggio e fuggire. Potrebbe fare la spia». Quando lo dice, si vede che un po’ se ne vergogna, perché la parola spia, in qualsiasi luogo dell’ex Unione Sovietica, è una parola di accusa profonda.
Di donne, comunque, in inverno in Tusheti non ne resta nessuna.
Con una spallata, Dato apre la porta di casa sua, che è una stanza. Sulle assi di legno ci sono altre assi di polistirolo, un cuscino con una federa rosa e sul tavolo ci sono quattro bicchieri. Dato apre una bottiglia di vino che nascondeva nella giacca e lo versa a tutti. I bicchieri sono freddi e polverosi, il vino è acido e denso. Menomale che è freddo.
Poi si siede su una sedia e comincia a raccontare. Parla di filosofia, di lunghe giornate spese senza far nulla, parla di infanzia e di nuove scelte. Ripete che i cavalli o torneranno o toccherà andarli a cercare. Non dice che potrebbero essere morti, non lo pensa affatto.
Parla degli orsi. Parla delle feste di luglio nel suo paese, delle prove di forza tra uomini e si rammarica che quest’anno gli facesse male una spalla, perché gli uomini devono salire in piedi sugli altri e poi camminare in cerchio e non cadere per primi. Se si cade per primi, l’anno sarà di sventura.
Dei sacrifici delle bestie. Delle bestie che diventano compagne di vita.
Parla di libertà, come hanno già fatto tutte le persone prima di lui che abbiamo intervistato durante la nostra permanenza. Libertà l’hanno pronunciata in batsi, o l’hanno pronunciata in georgiano, e se all’inizio pare scontata, pian piano assume un significato nuovo, per me, di zecca: la libertà è del selvaggio.
È una condizione di natura e niente che si debba conquistare, piuttosto bisogna fare attenzione che non ce la portino via. E Dato lo sa che per essere liberi bisogna rimanere dentro al recinto. Nella propria zona protetta e isolata, in habitat destinati all’estinzione nella regione più irraggiungibile di tutta la Georgia.
C’erano progetti per questa strada di alta montagna, proposte per renderla più sicura, più frequentata. C’erano nazioni e imprese pronte al finanziamento e ai lavori.
Ma i tush hanno detto no, neanche per sogno. Si sono opposti con la forza e la paura indigena di non essere più ciò che si è sempre stati, vale a dire pastori o gente difficile, vale a dire liberi.
Tutto è sacro perché la libertà lo è. E pure la montagna.
Dato, con i suoi occhietti siberiani e il nasone da renna, guarda la sua casa a Dartlo, una palafitta diroccata. Mentre cala il buio, risale verso la macchina attraverso scorciatoie da stambecco, poi sveglia Irakli che ha bevuto troppi bicchieri di chacha e si è addormentato durante la nostra visita. È l’ora del tramonto.
I tramonti d’altitudine sono sempre gentili, non sono come quelli del deserto che danno accesso a un altro mondo, qui in un attimo è già tutto pastello e le sagome dei monti sfumano via.
Irakli si schiaffeggia al freddo la faccia e torna in macchina, con l’amico stappa una birra e comincia a guidare sui versanti scoscesi del Caucaso nord-orientale. Si vede male la strada ma si vedono bene le stelle.
Nel mentre uomini scendono verso Alvani, e poi verso il Kakheti meridionale e poi ancora più giù, al confine con l’Azerbaigian, seguiti dai loro greggi fosforescenti.
Omalo si chiude in un guscio bianco. Ed è primavera.
Sette mesi dopo: i tush nel deserto (mentre piove)
Quando siamo tornati, siamo tornati in un posto diverso, in una stagione diversa, per incontrare gli altri tush, quelli che se ne erano andati.
Il Vashlovani National Park è il deserto del Caucaso. Qui l’Alazani, che sorge in Tusheti e attraversa popoli e regioni alquanto singolari, finisce; e non in un mare, non in un lago, ma risucchiato dalla terra argillosa.
Brullo, secco, mite d’inverno e rovente in estate, il Vashlovani National Park ospita gazzelle dalla coda nera, leopardi persiani, aquile, avvoltoi e moltissime altre specie protette. Occupa il territorio tra l’Azerbaigian settentrionale e la punta della Georgia a sud-est, e l’unica strada che si può percorrere, una strada di terra rossa che fa su e giù tra collinette e canyon, ne rappresenta proprio il confine. A sinistra la Georgia e a destra l’Azerbaigian.
Per attraversarlo serve un pass speciale e si può dormire nelle ranger stations dove si trova qualche branda di fortuna, a volte una bombola di gas mezza piena e, più raramente, qualche coperta di lana. Al di là dei ranger, non vi abita nessun altro che non siano i pastori del Tusheti che, per svernare in questa valle, pagano un affitto piuttosto salato al governo. Le case sono capanne, le stalle sono tirate su con il fango e la paglia.
Dietro si stagliano le montagne nere, mentre davanti, dalla steppa, arrivano i fumi delle industrie azere. Ai georgiani è severamente vietato andare di là e agli azeri è vietato venire di qua.
Il telefono di una persona occidentale, invece, impazzisce. La schermata si illumina dando il benvenuto prima in un paese e poi nell’altro, e di nuovo nell’uno e nell’altro a seconda delle tasche o delle curve; tuttavia, il segnale non c’è mai.
Come soluzione, vicino a una stalla i pastori hanno piantato un lungo bastone di legno, e con una corda hanno legato un tegame di alluminio alla cima. Ecco, questo è l’unico posto in cui prende il cellulare per chilometri sterminati di niente.
Un pastore tira fuori dalla tasca il suo e fa il gesto di una chiamata, poi sbuffa perché non va. Indica il cielo: con queste nuvole è un peccato, ma proprio non va.
Abbiamo attraversato il parco durante i quattro giorni più piovosi dell’anno e, come da copione, abbiamo distrutto la nostra auto, forse perché stavolta non c’era un Irakli ubriaco a guidarla.
Dopo qualche ora di strada, siamo costretti a fermarci nella casa di un pastore tush, e presto, come se la nostra macchina gridasse stranieri! stranieri!, sono arrivati anche due vecchi col gregge e un bastone da stregoni.
La capanna che ci accoglie puzza di capra, è come se ce ne fosse morta una lì dentro; è come se, un attimo prima di morire, avesse bevuto litri e litri di chacha. Dal soffitto penzolano dei sacchi di farina vuoti e tra i piedi ci si attorcigliano cuccioli di gatto e mamme di gatto di nuovo incinte.
La stufa è accesa. Fuori piove a dirotto.
Mi ero fatta un’altra idea, dopo essere stata tra le montagne. Pensavo a questo posto come un rifugio tiepido e felice, ma la verità è che la vastità è desolante.
Il pastore che ci ospita ha gli occhi un po’ vitrei, eppure brillano come quelli di Dato. Gli chiedo se ha dei figli e lui fa con le mani un sei, poi comincia a elencarli e il quarto nome è proprio lui: Dato. Mi eccito subito.
Mentre sto per mostrargli la foto e chiudere il cerchio più sensato di tutto il mio viaggio, il pastore abbassa le palpebre e si addormenta perduto nella sua chacha; io non lo sveglio.
Questo posto d’altronde è una sala d’attesa lunga sei mesi, ci si appisola bene, e forse è meglio dormire che scoprire la verità.
Basterebbe il sole, come basta sempre, per far cambiare idea sulla vastità desolante, ma in questo deserto continua a piovere e il marrone-argilla, il marrone-mulo, il marrone-fiume e il marrone-pelle invadono lo spazio e lo rendono identico tutto il tempo.
La risata agra dei pastori si accompagna ai racconti dei loro preparativi: non appena tornerà il sole, potranno mettersi in cammino e tornare a casa.
Guidati dall’Alazani, pian piano cominceranno a salire, lasceranno i fiumi nelle gole profonde e i greggi trotteranno, i cani morsicheranno gli stinchi delle pecore più distratte. Lungo la strada, si fermeranno a guardare le foto dei fratelli morti, pregheranno sempre e spesso berranno. Le uova sode però, non le avranno di sicuro.
E quando arriveranno in Tusheti, allora verranno assaliti di nuovo dalla libertà, che è una libertà che si può avere solo se si guarda dall’alto, perché l’alto vede il basso e sé stesso, ma il basso non può.
«Gaumarjos!» griderà il primo. E tutti i morti e tutti i vivi con lui.
Questo viaggio, come una serie di altre spedizioni fatte ai confini della Georgia, sono stati possibili grazie al progetto editoriale Inland, che prova a raccontare luoghi estremi attraverso le storie di chi li abita. Il secondo numero ha come protagonista la Georgia, con le sue contraddizioni politiche, le sue comunità marginali e la sua cultura ibrida, eterno ponte tra l’est e l’ovest del nostro mondo.
Fotografie a cura di Riccardo Lana