9

Aprile
9 Aprile 2024

GLI STU­DEN­TI NON SONO CLIEN­TI

0 CommentI
238 visualizzazioni
19 min

Negli anni, ho impa­ra­to che quan­do si par­la di uni­ver­si­tà ognu­no pen­sa che le cose stia­no nel modo che la sua espe­rien­za per­so­na­le sug­ge­ri­sce. Que­sto riguar­da chi nell’università ci lavo­ra, dai bidel­li ai ret­to­ri, così come chi al mon­do uni­ver­si­ta­rio è ester­no: ex stu­den­ti, fami­lia­ri degli stes­si, ami­ci di quel­li che han­no un cugi­no che ha fat­to que­sto e quel­lo. In gene­re, si ha un qua­dro par­zia­le del­la galas­sia uni­ver­si­ta­ria, la cui com­ples­si­tà ed ete­ro­ge­nei­tà è mol­to più gran­de di quan­to ognu­no pen­si. Io non fac­cio ecce­zio­ne. Nono­stan­te lavo­ri nell’università pub­bli­ca da più di trent’anni, i miei giu­di­zi sono pro­ba­bil­men­te influen­za­ti da quel che ho visto e sen­ti­to di per­so­na. Cio­no­no­stan­te, mi assu­me­rò il rischio di rac­con­ta­re quel che vi suc­ce­de oggi e dove stia­mo andan­do.

Avver­ten­za: que­sto non è il soli­to pez­zo sul malaf­fa­re baro­na­le, sul pro­fes­so­re sadi­co che boc­cia tut­ti o sul diplo­mi­fi­cio che rila­scia tito­li far­loc­chi. Que­sto sot­to­ge­ne­re del gior­na­li­smo scan­da­li­sti­co ser­ve giu­sto ad accen­de­re gli ani­mi di chi l’università la cono­sce poco. Ciò di cui inten­do par­la­re è il ruo­lo che la nostra socie­tà asse­gna all’università e di quan­to sia diver­so da quel­lo che inve­ce secon­do me dovreb­be ave­re.

Chie­do scu­sa se la pren­do un po’ alla lar­ga: i pro­ble­mi su cui voglio atti­ra­re l’attenzione del let­to­re deri­va­no da una ten­den­za cul­tu­ra­le che ha pre­so cam­po nell’occidente a par­ti­re dall’ultimo quar­to del seco­lo scor­so e che impat­ta su ogni aspet­to del vive­re col­let­ti­vo, o qua­si. Non pos­so e non voglio par­la­re in modo esau­rien­te di un feno­me­no di tale por­ta­ta, per cui mi limi­te­rò a quel­lo che cono­sco più da vici­no: l’istruzione supe­rio­re, appun­to. Sta al let­to­re deci­de­re se e quan­to il discor­so pos­sa esse­re este­so ad altri ambi­ti.

La ten­den­za cul­tu­ra­le di cui par­lo riguar­da l’idea che il mer­ca­to for­ni­sca la chia­ve di let­tu­ra prin­ci­pa­le per inter­pre­ta­re il mon­do. A scan­so di equi­vo­ci, dico subi­to che secon­do me l’economia di mer­ca­to — e la demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­ti­va che ne è il com­ple­men­to — è l’organizzazione socia­le miglio­re fra tut­ti gli esem­pi sto­ri­ci che abbia­mo. Tut­ta­via, la mia for­ma­zio­ne di eco­no­mi­sta mi per­met­te di vede­re quan­to l’assunzione indi­scri­mi­na­ta del­le cate­go­rie del mer­ca­to sia impro­pria scien­ti­fi­ca­men­te e dele­te­ria nel­la pra­ti­ca.

Chiun­que si sia acco­sta­to anche solo per poco allo stu­dio dell’economia sa che nel mon­do rea­le esi­sto­no mol­te con­di­zio­ni che lo ren­do­no diver­so dal mon­do astrat­to imma­gi­na­to dagli eco­no­mi­sti, in cui l’accordo bila­te­ra­le fra agen­ti razio­na­li pro­du­ce sem­pre risul­ta­ti social­men­te otti­ma­li. Nel mio mestie­re, si dice che que­ste con­di­zio­ni dan­no luo­go ai cosid­det­ti “fal­li­men­ti del mer­ca­to”: infor­ma­zio­ne incom­ple­ta ed asim­me­tri­ca, ester­na­li­tà e così via. Ma que­sti tec­ni­ci­smi non sono indi­spen­sa­bi­li. Baste­rà dire che gli eco­no­mi­sti san­no da gene­ra­zio­ni che usa­re le tran­sa­zio­ni pri­va­te come uni­co stru­men­to per rego­la­re la vita col­let­ti­va non pro­du­ce un otti­mo socia­le, e che esse van­no, come mini­mo, oppor­tu­na­men­te nor­ma­te.

Disgra­zia­ta­men­te, tale com­pli­ca­zio­ne è sta­ta igno­ra­ta, o per lo meno sot­to­va­lu­ta­ta, dagli acca­de­mi­ci (prin­ci­pal­men­te, direi, per mio­pia e quie­to vive­re) e dai poli­cy maker (prin­ci­pal­men­te, direi, in modo stru­men­ta­le). Da cir­ca cinquant’anni a que­sta par­te il dibat­ti­to pub­bli­co ha dato per scon­ta­to che le pri­va­tiz­za­zio­ni sia­no in sé una buo­na cosa, che la con­cor­ren­za pro­du­ca inva­ria­bil­men­te risul­ta­ti vir­tuo­si e che il benes­se­re si iden­ti­fi­chi con la sod­di­sfa­zio­ne dei biso­gni mate­ria­li dell’individuo.

L’abitudine di usa­re le cate­go­rie del mer­ca­to per leg­ge­re la real­tà ha por­ta­to noi eco­no­mi­sti a una descri­zio­ne sti­liz­za­ta, ancor­ché per­fet­ta­men­te coe­ren­te, del per­ché l’istruzione esi­sta. In estre­ma sin­te­si, l’idea è che ci sono indi­vi­dui (o le loro fami­glie) dispo­sti a soste­ne­re i costi dell’istruzione in cam­bio dei bene­fi­ci eco­no­mi­ci che que­sta por­te­rà loro. Fare l’università è una del­le tan­te for­me di inve­sti­men­to: lo stu­dio con­du­ce all’accumulazione di capi­ta­le uma­no, che accre­sce la capa­ci­tà dell’individuo di pro­dur­re ric­chez­za e quin­di i suoi red­di­ti futu­ri. Esi­sto­no cen­ti­na­ia di pub­bli­ca­zio­ni in cui ven­go­no sti­ma­te le cosid­det­te equa­zio­ni di Min­cer, tra­mi­te le qua­li si cer­ca di quan­ti­fi­ca­re con la mas­si­ma pre­ci­sio­ne pos­si­bi­le a quan­ti dol­la­ri all’anno equi­val­ga un anno in più di istru­zio­ne.

Se que­sta è la descri­zio­ne orto­dos­sa dell’istruzione, diven­ta ine­vi­ta­bi­le un’idea di uni­ver­si­tà in cui lezio­ni ed esa­mi sono solo un ser­vi­zio che un’azienda (l’università) for­ni­sce ad un clien­te (lo stu­den­te). Ne seguo­no in modo qua­si bana­le diver­si fat­ti, evi­den­ti soprat­tut­to in quei pae­si che han­no pre­so il discor­so par­ti­co­lar­men­te sul serio: per pri­mi gli Sta­ti Uni­ti, ma anche, negli ulti­mi anni, l’Inghilterra, con il rior­di­no del set­to­re volu­to dal gover­no Came­ron. Gli stu­den­ti paga­no cifre rile­van­ti (deci­ne di miglia­ia di euro all’anno) per il dirit­to a con­se­gui­re un tito­lo che segna­li le loro qua­li­tà vere o pre­sun­te, e mol­ti si inde­bi­ta­no pesan­te­men­te. Le uni­ver­si­tà, inol­tre, com­pe­to­no fra loro come azien­de, e cer­ca­no di atti­ra­re stu­den­ti con poli­ti­che di mar­ke­ting varia­men­te arti­co­la­te: si va dal model­lo di éli­te (il MIT, per esem­pio, in cui chi esce è dav­ve­ro uno spe­cia­li­sta coi con­tro­fioc­chi) al model­lo hard discount (io fac­cio fin­ta di inse­gnar­ti, tu fai fin­ta di impa­ra­re, mi dai quat­tro sol­di e sia­mo tut­ti con­ten­ti). In que­sto con­te­sto, l’idea che in un’università si fac­cia anche ricer­ca è lega­ta anche all’idea che pro­dur­re pre­mi Nobel, o per lo meno qual­che tito­lo di gior­na­le, miglio­ri la pro­pria imma­gi­ne agli occhi dei poten­zia­li clien­ti, a dan­no del­le uni­ver­si­tà con­cor­ren­ti.

Va da sé che una visio­ne dell’istruzione in cui ciò che si appren­de ha valo­re solo nel­la misu­ra in cui sarà un gior­no mone­tiz­za­bi­le per­mea la socie­tà nel suo com­ples­so e si riflet­te nel­le dif­fi­col­tà che tut­to il siste­ma dell’istruzione, a par­ti­re da quel­lo del­la pri­ma infan­zia, incon­tra nel dare pre­sti­gio e cre­di­bi­li­tà a cose che, a tor­to o a ragio­ne, sono con­si­de­ra­te poco spen­di­bi­li sul mer­ca­to del lavo­ro.

Il frut­to di tut­to ciò è un pro­gres­si­vo impo­ve­ri­men­to dei con­te­nu­ti e dete­rio­ra­men­to del rap­por­to fra docen­ti e stu­den­ti. Qual­che set­ti­ma­na fa, ho incon­tra­to a un con­ve­gno una bra­va col­le­ga, che dopo aver pre­so il dot­to­ra­to in Inghil­ter­ra e aver fat­to tut­ta la car­rie­ra lì si è ritra­sfe­ri­ta da poco in una buo­na uni­ver­si­tà ita­lia­na. Mi rac­con­ta­va con accen­ti di dolen­te impo­ten­za aned­do­ti del­la sua espe­rien­za ingle­se che ruo­ta­va­no attor­no all’atteggiamento per cui lo stu­den­te, in quan­to clien­te, ha sem­pre ragio­ne. Quin­di i con­te­nu­ti dei cor­si e le moda­li­tà degli esa­mi devo­no per for­za riflet­te­re quel che gli stu­den­ti si aspet­ta­no di rice­ve­re, dal momen­to che paga­no. Con­tra­ria­men­te a quel che i luo­ghi comu­ni vor­reb­be­ro, la mia col­le­ga non riu­sci­va a nascon­de­re il sol­lie­vo che le por­ta­va il ritor­no in Ita­lia.

Nel nostro pae­se, infat­ti, non sia­mo così estre­mi, anche se per mol­ti ver­si stia­mo andan­do nel­la stes­sa dire­zio­ne. La nor­ma­ti­va che rego­la il fun­zio­na­men­to degli ate­nei pub­bli­ci con­tie­ne dei mec­ca­ni­smi impli­ci­ti che li inco­rag­gia a far­si con­cor­ren­za fra loro per acca­par­rar­si il nume­ro di stu­den­ti più alto pos­si­bi­le. Vedia­mo una cre­scen­te ten­den­za al ricor­so a tec­ni­che di mar­ke­ting più o meno auda­ci e alla crea­zio­ne di cor­si di lau­rea sugli argo­men­ti più fan­ta­sio­si e accat­ti­van­ti. Gli stu­den­ti com­pi­la­no que­stio­na­ri impron­ta­ti sul­lo sti­le del­la custo­mer sati­sfac­tion. Nel con­tem­po, il lavo­ro del docen­te uni­ver­si­ta­rio è sem­pre più buro­cra­tiz­za­to e inca­na­la­to ver­so un model­lo for­di­sta in cui l’aula è la cate­na di mon­tag­gio da cui esco­no lau­rea­ti, in tem­pi cer­ti e mini­miz­zan­do gli spre­chi. Un docen­te che ten­ti di fare didat­ti­ca in modo anti­con­ven­zio­na­le e crea­ti­vo vie­ne visto con sospet­to se non con osti­li­tà. È inu­ti­le dire che per un col­le­ga gio­va­ne il con­for­mi­smo diven­ta una vera e pro­pria tec­ni­ca di soprav­vi­ven­za. In que­sto sen­so, il fat­to che la com­po­nen­te arti­gia­na­le e crea­ti­va del lavo­ro uni­ver­si­ta­rio sia sta­ta pro­gres­si­va­men­te scre­di­ta­ta è una ovvia con­se­guen­za.

 

E qui ven­go alla tesi cen­tra­le che pro­pon­go al let­to­re: tut­to que­sto è sba­glia­to. Il model­lo mer­ca­ti­sta dell’istruzione è scien­ti­fi­ca­men­te dub­bio (o per lo meno incom­ple­to) e social­men­te dan­no­so. Nel model­lo stan­dard il puro amo­re per la cono­scen­za sem­pli­ce­men­te non è pre­vi­sto. D’altronde, dal­la ‘scien­za tri­ste’ non ci si può aspet­ta­re che si indul­ga sul sacro fuo­co del­la pas­sio­ne intel­let­tua­le. E peral­tro, la visio­ne com­ple­ta­men­te uti­li­ta­ri­sti­ca dell’istruzione con­tie­ne già in sé un ger­me di con­trad­dit­to­rie­tà: nel­la lin­gua ingle­se, la fra­se “se sei così in gam­ba, come mai non sei ric­co?”, con cui uno stu­den­te può apo­stro­fa­re un docen­te è qua­si un topos. Ma que­sto non sareb­be un pro­ble­ma: che uno stu­den­te affron­ti un per­cor­so per cal­co­lo o per pas­sio­ne o per un misto fra i due non ha alcu­na impor­tan­za.

Ciò che è inve­ce dav­ve­ro rile­van­te è la fun­zio­ne socia­le dell’istruzione, e quin­di non i van­tag­gi indi­vi­dua­li, ma quel­li col­let­ti­vi. Il com­pi­to che la socie­tà asse­gna, da sem­pre, all’università è ciò che potrem­mo chia­ma­re la ‘manu­ten­zio­ne del­la cono­scen­za’. La manu­ten­zio­ne impli­ca la con­ser­va­zio­ne cri­ti­ca del­la cono­scen­za esi­sten­te, il suo accre­sci­men­to e la sua tra­smis­sio­ne inter­ge­ne­ra­zio­na­le. Le pri­me due fun­zio­ni per­ten­go­no alla ricer­ca, la ter­za alla didat­ti­ca.

Nel­la visio­ne che sosten­go, la ragio­ne per cui è fon­da­men­ta­le che in una socie­tà esi­sta la didat­ti­ca (non solo quel­la uni­ver­si­ta­ria, peral­tro) è che con la didat­ti­ca le cono­scen­ze del­la gene­ra­zio­ne pre­ce­den­te pas­sa­no, fil­tra­te e miglio­ra­te, alla gene­ra­zio­ne suc­ces­si­va. Se pren­dia­mo per buo­na quest’idea, gli stu­den­ti non sono clien­ti dei docen­ti. È vero inve­ce che docen­ti e stu­den­ti con­cor­ro­no a far sì che le idee e le nozio­ni attra­ver­si­no il tem­po e le gene­ra­zio­ni, estin­guen­do­si, amplian­do­si e arric­chen­do­si in un pro­ces­so simi­le alla sele­zio­ne natu­ra­le. Stu­den­ti e docen­ti sono col­la­bo­ra­to­ri in un pro­get­to la cui bene­fi­cia­ria è la socie­tà inte­ra e che è sostan­zial­men­te la costru­zio­ne di un pon­te fra pas­sa­to e futu­ro.

Il moti­vo per cui è giu­sto che la fon­te di finan­zia­men­to prin­ci­pa­le per l’università pub­bli­ca sia la fisca­li­tà gene­ra­le, anzi­ché le tas­se degli stu­den­ti, risie­de nel fat­to che chi esce dall’università sarà chia­ma­to a pren­de­re deci­sio­ni che si riper­cuo­to­no su tut­ti. In veste di mana­ger di azien­da, di diri­gen­te pub­bli­co, di magi­stra­to, di psi­chia­tra. Una clas­se diri­gen­te di valo­re è un van­tag­gio per l’intera col­let­ti­vi­tà. Nell’ottica mer­ca­ti­sta, un bra­vo medi­co cura la gen­te che è dispo­sta a paga­re per i suoi ser­vi­zi, e gua­da­gna in pro­por­zio­ne. Nel­le socie­tà social­de­mo­cra­ti­che moder­ne, un bra­vo medi­co ser­ve per assi­cu­ra­re cure di qua­li­tà anche a chi i ser­vi­zi non può pagar­li. In una socie­tà evo­lu­ta, il con­tri­buen­te è chia­ma­to a paga­re anche per la costru­zio­ne di una clas­se di intel­let­tua­li con cui non avrà mai a che fare per­so­nal­men­te, come gli etno­mu­si­co­lo­gi o i filo­lo­gi roman­zi. E ciò è un bene.

A testi­mo­nian­za del fat­to che que­sta idea non me la inven­to io, segna­lo che nell’università ita­lia­na esi­ste la dizio­ne “ter­za mis­sio­ne”, che è appun­to la dis­se­mi­na­zio­ne del­la cono­scen­za al di fuo­ri dell’accademia. A paro­le, è blan­da­men­te inco­rag­gia­ta, ma è irri­le­van­te sia dal pun­to di vista del­la remu­ne­ra­zio­ne che del­le pro­spet­ti­ve di car­rie­ra.

Super­fi­cial­men­te, potreb­be sem­bra­re che, in un siste­ma in cui lo stu­den­te è un clien­te, ci sia più garan­zia di una didat­ti­ca di qua­li­tà. In fin dei con­ti, si potreb­be pen­sa­re, vale il prin­ci­pio per cui i risto­ran­ti buo­ni sono pie­ni e quel­li sca­den­ti no. Al con­tra­rio: se lo stu­den­te è il giu­di­ce ulti­mo del­la qua­li­tà del­la didat­ti­ca, nien­te impe­di­sce a stu­den­ti e docen­ti di accor­dar­si, con mutua sod­di­sfa­zio­ne, sul model­lo hard discount a cui accen­na­vo pri­ma. Ci sono tan­ti modi in cui la didat­ti­ca può esse­re fat­ta male: ad esem­pio, facen­do cor­si obso­le­ti o mal pro­por­zio­na­ti, oppu­re dan­do valu­ta­zio­ni stra­va­gan­ti, capric­cio­se o peg­gio. Que­ste pec­che non dan­neg­gia­no neces­sa­ria­men­te lo stu­den­te alla ricer­ca del pez­zo di car­ta, ma dan­neg­gia­no sicu­ra­men­te la socie­tà nel suo insie­me.

Cer­to, non c’è nien­te di male se chi ha stu­dia­to più a lun­go gua­da­gni di più, né che il sin­go­lo indi­vi­duo deci­da di intra­pren­de­re una cer­ta car­rie­ra solo per­ché desi­de­ra una vita agia­ta, sen­za alcun inte­res­se per il pro­prio ruo­lo socia­le. Va bene anche que­sto: la socie­tà trae van­tag­gio anche dal nota­io che è diven­ta­to tale per ere­di­ta­re lo stu­dio di papà, nel­la misu­ra in cui fa bene il suo lavo­ro. La remu­ne­ra­zio­ne dei bra­vi lau­rea­ti è una vir­tuo­sa con­se­guen­za del mec­ca­ni­smo per cui, in un mer­ca­to che fun­zio­na bene, chi fa cose che por­ta­no un gran­de bene­fi­cio a mol­te per­so­ne qua­si sem­pre ne gode i frut­ti eco­no­mi­ci. In que­sto, un gran­de neu­ro­chi­rur­go non è diver­so da Emma Sto­ne o Lio­nel Mes­si. Di con­se­guen­za, l’idea orto­dos­sa per cui chi si istrui­sce lo fa in vista di un bene­fi­cio pri­va­to non è sba­glia­ta, né dan­no­sa. È, sem­pli­ce­men­te, incom­ple­ta per­ché tra­scu­ra il ruo­lo socia­le dei lau­rea­ti, che essi han­no volen­ti o nolen­ti.

 

Si potreb­be argo­men­ta­re che la mia distin­zio­ne fra model­lo mer­ca­ti­sta e model­lo socia­le, come li ho chia­ma­ti fino­ra, è sche­ma­ti­ca. Può esse­re. La veri­tà è che in ogni siste­ma c’è una con­vi­ven­za fra i due, che van­no pre­si come casi estre­mi e pola­ri. Altri­men­ti, non si spie­ghe­reb­be come mai negli Sta­ti Uni­ti ci sia­no uni­ver­si­tà pub­bli­che di altis­si­mo livel­lo (Ber­ke­ley, per dir­ne una) e dipar­ti­men­ti che ospi­ta­no i miglio­ri stu­dio­si di disci­pli­ne pale­se­men­te non com­mer­cia­bi­li, come ad esem­pio le let­te­re clas­si­che. La mia non vuol esse­re la soli­ta gere­mia­de da euro­peo snob sul­la mal­va­gi­tà del capi­ta­li­smo impe­ria­li­sta. Piut­to­sto, mi pia­ce­reb­be che il let­to­re traes­se qual­che spun­to di rifles­sio­ne da que­ste paro­le e ini­zias­se un dibat­ti­to col­let­ti­vo sui pun­ti che ho sol­le­va­to, come mini­mo su quel­lo che voglia­mo dal siste­ma dell’istruzione supe­rio­re.

Il mez­zo con cui la socie­tà tra­di­zio­na­le risol­ve­va il pro­ble­ma di ricon­ci­lia­re l’obiettivo col­let­ti­vo di una clas­se diri­gen­te di qua­li­tà col pro­ble­ma indi­vi­dua­le di soste­ne­re i costi dell’istruzione era quel­lo di acco­sta­re ai van­tag­gi eco­no­mi­ci del lau­rea­to il pre­sti­gio socia­le di cui gode­va in quan­to tale. Oggi che quest’ultimo incen­ti­vo è venu­to meno, l’unico modo di con­vin­ce­re un gio­va­ne a stu­dia­re è pro­met­ter­gli dei bene­fi­ci mate­ria­li. Quan­to cre­di­bi­le sia que­sta pro­mes­sa, all’alba di un’era in cui l’intelligenza arti­fi­cia­le pre­fi­gu­ra una can­cel­la­zio­ne del­le pro­fes­sio­ni impie­ga­ti­zie così come decen­ni fa il pro­gres­so tec­ni­co spaz­zò via brac­cian­ti e ope­rai non qua­li­fi­ca­ti, è dif­fi­ci­le dire. For­se, l’unica via di usci­ta sta pro­prio nel rico­no­sce­re in modo più com­piu­to e siste­ma­ti­co il valo­re col­let­ti­vo e socia­le del siste­ma dell’istruzione e ripen­sa­re di con­se­guen­za il siste­ma di incen­ti­vi per cui pos­sia­mo assi­cu­ra­re la manu­ten­zio­ne del­la cono­scen­za per le gene­ra­zio­ni futu­re.

Con­di­vi­di:
TAGS:
I commenti sono chiusi