Skip to content Skip to footer

FRA UNA TAZZA E L’ALTRA: LA STORIA DEL CAFFÈ COME CHIAVE PER OSSERVARE LO SVILUPPO CAPITALISTICO

Il caffè è una di quelle materie prime che più riescono a rendere intelleggibile quel grande affresco che è l’economia politica internazionale: studiandone la filiera produttiva e la storia del suo mutamento si riesce infatti ad osservare con relativa chiarezza come il mondo di oggi è diventato quello che è. Forse, di fronte ad un’affermazione simile, sono più gli scettici che i credenti; quest’articolo ha infatti lo scopo di mostrare l’utilità dell’utilizzo del caffè come chiave analitica per pensare il capitalismo.

Come diceva Braudel (1977, 45-46), inserire questo concetto – il capitalismo – in un discorso rischia di generare polemiche e fraintendimenti: guardando però la storia mondiale dal nostro piccolo angolino, il caffè, forse riusciremo a far sì che tale termine sia, almeno, solo connotativo.

Per iniziare il discorso – scontando la presenza di appassionati e studiosi di agricoltura e biologia, che ahimè si annoieranno un attimo – bisogna partire dalle caratteristiche intrinseche della pianta di caffè. Questa è una tipica pianta tropicale che dunque può essere coltivata con successo solamente nelle aree intorno all’equatore: né sopra, nel Tropico del Capricorno dove sono Italia ed Europa per capirsi, né sotto, nel Tropico del Cancro. Tutto ciò a meno che non si usino serre ma coltivazioni classiche, senonché per produrre le 10,1 milioni di tonnellate del 2023 le serre non basterebbero. Inoltre, il caffè è anche una pianta perenne, ovverosia ha un processo evolutivo lungo e può arrivare ad avere anche un secolo d’età: i primi frutti, i chicchi di caffè, arrivano solitamente dopo il 4° o 5° anno produttivo mentre l’età fino alla quale la pianta rende un raccolto buono, se sfruttata intensivamente, sono i 30 anni.

Il lettore si chiederà: ma perché sono importanti queste informazioni? Perché il mercato del caffè, data la sua natura di pianta tropicale, è diviso diametralmente in due grandi gruppi: paesi produttori del Sud del mondo e paesi consumatori del Nord del mondo. Ciò significa che, ad esempio, noi in Europa ma in generale nel mondo occidentale, siamo abituati a consumare il caffè giornalmente e anzi a considerarla una delle bevande principali della nostra dieta; nei paesi produttori, fra cui ricordiamo i primi cinque – Brasile, Vietnam, Colombia, Etiopia ed Indonesia – solamente Brasile ed Etiopia hanno un consumo domestico diffuso di caffè, negli altri paesi invece questo si produce per essere esportato nel Nord del mondo.

Dopo aver dato due indicazioni sulle peculiarità della filiera del caffè passiamo quindi a guardarne lo sviluppo storico. È ampiamente accettato che la pianta di caffè, Coffea Arabica, sia originaria dell’Etiopia, e che questa sia stata scoperta e diffusa nel IX secolo dopo Cristo. La storia della sua scoperta, oramai mitizzata, è diventata famosa grazie allo sforzo di Antonio Fausto Naironi – un cristiano maronita originario del Libano e trasferitosi a Roma – che nel 1671 la mise per iscritto. Si narra che Kaldi, un pastore di capre originario della zona di Kaffa – una delle regioni sudorientali dell’Etiopia e da cui il caffè stesso prende il nome – vide le sue capre danzare in preda ad un’estasi dopo aver assaggiato delle bacche rosse e che poi, dopo averle raccolte ed assaggiate lui stesso, le portò al locale imam. Qui, tuttavia, ci sono due versioni: a) l’imam scoprì che le bacche lo tenevano sveglio durante le sue preghiere notturne e decise quindi di farne un infuso da condividere, oppure b) che l’imam, disgustato da queste bacche, le tirò nel fuoco e che solo in quel momento ne apprezzò il delizioso aroma e decise quindi di andarle a raccoglierle, spezzettarle, aggiungere acqua calda e farne una deliziosa bevanda.

Per quanto questa storia possa considerarsi triviale, ancora oggi le comunità della zona di Kaffa e di Jimma, la principale città di quest’area, si disputano la paternità di una delle piante più famose al mondo. Ad ogni modo, la storia di Kaldi – da cui oggi prende il nome la più grande catena di caffetterie in Etiopia, Kaldi’s coffee – rappresenta simbolicamente l’idea di una scoperta che, dopo essere stata certificata dall’autorità morale e spirituale di un membro del clero, non può essere messa in dubbio dalla gente comune e che quindi permise al caffè di diffondere i suoi poteri energetici. Difatti, nei primi secoli della sua circolazione il caffè si diffuse nel mondo islamico con una velocità esponenziale, portando con sé anche numerosi cambiamenti sociali. Inizialmente, dall’Etiopia, il caffè si diffuse nell’area del Mar Rosso – che ne diventerà il centro di diffusione mondiale – e, dal 1450 quando arrivò sulle coste dello Yemen al 1650, quando, dopo il furto di alcune piante da parte di mercanti olandesi, divenne un prodotto coloniale, il caffè rimase una bevanda esclusivamente prodotta e consumata all’interno del mondo islamico. 

Nel 1450 infatti si registra il primo vero personaggio storico legato alla diffusione del caffè, Muhammed al-Dhabani, questi, membro della difficilmente catalogabile disciplina Sufi (cfr. Al-Kaisi 2021), preparò per primo un infuso di caffè e khat, una pianta allucinogena tipica del Corno d’Africa e della Penisola Arabica, l’equivalente della pianta di coca nelle regioni andine, detto qahwa: questa divenne presto molto popolare fra i Sufi, i quali fecero attraversare al caffè lo stretto di Bab El-Mandeb verso lo Yemen attraverso i suoi due porti principali, Aden e Mocha, di modo che questa poi arrivasse anche alle città sante di Mecca, Jedda, e Medina, ma anche al Cairo. L’importanza di questi due porti, e di Mocha in particolare, rimarrà anch’essa emblematica nella storia del caffè, il termine Moka infatti deriva proprio da questa città yemenita. Ad ogni modo, grazie ai Sufi si creò la prima fliera, o commodity chain per chi è familiare col concetto, e uno dei commerci a lunga distanza che fecero la fortuna dei grandi Stati africani dell’era moderna – come il Regno dell’Antico Ghana, l’Impero del Mali, o l’Impero Songhai.

La diffusione del caffè nel mondo islamico, tuttavia, non solo creò un’importante arteria commerciale ma ne rivoluzionò l’aggregazione sociale. Le caffetterie infatti furono: 

“Il primo spazio pubblico legittimo per la socializzazione fra uomini islamici […]: precedentemente, intrattenere gli altri avrebbe comportato invitarli alla propria casa, offrendo un banchetto, probabilmente preparato da servi, e mostrare la propria collezione di oggetti (e probabilmente della propria moglie), tutto questo creava una distinzione fra il padrone di casa e l’ospite. Adesso, si poteva invece incontrare i propri pari ad una caffetteria, e scambiarsi ospitalità su un piano di parità” (corsivo mio; Morris 2019, 52).

La conquista ottomana dell’Egitto spalancò la strada alla diffusione di questa bevanda in tutto il Medio Oriente, questa, in mezzo secolo, si espanse in maniera esponenziale così come fecero le caffetterie, generando le prime controversie da parte delle autorità: il nuovo stile di vita fu inizialmente combattuto ferocemente dalle autorità politiche e religiose perché smantellava la classica divisione sociale, e classista, su cui si basava l’Impero; entrando in una caffetteria infatti le differenze sociali si annullavano. Il Sultano Murad IV (1612-1640) perciò le bandì per una ventina d’anni, oramai però il processo non poteva più essere arrestato.

Dalle foreste selvagge d’Etiopia il caffè oramai raggiungeva la totalità del mondo musulmano del tempo; tuttavia, il monopolio etiopico sul caffè finì prima del XV secolo e, da questo momento in poi, l’Etiopia riuscirà a recuperare il suo posto di rilievo tra i maggiori produttori mondiali solo ai giorni nostri – oggi infatti è il quinto paese produttore di caffè. Negli anni ’40 del 1500, una delle guerre più importanti per la storia etiopica eruppe: quella tra i cristiani habesha dell’altopiano e tra i musulmani del bassopiano, capitanati da Mohamed Gragn – o meglio, Ahmad Ibn Ibrahim al-Ghazi – il cui nome ancora oggi viene ricordato nella storia del paese. A ciò conseguì la prima vera espansione produttiva del caffè, anch’essa, come il consumo, da questo momento storico non avrà più limiti e, lentamente ma costantemente, andrà ad abbracciare l’intero globo. Tuttavia, almeno per due secoli (Morris 2019, 58) lo Yemen ebbe il monopolio assoluto di produzione della pianta e il Mar Rosso fu l’inizio della filiera produttiva che, nel XV secolo, portò le prime spedizioni commerciali in Europa – probabilmente iniziando nel 1624 a Venezia – e così fu fino al XVIII secolo.

In Europa la passione per il caffè e le caffetterie inizierà alla metà del XVII secolo, se Venezia fu il primo snodo commerciale la prima caffetteria invece venne aperta intorno al 1650 ad Oxford: da lì in poi, Londra, Amsterdam, l’Aia, Marsiglia, Vienna, Venezia, Berlino seguirono fino alla fine del secolo; a quel punto le caffetterie erano diffuse in tutta Europa. Il vero punto di svolta arrivò però nel 1696 quando gli olandesi piantarono il caffè a Java: la nostra piccola pianta diventò un prodotto coloniale, forse quello con più successo di tutti. Tuttavia, la diffusione delle caffetterie in Europa non fu esente da rivalità e passi falsi: il loro più strenuo nemico, nel XVII secolo, non sorprendentemente, furono le taverne! Grazie a un documento del 1674, “La Petizione delle Donne contro il Caffè” (Morris 2019, 73), pubblicato da alcuni fabbricanti di birra, è possibile renderci conto delle contraddizioni che le caffetterie fecero emergere nel mondo di allora: innanzitutto la differenza di genere nell’accesso alle caffetterie, le quali erano proibite alle donne, ma questa riporta anche la diceria che il caffè rendeva impotenti gli uomini! Ad ogni modo, è interessante notare come la diffusione delle caffetterie in Europa rivaleggiò con il luogo d’incontro sociale più diffuso all’epoca – un fenomeno che nei paesi islamici, dove il consumo d’alcool è notoriamente haram (sacrilego), non ritroviamo – e, proprio per questa sua differenza, divenne, col tempo, il ritrovo di intellettuali e giovani borghesi.

Se Java, nel 1696, fu il momento in cui il caffè divenne un prodotto coloniale, la proibizione all’export del 1707 sancito dall’Impero Ottomano fu invece la decisiva spinta per i colonialisti europei a prendere le redini del commercio di questa preziosa pianta: nel 1721, ancora il 90% del caffè commerciato ad Amsterdam – la maggior piazza commerciale d’Europa al tempo – era originario dello Yemen, nel 1726 invece il 90% veniva offerto da Java (Morris 2019, 78). Ma, si sa, le vie del profitto non hanno confini e infatti, già nel 1721 il caffè venne introdotto dagli olandesi anche in Suriname – qui, nel giro di vent’anni, la produzione sorpassò abbondantemente quella di Java – così il Sud America iniziò la sua ascesa nella produzione mondiale di caffè. Il caffè, inserendosi nel tessuto produttivo americano, entrò in contatto con quello che, nelle Americhe, era il principale motore dello sviluppo economico: il sistema delle piantagioni basato sullo schiavismo. Insieme alle più rinomate piantagioni di canna da zucchero e cotone, la coltivazione di caffè costituì una triade che fece le fortune di numerosi fazenderos, schiavisti e capitalisti tanto che, per fare un esempio, il Brasile – il maggiore produttore di caffè mondiale sin dall’800 – fu, non casualmente, l’ultimo paese delle Americhe ad abolire la schiavitù, addirittura nel 1888. Dopo l’abolizione va ricordato che il sistema delle piantagioni in Brasile andò avanti grazie all’immigrazione, principalmente di italiani. 

Il caffè fu anche cruciale in una delle rivoluzioni più importanti della storia, anche se a volte dimenticata: la rivoluzione di Haiti; questa, infatti, portò all’abolizione della schiavitù e alla creazione di uno Stato indipendente governato da ex schiavi neri. La rivoluzione di Haiti, 1791-1804 – quand’essa dichiarò la propria indipendenza – rappresentò un momento di cesura storica probabilmente ancora maggiore della rivoluzione americana e di quella francese per quanto meno famosa. Essa rese infatti Haiti il primo stato indipendente dell’America Latina, il primo stato postcoloniale guidato da neri e, infine, anche l’unico stato la cui indipendenza fu conseguita grazie ad una rivolta di schiavi; tanto che il segretario di Dessalines, il vincitore dei colonialisti, affermò riguardo la dichiarazione d’indipendenza haitiana: “Per la nostra dichiarazione d’indipendenza dovremmo avere la pelle di un uomo bianco come pergamena, il suo teschio come calamaio, il suo sangue come inchiostro, e una baionetta come penna!” (Madiou 1989-91, 145). 

La paura di legittimare il governo dei neri, così come l’importanza strategica dell’isola, la resero presto un pariah della comunità internazionale, ma questa è un’altra storia; la caduta di Haiti, il maggior stato produttore di caffè a cavallo fra Settecento e Ottocento, portò però all’espansione della produzione in Asia. Fino al 1869, le colonie olandesi e britanniche si contesero lo scettro di maggior produttore ma comunque il continente produceva circa 1/3 del fabbisogno mondiale, rendendola così il maggior produttore mondiale. In quell’anno però, il fungo Hemileia Vastatrix iniziò a circolare e in una dozzina d’anni annientò buona parte della produzione di caffè in Asia, tanto che fu da questo momento in poi che in Gran Bretagna – e in tutta l’Asia –  si affermò come bevanda principale il tè e non il caffè (Morris 2019, 88). Successivamente, all’alba della Prima Guerra Mondiale, l’Asia era oramai stata sostituita dall’America Latina come maggior produttore di caffè, questa contribuiva alla produzione mondiale per solo un ventesimo, mentre fu il Brasile a diventare, dalla seconda metà dell’Ottocento, il maggior produttore mondiale, arrivando nel 1901 a produrre il 77,5% della produzione mondiale, mentre oggi ha “solo” il 30%.

Nell’800 un altro grande cambiamento avvenne nel mercato del caffè, ma dalla parte del consumo: gli Stati Uniti, dalla Guerra Civile in poi, divennero infatti il maggior consumatore mondiale di caffè. La guerra civile non è semplicemente presa come evento spartiacque in maniera arbitraria: i soldati, infatti, durante il conflitto bevevano la bellezza di una media di dieci tazze di caffè giornaliere, inoltre, il caffè nei diari dei soldati appare molte più volte che parole legate al conflitto; i soldati, tornando a casa, diffusero quest’abitudine così come poi successe con la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Negli anni ’80 dell’Ottocento, il consumo statunitense di caffè era circa 1/3 dell’offerta globale e questo veniva fornito, al 75%, dal Brasile. Il Brasile, per quanto il caffè vi fu introdotto da coloni portoghesi già nel 1727, divenne il maggior produttore di caffè mondiale solo nella seconda metà dell’Ottocento, tuttavia, già agli inizi del secolo l’importanza commerciale del paese divenne enorme, dopo il divieto d’importazione degli schiavi negli Stati Uniti del 1807, il Brasile divenne il nuovo vertice del secolare commercio triangolare: i beni prodotti negli USA venivano portati in Africa, qui venivano scambiati con schiavi che poi venivano venduti in Brasile, di modo da acquistare il caffè che poi veniva riesportato verso gli USA (Morris 2019, 102).

L’arrivo del ‘900 nella nostra piccola storia della diffusione del caffè su scala mondiale rappresenta l’ultimo tassello di questo puzzle e ci fornisce suggestivi spunti di riflessione. Come abbiamo visto, agli inizi del ‘900 il Brasile produceva circa l’80% del fabbisogno mondiale, questo portò presto l’offerta a superare la domanda generando una crisi di sovrapproduzione, la quale, è noto, abbassa drasticamente i prezzi – in questo caso di circa la metà – generando così una perdita astronomica per il paese verdeoro. La risposta brasiliana però fu talmente geniale che segnò l’inizio di una nuova era per il commercio del caffè: i fazenderos crearono un consorzio che aveva come scopo comprare il caffè in eccesso per poi immagazzinarlo e modificare artificialmente i prezzi sul mercato; fu il primo momento storico in cui i produttori di caffè dettarono i termini di scambio ai consumatori. Se il maggior produttore era in grado d’influenzare il mercato, allora lo era anche il maggior consumatore, ovvero gli Stati Uniti. Da questo momento in poi, infatti, il mercato del caffè divenne sostanzialmente duale: i due capofila di consumatori e produttori potevano infatti, con una loro decisione, influenzare l’intero mercato mondiale in maniera unilaterale. Questo generò la creazione di istituzioni atte ad organizzare gli interessi dei produttori di caffè in maniera organica per ogni Stato: il primo fu, ovviamente, l’Instituto Brasileiro do Café, anche se forse il più rinomato fu il colombiano Fedecafè. Ad ogni modo, l’espansione della coltivazione di caffè continuò in tutto il Centro e Sud America – comprendendo Honduras, Messico, Guatemala, Nicaragua, Panama, El Salvador, Costa Rica e Colombia – anche grazie all’apertura del canale di Panama nel 1914. Questi stati si concentrarono più sulla qualità del loro caffè che sulla quantità come il Brasile, e perciò il loro sistema produttivo principale non fu la piantagione ma un insieme di tante piccole aziende agricole; tuttavia, – come ricordato dalla Grande Depressione del ’29 – nessuno era immune alla volatilità dei prezzi e, infatti, più questi si abbassavano e più episodi di rivolta caratterizzavano i nuovi produttori – specialmente Colombia ed El Salvador.

In questo periodo, il Brasile continuò ad accumulare stock di caffè mentre la sua quota di mercato veniva lentamente erosa dall’emergenza di nuovi produttori, portando nel dopoguerra il paese ad accumulare l’equivalente di un anno del consumo mondiale del caffè. Dalla parte dei consumatori, due trend nel periodo fra le due guerre iniziarono a cambiare radicalmente il mercato: da una parte, le aziende di torrefazione iniziarono un processo di acquisizioni che portò il mercato a diventare decisamente oligopolistico – con cinque sei aziende che si spartivano torrefazione e distribuzione a livello mondiale – le quali standardizzarono i gusti, portando ad un consistente aumento nei loro blend (miscela) di caffè di Robusta: questo aveva un prezzo più basso, conducendo così all’impossibilità per il Brasile di controllare i prezzi mondiali accumulando riserve di caffè. Per inciso, Coffea Robusta (o meglio, Coffea Canephora detto Robusta) è l’altra varietà della pianta di caffè, insieme a Coffea Arabica, che si commercializza sul mercato odierno, di cui costituisce circa il 40%. Il sapore altamente amaro della Robusta non permette però che questa venga consumata da sola, a differenza dei caffè 100% Arabica (ancor meglio se a singola origine, o single origin, che cioè viene da una stessa regione e ha quindi gli stessi sapori), e quindi viene usato nei vari blend dei grandi torrefattori – come Nestlè – come base sia per il caffè in grani ma ancor di più per quello solubile, mentre poi a questo blend viene aggiunta una miscela di vari caffè Arabica per creare il sapore distintivo dei vari prodotti.

Tornando alla nostra storia del caffè, la Seconda Guerra Mondiale fu un palliativo per il mercato, i soldati consumarono caffè in enormi quantità e portarono – come con la Guerra Civile americana – a casa la nuova abitudine, espandendo ulteriormente il mercato dei consumatori di caffè. Ma questa rinnovata domanda non poteva soddisfare l’instabile situazione che si era generata da parte dei paesi produttori: tuttavia la creazione del mondo bipolare successivamente alla guerra e le rivolte, sempre più a matrice marxista, nei paesi produttori furono una leva politica che determinò la fine di quest’impasse. Ciò avvenne in particolare dopo la Rivoluzione Cubana del 1959, quando il continuo lobbying dei paesi centro e sudamericani verso gli Stati Uniti per la regolamentazione del mercato del caffè ebbe successo. La paura della diffusione del comunismo nel “cortile di casa” statunitense ebbe effetto: come affermato da un senatore colombiano all’epoca, “pagateci un giusto prezzo per il nostro caffè o – Dio ci salvi – le masse diventeranno una grande armata rivoluzionaria marxista e ci spazzeranno via nel mare” (Morris 2019, 142).

Così, nel 1962, venne firmata la Convenzione Internazionale sul Caffè (ICA), che rimase in vigore fino al 1989, la quale rappresentò sostanzialmente l’età dell’oro per i produttori: gli Stati Uniti e gli altri consumatori decisero, per ragioni eminentemente politiche, che il mercato internazionale del caffè sarebbe stato interamente pianificato; si stabilirono così quote di esportazione per ogni paese in base alla sua produzione, una fascia di prezzo garantita e furono messe in pratica diverse operazioni per mantenere questo prezzo calmierato lungo una banda oscillatoria determinata dai paesi membri. In pratica, l’ICA fermò la cronica instabilità del mercato del caffè grazie all’economia pianificata, assicurandosi la stabilità in Centro e Sudamerica grazie a quel sistema economico che è sempre stato presentato come il più grande nemico del capitalismo e che è tuttora visto come sinonimo di comunismo – una svolta storica e con più di una punta d’ironia. L’ICA, inoltre, impose ai paesi produttori di realizzare degli “Obiettivi Produttivi” annuali, di modo da poter calcolare per ogni paese la produzione procapite e abbinare domanda e offerta a livello internazionale: un chiaro esempio di come la pianificazione fosse impiegata. Inoltre, l’ICA obbligò gli Stati membri a fornire dei fondi per il “Fondo di Diversificazione”, il quale investiva nei paesi produttori di modo da distogliere le forze produttive dal solo caffè ed investirle in altri settori, e, in ultimo, fornì un forum assembleare in cui Nord e Sud del mondo poterono confrontarsi apertamente su questioni politico-economiche con una certa regolarità e risolvere, collegialmente, i problemi.

L’ICA e la sua organizzazione, l’Organizzazione Internazionale del Caffè (ICO), non furono perfetti né esenti da problemi e faide interne – come ad esempio alla fine degli anni ’60 conseguentemente ad una gelata in Brasile, l’aumento dei prezzi che si generò, artificiale per alcuni, fece tremare l’organizzazione quando numerosi paesi produttori e consumatori minacciarono di ritirare la loro adesione. Tuttavia, fino al crollo del mondo bipolare l’ICO riuscì a mantenere il mercato internazionale del caffè stabile e, dunque, proficuo per i numerosi contadini del Sud del mondo che partecipavano a questa filiera produttiva. Dopo la caduta dell’URSS, il successo del capitalismo si sostanziò con il non casuale ritiro del maggior paese consumatore, gli USA, con la conseguenza che ICA e ICO venissero affossati a favore delle multinazionali della torrefazione, le quali presero le redini del mercato. Questo generò un vuoto di bilanciamento nel prezzo della materia prima e uno sfilacciamento della filiera che andò a premiare le multinazionali, oramai sempre più un piccolo oligopolio, ed a penalizzare i paesi produttori… Ma la nostra secolare storia del caffè termina con la fine del conflitto bipolare.

Concludendo questo excursus sulla storia moderna e contemporanea del caffè torniamo dunque al nostro quesito iniziale: il caffè, e la storia della sua filiera, sono uno strumento utile per osservare la creazione del mondo contemporaneo e possono aiutarci a pensare il capitalismo più facilmente? Il nostro mondo quotidiano, eurocentrico e occidentale, spesso ci impedisce di vedere al di là del nostro naso: il caffè ci aiuta a tornare alle origini, fra una tazza e l’altra, ad un mondo dove l’Europa era una costola del mondo e non il suo centro, quando prendevamo tradizioni da altri paesi – vedi le caffetterie e l’uso del caffè come bevanda quotidiana – per farne un pilastro della nostra vita quotidiana. Forse questa è un’esagerazione, però è interessante vedere questo così come il fatto che il tè – la bevanda british e asiatica per eccellenza – è diventata tale perché un fungo nel XIX secolo ha annientato la produzione di caffè in Asia e, perciò, per necessità produttive e di profitto, esso è diventato la bevanda principe della potenza coloniale che al tempo controllava l’Asia e dell’Asia stessa. Si potrebbe forse parlare di una visione concreta che è espressione del politically correct così di moda oggi, però, a mio avviso, slegarsi dall’immagine per cui l’Europa e l’Occidente siano il centro del mondo va ben oltre il wokeism, sono considerazioni che rimandano più a come concepiamo il nostro mondo e i suoi limiti: ci trovo una similitudine, ad esempio, rispetto al Teorema di Pitagora – e ad altri teoremi matematici che non starò ad elencarvi. Il famoso teorema che tutti conosciamo e che è parte indiscutibile del nostro pensarci come società e del nostro ‘progresso’ storico, in realtà non è stato scoperto da Pitagora ma, anzi, era già ben conosciuto dai babilonesi ben 1000 anni prima, come dimostrato dal matematico Bruce Ratner (2009, 229-242). Questo per dire che, spesso, verità che consideriamo assolute, se sottoposte al metodo scientifico e alla lunga durata storica rivelano realtà ben più complesse e rivelatorie sul nostro mondo quotidiano: relativizziamole dunque, il mondo è molto più grande, interessante e tortuoso di quanto ce lo immaginiamo. Abbracciamo dunque la complessità, la diversità e l’assenza di confini che ne costituiscono dei pilastri e decentriamo la nostra prospettiva per espanderla; come ci ha appena raccontato la storia della bevanda forse più famosa al mondo. 

Dall’altra parte, la storia appena raccontata ci fornisce materiale anche per la seconda domanda: l’uso del termine, e del concetto, capitalismo almeno in senso connotativo, per caratterizzare il mondo contemporaneo è corretto? Si potrebbero trarre numerose riflessioni dalla storia appena raccontata, ma qui ci limiteremo ad osservare la maggiore crepa nel dipinto che abbiamo appena pitturato: l’esistenza di un accordo sullo scambio di una delle materie prime fondamentali nel mercato internazionale – il valore del caffè nel commercio mondiale delle commodities è infatti secondo solo al petrolio – nel secondo dopoguerra, ovverosia nel momento storico in cui la battaglia fra comunismo e capitalismo era al centro della scena mondiale. Questo cosa significa? Significa che nell’era in cui il libero mercato – con i suoi corollari più classici, cioè la libera circolazione di merci, capitali e persone e la massimizzazione del profitto – lottava contro la pianificazione – espressione di immobilità, inefficienza e con un metodo antimeritocratico, almeno in teoria – il primo tradì la sua essenza per rendere il mercato della più importante delle materie prime pianificato ed ebbe un grande successo. Questa considerazione fa riferimento a come questi due sistemi vengono rappresentati, o idealizzati, il capitalismo difatti prospera – come evidenziato dalla fine della nostra storia – nel monopolio e nell’oligopolio e non disdegna assolutamente la pianificazione, che, anzi, è la norma nelle grandi multinazionali. 

La questione, infine, non è discutere quale metodo economico sia migliore fra pianificazione e libero mercato ma discutere piuttosto cosa c’entri il capitalismo con questo accordo internazionale sul caffè: le regole economiche di offerta e domanda, la “necessità” del profitto, la retorica di vincitori e vinti grazie al meccanismo di autoaggiustamento del mercato, sono dinamiche che sono state piegate ad una volontà politica, e questa ha avuto successo; che dunque forse queste idee siano solo retorica? Tra l’altro, quando quest’accordo ha smesso di funzionare, il mercato del caffè non era caratterizzato dalla concorrenza ma dall’oligopolio che, secondo la teoria neoclassica, è un fallimento del mercato: com’è possibile che i paesi capitalisti abbiano regolato un mercato per trent’anni per poi lasciarlo “fallito”? Con fallimento del mercato, nella teoria economica, s’intende quella situazione in cui l’allocazione di beni e servizi effettuata dal mercato non è efficiente, ovverosia che vi sono ancora dei modi per incrementare il benessere dei partecipanti al mercato senza ridurre quello di nessun’altro. Questo fallimento e la sua comparazione con la realtà storica, tuttavia, ci dà risposte diverse e confliggenti: quando si parla di capitalismo, non dobbiamo pensare solamente ad una questione economica ma anche ad una politica, non dobbiamo perciò pensare all’economia di mercato dove gli scambi sono limpidi, chiari e prevedibili come quando andiamo al bar o al fruttivendolo. Il capitalismo è piuttosto un’area che è la sommità della piramide economica: un’area in cui gli attori politici ed imprenditoriali si stringono la mano e decidono l’andamento del mercato stesso. Così, seguendo la richiesta del delegato colombiano, è stato gestito il mercato del caffè: “pagateci un giusto prezzo per il nostro caffè o – Dio ci salvi – le masse diventeranno una grande armata rivoluzionaria marxista e ci spazzeranno via nel mare” (Morris 2019, 142). A queste parole fanno eco quelle di Asnake Getachew, Segretario del National Coffee Board etiope – l’organizzazione per la gestione del caffè in Etiopia – pronunciate nel 1971: 

“Sia chiaro che il nostro accordo [l’ICA] non è un accordo commerciale siglato fra associazioni per l’esportazione del caffè e stati importatori. È un accordo politico siglato da Capi di Stato, che definisce le relazioni commerciali complessive fra paesi produttori meno sviluppati e fra paesi consumatori più avanzati. L’ascesa e il declino dei prezzi del caffè non hanno solo un impatto sul commercio di caffè nei paesi importatori, ma influenzano centinaia di industrie e servizi che commerciano i loro prodotti ai paesi produttori di caffè. […] Quando i prezzi del caffè scendono, non si riduce solo la nostra capacità di comprare prodotti industriali, ma i nostri programmi di sviluppo vengono interrotti.” (Cellai, prossima pubblicazione)

Asnake Getachew ci parla poi di come risolvere la crisi dell’ICA dei primi anni ’70, causata dalla gelata in Brasile, e ci fornisce ulteriori spunti di riflessione sul tema:

“Cosa possiamo fare per correggere l’attuale sentiero pericoloso [l’incremento dei prezzi a causa della gelata in Brasile]? La risposta potrebbe essere semplicistica e recitare «lasciate il mercato indisturbato e questi, da solo, troverà la soluzione». Ma questo potrebbe essere vero se le condizioni per un corretto funzionamento del mercato ci fossero. […] Il mercato del caffè non opera esclusivamente basandosi su domanda e offerta. Ci sono una serie di fattori che possono essere considerati psicologici e che possono cambiare inaspettatamente il livello e l’andamento dei prezzi”. (Cellai, prossima pubblicazione)

Per quanto brevi e concise, quest’ultime due riflessioni penso possano contribuire al dibattito sull’essenza del capitalismo e, magari, fornire anche spunti di riflessione. La discrasia che si nota fra teoria economica e storia economica qui abbozzata, ad esempio, ci permette di considerare la distanza tra teorica e pratica. Inoltre, quando si parla di capitalismo sarebbe dunque più corretto analizzare come questo si rapporti storicamente, e non astrattamente o teoricamente, e dunque considerarlo non una categoria economica ma anzi un sistema, il quale sconfina nelle altre sfere e, che anzi, senza di esse non potrebbe esistere. È un’area, come dimostratoci dall’ICA, in cui le leggi della competizione normale non si applicano ma dove il potere, economico e politico, crea a suo piacimento nuove regole: queste, come durante il periodo della tratta atlantica, si realizzano tramite scambi ineguali – come quelli che hanno generato la rivoluzione di Haiti – e prevedono la connivenza di autorità statali ed economiche, ad Haiti come con gli ICA. In particolare, come dimostratoci dal caso del caffè, il funzionamento del capitalismo è più evidente quand’esso si serve del commercio a lunga distanza e lo organizza, disorganizza e riorganizza a suo piacimento; di nuovo, ad Haiti come con l’ICA.

 





Bibliografia

 

Al-Kaisi, Meis. 2021. Rethinking Conceptual Sufism: A Synthesis of Islamic Spirituality, Asceticism, and Mysticism, Teosofi: Jurnal Tasawuf dan Pemikiran Islam, 11 (2), 169-193.

Braudel, Fernand. 1977. Afterthoughts on Material Civilization and Capitalism. Baltimora-Londra, The Johns Hopkins University Press;

Cellai, Andrea. Prossima Pubblicazione, tesi PhD.

Morris, Jonathan. 2019. Coffee: A Global History. Reaktion Books, Londra;

Madiou, Thomas. 1989-91. Histoire d’Haiti (1847-48), 8 vols., III, H. Deschamps, Port-au-Prince.

Ratner, Bruce. 2009. Pythagoras: everyone knows his famous theorem, but not who discovered it 1000 years before him, Journal of Targeting Measurement and Analysis for Marketing, 17 (3), 229-242.

Show CommentsClose Comments

Leave a comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

This Pop-up Is Included in the Theme
Best Choice for Creatives
Purchase Now