Il rischio di esporsi in maniera costante alla verità è quello di assuefarsi, assumendo di riflesso un atteggiamento di indifferenza, quando non di delusione o impotenza, nei suoi confronti. Vale in tutte le cose: quando si parla di cambiamento climatico, di fame, di guerra, di politica. Il momentum iniziale, se non adeguatamente accompagnato, rischia di perdere lo slancio e affievolirsi, finendo a ristagnare in qualche zona della nostra mente in forma di inerte consapevolezza. C’è un solo modo per riprendere o proseguire lo slancio: trovare una nuova discesa, dei nuovi mezzi per rilanciare ed esprimere quella consapevolezza.
Quando ho preso tra le mani il saggio fotografico di Luca Fontana, Tornare a esplorare (2025), ho avuto l’impressione che si trattasse proprio di questo: una piccola discesa con la quale riprendere uno slancio perso per strada, nelle intercapedini delle mille incombenze quotidiane. L’argomento del saggio ci è piuttosto familiare, anche troppo forse, da qualche anno a questa parte: una forte critica alla nostra tendenza – ideale e pratica – ad addomesticare l’ambiente che ci circonda, rendendolo a misura d’essere umano, sicuro, sfruttabile o meglio fruibile. La natura come servizio. Quando però questa critica proviene da un amante e professionista della montagna, che da quindici anni a questa parte ha scelto di dedicarvisi corpo e anima, come abitante e guida escursionistica, la lettura si fa interessante. In primo luogo, perché sembra quasi provenire dalla natura stessa che, presa la parola, si esprima per suo tramite; in secondo, perché è una critica che fa leva su argomenti inconsueti ma di grande efficacia – e poi, ci sono delle foto straordinarie; potrebbe essere acquistato anche solo per questo motivo.
È inusuale, per esempio, che l’atteggiamento estrattivo dell’essere umano nei confronti della natura – ormai scaduto in un adagio, in una frase fatta – venga affrontato dal lato delle modificazioni antropologiche che la messa in “sicurezza” degli ambienti di montagna comporta. Il problema non è solo infatti che l’intervento umano, nel suo modificare l’ambiente naturale, per renderlo sicuro e quindi fruibile, lo contamini in maniera irreparabile. È solo un lato del problema: quello di cui abbiamo inerte consapevolezza. Ma il danno è ancora più profondo, e coinvolge non solo la natura ma gli esseri umani stessi. Secondo Fontana, infatti, oggi la sicurezza ha assunto le forme di un movimento esogeno, proveniente dall’esterno: noi non abbiamo più il compito di proteggerci, ma semplicemente il diritto di essere protetti. Questa situazione comporta però, di riflesso, la perdita del lato endogeno della sicurezza, autonomo si potrebbe dire, che riguarda cioè quell’affinamento di capacità e percezioni che aiutano a muoversi nell’ambiente con maggiore coscienza: “abbiamo esternalizzato la nostra capacità di essere al sicuro, per cui pretendiamo che la protezione debba venire sempre e completamente da fuori” (Fontana 2025, 49). Una riflessione che si inserisce in un discorso più ampio, affrontato ad esempio da Annie Proulx nel suo La palude (2023) e su cui è uscito un ottimo articolo per il Tascabile: quello relativo alla oggettificazione della natura, da cui l’essere umano si è progressivamente separato nel corso della sua storia, trasformandola così in “paesaggio”; in qualcosa cioè di cui godere, fruire, tentando una impossibile ricomposizione. La riflessione di Fontana mi sembra che allarghi questo discorso oltre i confini del puro godimento estetico – già di per sé indicatore di una scissione con la natura – per farne una questione davvero pratica: non si tratta solo di rendersi consapevoli di questa frattura, ma anche di quanto quest’ultima stia apportando delle modifiche antropologiche, consentendo di gestire “in outsourcing” quelle caratteristiche che sarebbero proprie dell’essere umano. La natura oggettificata è una campana di vetro che abbiamo barattato con gli anticorpi, è un polmone d’acciaio con cui abbiamo volontariamente sostituito un polmone vero.
Ma la natura non è prevedibile, non è trasparente, e soprattutto non può essere a nostra illimitata disposizione; al contrario, bisogna accettarne il selvaggio, e non solo per ragioni ambientali ma anche etiche. Recuperare il selvaggio significa recuperare aspetti fondamentali dell’essere umano che possono prosperare solo al suo interno, e siamo alla seconda chiave di lettura inusuale che Fontana propone.
Selvaggio non è infatti semplicemente lo spazio incontaminato; questa è una concezione che non fa altro se non accentuare, al posto che ridurre, il distacco tra noi e la natura, essendo invece funzionale proprio a una logica estrattiva: la separazione civile-selvaggio è infatti speculare a quella tra vita lavorativa e vacanza. Il selvaggio diventa così uno spazio da contrapporre alla civiltà ma solo in funzione di riportare, occultate, le stesse logiche di profitto. Selvaggio invece è semplicemente ciò in cui esiste un limite, qualcosa che costringe al confronto, alla resistenza e allo sforzo, permettendo così a quel movimento endogeno di recuperare vigore. Il selvaggio è il limite, perché dove c’è il limite fiorisce la virtù: è il coraggio dell’alpinista, dell’arrampicatore, che lotta con il limite, tende i propri muscoli ma non li strappa. Il coraggio sentenzia: arrivo qui, non un passo oltre, ma neanche un passo indietro. Non un metro in più verso il monte, non uno in meno verso valle.
Esattamente l’esperienza di Luca durante una scalata:
“Preferii fermarmi all’Adler pass, a circa 3800 metri di quota, dopo oltre duemila metri di salita e quando ne mancavano appena quattrocento alla vetta. Bastava così, non tanto per la fatica fisica quanto per la poesia del momento, che volevo lasciare emergere senza raggiungere la cima a tutti i costi […] spingermi fino alla cima sarebbe stata una forzatura che mi avrebbe allontanato da quello spazio di prosperità che avevo scoperto dentro di me” (Fontana 2025, 71).
L’atteggiamento predatorio dell’essere umano è invece quello che spinge a forzare l’arrivo alla cima, con qualsiasi mezzo a disposizione, perché lo scopo è la vetta e non invece approfondire la conoscenza di ciò che noi siamo in relazione a quella cima. Ma il discorso può essere esteso a molti aspetti della nostra vita. La modalità estrattiva di fruizione non è infatti solo quella che abbiamo nei confronti della natura: quanti libri divoriamo negli interstizi di tempo, durante il week-end, perché sappiamo che non avremo più tempo durante la settimana? Lo scopo è ancora leggere, o poter dire di aver letto? O ancora, quanti film guardiamo, quanta musica ascoltiamo, quante relazioni consumiamo attraverso questa modalità? Questo è esattamente ciò che Jean Baudrillard, nel suo libro La società dei consumi, chiama “il dramma del tempo libero”, la cui qualità diventa – esattamente come il lavoro – “distintiva di un individuo, di una categoria, di una classe nei confronti dell’altra” (Baudrillard [1974] 2010, 179). Nel capitalismo, il tempo libero non si può perdere, perché deve potersi scambiare con qualsiasi altra merce (Baudrillard 2010, 182). Ma per fortuna la montagna e la sua imponenza – sembra dirci Fontana – ha la forza di questionare questa logica, questa norma sociale dannosa e ormai interiorizzata.
Sta a noi però risalire la corrente fluviale della libertà indiscriminata che dalla società dei consumi urbana scorre avvelenata verso la montagna. Il senso del limite connaturato alla montagna porta infatti alla foce un’istanza speculare e opposta: dalla riproduzione di meccanismi volti al profitto che vengono duplicati e riprodotti dai contesti ‘sociali’ nei contesti ‘naturali’, la speranza è al contrario che la riappropriazione del limite nel contesto selvaggio influenzi anche quello civilizzato, lo interroghi anche con forza, chiedendo quali siano mai i meriti di una rimozione totale degli ostacoli.
Pochi i meriti, di demeriti invece molti, a partire da quello che sottolinea Luca Fontana, cioè il fatto di impoverire l’esperienza spostando il limite sempre un po’ più in là per emozionarci, e quindi neutralizzando i suoi effetti sulla nostra ricerca. E più si sposta il limite, più creiamo un presunto diritto a cercare di colmare la nuova distanza, in un movimento perpetuamente insoddisfacente. Ridotti a elemosinare un po’ di fame perché si ha troppo da mangiare. L’orizzonte, come piaceva dire allo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano (2006), è una perfetta metafora dell’utopia: faccio due passi, e lui si allontana di due passi; ne faccio dieci, si allontana di dieci. L’orizzonte serve a camminare, è inutile pensare di poterlo acciuffare. Misuriamoci tutti con questo orizzonte, facciamo i passi che vogliamo o che riteniamo necessari, due, dieci, cento passi, non importa, purché rimanga la consapevolezza che il loro scopo è avvicinarci non all’orizzonte ma proprio a noi: gli stessi da cui invece ci allontaniamo spesso, persi nell’apparire a scapito dell’essere, nella ricerca avida di emozioni che nel loro trapassare ci portano via qualcosa, al posto che lasciarlo. Non sarà neanche necessario farli per forza in luoghi esotici e lontani perché, seppur la montagna possa essere un ambiente privilegiato, il loro scopo è sempre quello di sentirsi come parte integrante di un luogo, qualunque esso sia. Mi viene in mente Jean-Jacques Rousseau, che nelle Passeggiate del sognatore solitario ([1782] 2016, 82) scrive di un pomeriggio passato su una barchetta alla deriva delle acque di un lago come di uno dei più dolci e sognanti mai trascorsi. Non tutti hanno un lago a pochi metri da casa, certo. Ma anche i dintorni di casa propria possono essere un terreno d’esplorazione, perché esplorare è soprattutto abitare, scrive Fontana (2025, 112), e a volte basta allontanarsi di pochi chilometri per scoprire qualcosa di inaspettato. E quando lo trovate, mi raccomando: niente foto mozzafiato né storie Instagram, e soprattutto nessuna fretta.
Fotografie di Luca Fontana (mountainscaper)
Bibliografia
Fontana, L. 2025.Tornare a esplorare. Rizzoli, Milano.
Baudrillard, J. [1974] 2010. La società dei consumi. Il Mulino, Bologna.
Galeano, E. 2006. Parole in cammino. Sperling & Kupfer Editori, Milano.
Proulx, A. 2023. La palude, Aboca, Arezzo.
Rousseau, J.-J. [1782] 2016. Le passeggiate del sognatore solitario, a cura di Beppe Sebaste, Feltrinelli, Milano.
Sitografia