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Maggio
5 Maggio 2025

ESPLO­RA­RE È ABI­TA­RE

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13 min

Il rischio di espor­si in manie­ra costan­te alla veri­tà è quel­lo di assue­far­si, assu­men­do di rifles­so un atteg­gia­men­to di indif­fe­ren­za, quan­do non di delu­sio­ne o impo­ten­za, nei suoi con­fron­ti. Vale in tut­te le cose: quan­do si par­la di cam­bia­men­to cli­ma­ti­co, di fame, di guer­ra, di poli­ti­ca. Il momen­tum ini­zia­le, se non ade­gua­ta­men­te accom­pa­gna­to, rischia di per­de­re lo slan­cio e affie­vo­lir­si, finen­do a rista­gna­re in qual­che zona del­la nostra men­te in for­ma di iner­te con­sa­pe­vo­lez­za. C’è un solo modo per ripren­de­re o pro­se­gui­re lo slan­cio: tro­va­re una nuo­va disce­sa, dei nuo­vi mez­zi per rilan­cia­re ed espri­me­re quel­la con­sa­pe­vo­lez­za.

Quan­do ho pre­so tra le mani il sag­gio foto­gra­fi­co di Luca Fon­ta­na, Tor­na­re a esplo­ra­re (2025), ho avu­to l’impressione che si trat­tas­se pro­prio di que­sto: una pic­co­la disce­sa con la qua­le ripren­de­re uno slan­cio per­so per stra­da, nel­le inter­ca­pe­di­ni del­le mil­le incom­ben­ze quo­ti­dia­ne. L’argomento del sag­gio ci è piut­to­sto fami­lia­re, anche trop­po for­se, da qual­che anno a que­sta par­te: una for­te cri­ti­ca alla nostra ten­den­za – idea­le e pra­ti­ca – ad addo­me­sti­ca­re l’ambiente che ci cir­con­da, ren­den­do­lo a misu­ra d’essere uma­no, sicu­ro, sfrut­ta­bi­le o meglio frui­bi­le. La natu­ra come ser­vi­zio. Quan­do però que­sta cri­ti­ca pro­vie­ne da un aman­te e pro­fes­sio­ni­sta del­la mon­ta­gna, che da quin­di­ci anni a que­sta par­te ha scel­to di dedi­car­vi­si cor­po e ani­ma, come abi­tan­te e gui­da escur­sio­ni­sti­ca, la let­tu­ra si fa inte­res­san­te. In pri­mo luo­go, per­ché sem­bra qua­si pro­ve­ni­re dal­la natu­ra stes­sa che, pre­sa la paro­la, si espri­ma per suo tra­mi­te; in secon­do, per­ché è una cri­ti­ca che fa leva su argo­men­ti incon­sue­ti ma di gran­de effi­ca­cia – e poi, ci sono del­le foto straor­di­na­rie; potreb­be esse­re acqui­sta­to anche solo per que­sto moti­vo.

È inu­sua­le, per esem­pio, che l’atteggiamento estrat­ti­vo dell’essere uma­no nei con­fron­ti del­la natu­ra – ormai sca­du­to in un ada­gio, in una fra­se fat­ta – ven­ga affron­ta­to dal lato del­le modi­fi­ca­zio­ni antro­po­lo­gi­che che la mes­sa in “sicu­rez­za” degli ambien­ti di mon­ta­gna com­por­ta. Il pro­ble­ma non è solo infat­ti che l’intervento uma­no, nel suo modi­fi­ca­re l’ambiente natu­ra­le, per ren­der­lo sicu­ro e quin­di frui­bi­le, lo con­ta­mi­ni in manie­ra irre­pa­ra­bi­le. È solo un lato del pro­ble­ma: quel­lo di cui abbia­mo iner­te con­sa­pe­vo­lez­za. Ma il dan­no è anco­ra più pro­fon­do, e coin­vol­ge non solo la natu­ra ma gli esse­ri uma­ni stes­si. Secon­do Fon­ta­na, infat­ti, oggi la sicu­rez­za ha assun­to le for­me di un movi­men­to eso­ge­no, pro­ve­nien­te dall’esterno: noi non abbia­mo più il com­pi­to di pro­teg­ger­ci, ma sem­pli­ce­men­te il dirit­to di esse­re pro­tet­ti. Que­sta situa­zio­ne com­por­ta però, di rifles­so, la per­di­ta del lato endo­ge­no del­la sicu­rez­za, auto­no­mo si potreb­be dire, che riguar­da cioè quell’affinamento di capa­ci­tà e per­ce­zio­ni che aiu­ta­no a muo­ver­si nell’ambiente con mag­gio­re coscien­za: “abbia­mo ester­na­liz­za­to la nostra capa­ci­tà di esse­re al sicu­ro, per cui pre­ten­dia­mo che la pro­te­zio­ne deb­ba veni­re sem­pre e com­ple­ta­men­te da fuo­ri” (Fon­ta­na 2025, 49). Una rifles­sio­ne che si inse­ri­sce in un discor­so più ampio, affron­ta­to ad esem­pio da Annie Prou­lx nel suo La palu­de (2023) e su cui è usci­to un otti­mo arti­co­lo per il Tasca­bi­le: quel­lo rela­ti­vo alla ogget­ti­fi­ca­zio­ne del­la natu­ra, da cui l’essere uma­no si è pro­gres­si­va­men­te sepa­ra­to nel cor­so del­la sua sto­ria, tra­sfor­man­do­la così in “pae­sag­gio”; in qual­co­sa cioè di cui gode­re, frui­re, ten­tan­do una impos­si­bi­le ricom­po­si­zio­ne. La rifles­sio­ne di Fon­ta­na mi sem­bra che allar­ghi que­sto discor­so oltre i con­fi­ni del puro godi­men­to este­ti­co – già di per sé indi­ca­to­re di una scis­sio­ne con la natu­ra – per far­ne una que­stio­ne dav­ve­ro pra­ti­ca: non si trat­ta solo di ren­der­si con­sa­pe­vo­li di que­sta frat­tu­ra, ma anche di quan­to quest’ultima stia appor­tan­do del­le modi­fi­che antro­po­lo­gi­che, con­sen­ten­do di gesti­re “in outsour­cing” quel­le carat­te­ri­sti­che che sareb­be­ro pro­prie dell’essere uma­no. La natu­ra ogget­ti­fi­ca­ta è una cam­pa­na di vetro che abbia­mo barat­ta­to con gli anti­cor­pi, è un pol­mo­ne d’acciaio con cui abbia­mo volon­ta­ria­men­te sosti­tui­to un pol­mo­ne vero.

Ma la natu­ra non è pre­ve­di­bi­le, non è tra­spa­ren­te, e soprat­tut­to non può esse­re a nostra illi­mi­ta­ta dispo­si­zio­ne; al con­tra­rio, biso­gna accet­tar­ne il sel­vag­gio, e non solo per ragio­ni ambien­ta­li ma anche eti­che. Recu­pe­ra­re il sel­vag­gio signi­fi­ca recu­pe­ra­re aspet­ti fon­da­men­ta­li dell’essere uma­no che pos­so­no pro­spe­ra­re solo al suo inter­no, e sia­mo alla secon­da chia­ve di let­tu­ra inu­sua­le che Fon­ta­na pro­po­ne.

Sel­vag­gio non è infat­ti sem­pli­ce­men­te lo spa­zio incon­ta­mi­na­to; que­sta è una con­ce­zio­ne che non fa altro se non accen­tua­re, al posto che ridur­re, il distac­co tra noi e la natu­ra, essen­do inve­ce fun­zio­na­le pro­prio a una logi­ca estrat­ti­va: la sepa­ra­zio­ne civi­le-sel­vag­gio è infat­ti spe­cu­la­re a quel­la tra vita lavo­ra­ti­va e vacan­za. Il sel­vag­gio diven­ta così uno spa­zio da con­trap­por­re alla civil­tà ma solo in fun­zio­ne di ripor­ta­re, occul­ta­te, le stes­se logi­che di pro­fit­to. Sel­vag­gio inve­ce è sem­pli­ce­men­te ciò in cui esi­ste un limi­te, qual­co­sa che costrin­ge al con­fron­to, alla resi­sten­za e allo sfor­zo, per­met­ten­do così a quel movi­men­to endo­ge­no di recu­pe­ra­re vigo­re. Il sel­vag­gio è il limi­te, per­ché dove c’è il limi­te fio­ri­sce la vir­tù: è il corag­gio dell’alpinista, dell’arrampicatore, che lot­ta con il limi­te, ten­de i pro­pri musco­li ma non li strap­pa. Il corag­gio sen­ten­zia: arri­vo qui, non un pas­so oltre, ma nean­che un pas­so indie­tro. Non un metro in più ver­so il mon­te, non uno in meno ver­so val­le.

Esat­ta­men­te l’esperienza di Luca duran­te una sca­la­ta:

“Pre­fe­rii fer­mar­mi all’Adler pass, a cir­ca 3800 metri di quo­ta, dopo oltre due­mi­la metri di sali­ta e quan­do ne man­ca­va­no appe­na quat­tro­cen­to alla vet­ta. Basta­va così, non tan­to per la fati­ca fisi­ca quan­to per la poe­sia del momen­to, che vole­vo lascia­re emer­ge­re sen­za rag­giun­ge­re la cima a tut­ti i costi […] spin­ger­mi fino alla cima sareb­be sta­ta una for­za­tu­ra che mi avreb­be allon­ta­na­to da quel­lo spa­zio di pro­spe­ri­tà che ave­vo sco­per­to den­tro di me” (Fon­ta­na 2025, 71).

L’atteggiamento pre­da­to­rio dell’essere uma­no è inve­ce quel­lo che spin­ge a for­za­re l’arrivo alla cima, con qual­sia­si mez­zo a dispo­si­zio­ne, per­ché lo sco­po è la vet­ta e non inve­ce appro­fon­di­re la cono­scen­za di ciò che noi sia­mo in rela­zio­ne a quel­la cima. Ma il discor­so può esse­re este­so a mol­ti aspet­ti del­la nostra vita. La moda­li­tà estrat­ti­va di frui­zio­ne non è infat­ti solo quel­la che abbia­mo nei con­fron­ti del­la natu­ra: quan­ti libri divo­ria­mo negli inter­sti­zi di tem­po, duran­te il week-end, per­ché sap­pia­mo che non avre­mo più tem­po duran­te la set­ti­ma­na? Lo sco­po è anco­ra leg­ge­re, o poter dire di aver let­to? O anco­ra, quan­ti film guar­dia­mo, quan­ta musi­ca ascol­tia­mo, quan­te rela­zio­ni con­su­mia­mo attra­ver­so que­sta moda­li­tà? Que­sto è esat­ta­men­te ciò che Jean Bau­dril­lard, nel suo libro La socie­tà dei con­su­mi, chia­ma “il dram­ma del tem­po libe­ro”, la cui qua­li­tà diven­ta – esat­ta­men­te come il lavo­ro – “distin­ti­va di un indi­vi­duo, di una cate­go­ria, di una clas­se nei con­fron­ti dell’altra” (Bau­dril­lard [1974] 2010, 179). Nel capi­ta­li­smo, il tem­po libe­ro non si può per­de­re, per­ché deve poter­si scam­bia­re con qual­sia­si altra mer­ce (Bau­dril­lard 2010, 182). Ma per for­tu­na la mon­ta­gna e la sua impo­nen­za – sem­bra dir­ci Fon­ta­na –  ha la for­za di que­stio­na­re que­sta logi­ca, que­sta nor­ma socia­le dan­no­sa e ormai inte­rio­riz­za­ta.

Sta a noi però risa­li­re la cor­ren­te flu­via­le del­la liber­tà indi­scri­mi­na­ta che dal­la socie­tà dei con­su­mi urba­na scor­re avve­le­na­ta ver­so la mon­ta­gna. Il sen­so del limi­te con­na­tu­ra­to alla mon­ta­gna por­ta infat­ti alla foce un’istanza spe­cu­la­re e oppo­sta: dal­la ripro­du­zio­ne di mec­ca­ni­smi vol­ti al pro­fit­to che ven­go­no dupli­ca­ti e ripro­dot­ti dai con­te­sti ‘socia­li’ nei con­te­sti ‘natu­ra­li’, la spe­ran­za è al con­tra­rio che la riap­pro­pria­zio­ne del limi­te nel con­te­sto sel­vag­gio influen­zi anche quel­lo civi­liz­za­to, lo inter­ro­ghi anche con for­za, chie­den­do qua­li sia­no mai i meri­ti di una rimo­zio­ne tota­le degli osta­co­li. 

Pochi i meri­ti, di deme­ri­ti inve­ce mol­ti, a par­ti­re da quel­lo che sot­to­li­nea Luca Fon­ta­na, cioè il fat­to di impo­ve­ri­re l’esperienza spo­stan­do il limi­te sem­pre un po’ più in là per emo­zio­nar­ci, e quin­di neu­tra­liz­zan­do i suoi effet­ti sul­la nostra ricer­ca. E più si spo­sta il limi­te, più creia­mo un pre­sun­to dirit­to a cer­ca­re di col­ma­re la nuo­va distan­za, in un movi­men­to per­pe­tua­men­te insod­di­sfa­cen­te. Ridot­ti a ele­mo­si­na­re un po’ di fame per­ché si ha trop­po da man­gia­re. L’orizzonte, come pia­ce­va dire allo scrit­to­re uru­gua­ia­no Eduar­do Galea­no (2006), è una per­fet­ta meta­fo­ra dell’utopia: fac­cio due pas­si, e lui si allon­ta­na di due pas­si; ne fac­cio die­ci, si allon­ta­na di die­ci. L’orizzonte ser­ve a cam­mi­na­re, è inu­ti­le pen­sa­re di poter­lo acciuf­fa­re. Misu­ria­mo­ci tut­ti con que­sto oriz­zon­te, fac­cia­mo i pas­si che voglia­mo o che rite­nia­mo neces­sa­ri, due, die­ci, cen­to pas­si, non impor­ta, pur­ché riman­ga la con­sa­pe­vo­lez­za che il loro sco­po è avvi­ci­nar­ci non all’orizzonte ma pro­prio a noi: gli stes­si da cui inve­ce ci allon­ta­nia­mo spes­so, per­si nell’apparire a sca­pi­to dell’essere, nel­la ricer­ca avi­da di emo­zio­ni che nel loro tra­pas­sa­re ci por­ta­no via qual­co­sa, al posto che lasciar­lo. Non sarà nean­che neces­sa­rio far­li per for­za in luo­ghi eso­ti­ci e lon­ta­ni per­ché, sep­pur la mon­ta­gna pos­sa esse­re un ambien­te pri­vi­le­gia­to, il loro sco­po è sem­pre quel­lo di sen­tir­si come par­te inte­gran­te di un luo­go, qua­lun­que esso sia. Mi vie­ne in men­te Jean-Jac­ques Rous­seau, che nel­le Pas­seg­gia­te del sogna­to­re soli­ta­rio ([1782] 2016, 82) scri­ve di un pome­rig­gio pas­sa­to su una bar­chet­ta alla deri­va del­le acque di un lago come di uno dei più dol­ci e sognan­ti mai tra­scor­si. Non tut­ti han­no un lago a pochi metri da casa, cer­to. Ma anche i din­tor­ni di casa pro­pria pos­so­no esse­re un ter­re­no d’esplorazione, per­ché esplo­ra­re è soprat­tut­to abi­ta­re, scri­ve Fon­ta­na (2025, 112), e a vol­te basta allon­ta­nar­si di pochi chi­lo­me­tri per sco­pri­re qual­co­sa di ina­spet­ta­to. E quan­do lo tro­va­te, mi rac­co­man­do: nien­te foto moz­za­fia­to né sto­rie Insta­gram, e soprat­tut­to nes­su­na fret­ta.

Foto­gra­fie di Luca Fon­ta­na (moun­tain­sca­per)

Biblio­gra­fia

Fon­ta­na, L. 2025.Tor­na­re a esplo­ra­re. Riz­zo­li, Mila­no.

Bau­dril­lard, J. [1974] 2010. La socie­tà dei con­su­mi. Il Muli­no, Bolo­gna.

Galea­no, E. 2006. Paro­le in cam­mi­no. Sper­ling & Kup­fer Edi­to­ri, Mila­no.

Prou­lx, A. 2023. La palu­de, Abo­ca, Arez­zo.

Rous­seau, J.-J. [1782] 2016. Le pas­seg­gia­te del sogna­to­re soli­ta­rio, a cura di Bep­pe Seba­ste, Fel­tri­nel­li, Mila­no.

Sito­gra­fia

https://www.iltascabile.com/scienze/ode-alla-palude/

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