27

Novembre
27 Novembre 2023

ERIN­NI

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(da un inci­pit di Joe R. Lan­sda­le)

La mat­ti­na dopo, quan­do Giu­sep­pe uscì di casa per get­ta­re la spaz­za­tu­ra, sco­prì con sua som­ma sor­pre­sa che la testa deca­pi­ta­ta di sua moglie si era ripre­sen­ta­ta accan­to al bido­ne. Giu­sep­pe alzò gli occhi e vide che, dal lato oppo­sto del­la stra­da, il cane di sua moglie, Mitzy, un gros­so pasto­re tede­sco fem­mi­na, lo sta­va scru­tan­do. Era quel­la cagna ad aver­la dis­sot­ter­ra­ta e aver­la ripor­ta­ta lì, solo che sta­vol­ta lui avreb­be fat­to piaz­za puli­ta com­ple­ta del­la testa, come pure del cane, per­ché la pre­zio­sa lezio­ne che ave­va impa­ra­to era che, se inten­di ammaz­za­re qual­cu­no, devi far­lo bene o, quan­to­me­no, meglio di come ave­va fat­to lui fino a quel momen­to e un buon modo per sba­raz­zar­si di quel­la testa sareb­be sta­to scio­glier­la nel­l’a­ci­do. Quan­to al cane, sareb­be basta­ta una bel­la bistec­ca avve­le­na­ta.

Giu­sep­pe but­tò la spaz­za­tu­ra nel bido­ne, poi guar­dò attor­no nel­la bru­ma del mat­ti­no. Non c’e­ra ani­ma viva, a par­te la cagna. Si pie­gò, e rac­col­se la testa per i capel­li. La cagna pre­se a uggio­la­re e lui la pro­vo­cò facen­do don­do­la­re la testa. Pesa­va parec­chio, ma quei capel­li reg­ge­va­no dan­na­ta­men­te bene. Nes­su­no avreb­be fat­to par­ti­co­lar­men­te caso ad una testa pen­zo­lan­te, quel pri­mo di novem­bre. Una masche­ra di Hal­lo­ween già fini­ta nel­la spaz­za­tu­ra, avreb­be­ro pen­sa­to.

L’uo­mo osser­vò bene quel­lo che ave­va in mano. In effet­ti quel­la testa non asso­mi­glia­va gran­ché alla don­na che ave­va spo­sa­to. Eppu­re non si pote­va cer­to dire che fos­se sta­ta la mor­te ad aver­la cam­bia­ta rispet­to alla sera pre­ce­den­te. Era­no piut­to­sto tut­te quel­le pla­sti­che fac­cia­li degli ulti­mi anni ad aver­la stra­vol­ta rispet­to al gior­no nel qua­le s’e­ra­no cono­sciu­ti. Quan­d’e­ra sta­to? Qua­si tren­ta anni pri­ma, ricor­dò, una fre­sca sera d’i­ni­zio esta­te e fine uni­ver­si­tà. C’e­ra una di quel­le sera­te dan­zan­ti che ripro­po­ne­va­no Swing Anni Qua­ran­ta, e Giu­sep­pe ado­ra­va pre­sen­tar­si tira­to a luci­do, bre­tel­le nere e cami­cia bian­ca, coi baf­fet­ti impo­ma­ta­ti e un cap­pel­lo leg­ge­ro ere­di­ta­to dal padre, rima­sto ucci­so sul fron­te fran­ce­se. Ave­va nota­to subi­to le gam­be agi­li di quel­la che sareb­be diven­ta­ta sua moglie. Erin le muo­ve­va con sicu­rez­za per la pista da bal­lo, sen­za man­ca­re di far don­do­la­re il sede­re, esal­ta­to dal­la stret­ta cin­tu­ra che strin­ge­va l’a­bi­ti­no di stof­fa fio­ra­ta. Era­no tem­pi buo­ni quel­li, in cui non c’e­ra trop­po da fare cal­co­li. Si spo­sa­ro­no pri­ma del­la fine del­l’an­no e com­pra­ro­no tut­to a cre­di­to. Le cose anda­va­no bene nei pri­mi anni, non fos­se sta­to per le tele­fo­na­te dome­ni­ca­li del­la madre di Giu­sep­pe. Ini­zia­va­no tut­te con la stes­sa doman­da:

“Quan­do diven­te­rò non­na?”

Lui rispon­de­va sem­pre:

“Mam­ma, lo sei già. Sia Fran­ce­sca che Michael han­no due figli.”

“Ma io lo voglio da te!”

“Arri­ve­rà, mam­ma, arri­ve­rà…”

Erin sen­ti­va la voce lamen­to­sa del­la suo­ce­ra e, pur non capen­do bene l’i­ta­lia­no, sape­va per­fet­ta­men­te di cosa stes­se­ro par­lan­do. Giu­sep­pe dove­va pas­sa­re l’in­te­ra dome­ni­ca a far smal­ti­re il malu­mo­re alla moglie. A lui non impor­ta­va gran­ché di ave­re un figlio, ma era comun­que feli­ce di pro­va­re ad accon­ten­ta­re la madre ogni sera.

Giu­sep­pe si scos­se, guar­dò anco­ra la testa, alzò le spal­le e rien­trò in casa stan­do atten­to a non bagnar­si le cia­bat­te sul sen­tie­ri­no bagna­to. La cagna rin­ghia­va som­mes­sa­men­te alle sue spal­le.

Una vol­ta den­tro, l’uo­mo sce­se nel­lo scan­ti­na­to e infi­lò la testa del­la moglie in uno sca­to­lo­ne di car­to­ne. Era così fred­da che non goc­cio­la­va nem­me­no un po’. Si fer­mò a fis­sa­re il taglio, e sen­tì nel­la mano, anco­ra una vol­ta, vibra­re la sega sul­l’os­so del col­lo. Era sta­ta dura far­lo cede­re.

Ebbe un bri­vi­do, e ripen­sò alla lite del­la sera pre­ce­den­te. Era­no vola­te paro­le gros­se, tut­te stu­pi­de, tut­te evi­ta­bi­li. Era­no sem­pre sta­te così le loro liti, da un cer­to pun­to in avan­ti. Più o meno da quan­do era diven­ta­to chia­ro che loro non ce l’a­vreb­be­ro mai avu­to, un bam­bi­no. Era­no tut­te diven­ta­te liti sen­za un doma­ni, vio­len­tis­si­me, dove entram­bi non si rispar­mia­va­no nes­sun col­po. Ogni accor­do era esclu­so. Si dice­va­no qua­lun­que cat­ti­ve­ria, con il pre­ci­so inten­to di feri­re l’av­ver­sa­rio. Cer­ca­va­no la vit­to­ria tota­le, non basta­va affer­ma­re la pro­pria ragio­ne.

Poi la tem­pe­sta, improv­vi­sa così com’e­ra arri­va­ta, se ne anda­va. Tut­ti e due si ren­de­va­no con­to di esse­re anda­ti dav­ve­ro vici­ni a per­der­si per sem­pre, e di col­po le osti­li­tà ces­sa­va­no. Qual­che ora di silen­zio, pri­ma di fare pace in un modo altret­tan­to tota­le e fisi­co.

Anda­ro­no avan­ti così anco­ra qual­che anno, a vede­re i vici­ni fare figli e cre­scer­li.

“Un uomo come lui, con una che non può ave­re figli” — si dice­va all’u­sci­ta del­la Mes­sa.

Fino a che non ven­ne fuo­ri che la madre di Giu­sep­pe avreb­be lascia­to la Costa Est – trop­po umi­da – per tra­sfe­rir­si da loro in bas­sa Cali­for­nia. “Non so se ce la fac­cio, Giu­sep­pe” — dis­se lei.

Lui si era limi­ta­to ad abbas­sa­re lo sguar­do e a pas­sar­si una mano sul­la fron­te.

Quan­do la don­na arri­vò, le cose cam­bia­ro­no dav­ve­ro. Ora era­no due con­tro uno. Erin era sem­pre all’an­go­lo, in dife­sa, atten­tis­si­ma a non com­met­te­re alcun erro­re. Eppu­re, non ave­va alcu­na pos­si­bi­li­tà di tor­na­re nel­le gra­zie del­la suo­ce­ra. Agli occhi del­la vec­chia era lei quel­la difet­to­sa, quel­la che non ave­va potu­to dar­le un quin­to nipo­te, quel­la che le ren­de­va insop­por­ta­bi­li le voci all’u­sci­ta dal­la Chie­sa.

Doreen, la vec­chia, tra­sfor­mò la vita del­la gio­va­ne spo­sa in un cal­va­rio. Sem­pre la stes­sa doman­da, ogni gior­no la soli­ta osses­sio­ne. Il ripe­ter­si, ine­sau­ri­bi­le, di tri­sti ritua­li.

Giu­sep­pe l’a­ve­va sem­pre sapu­to che per­met­te­re alla madre di veni­re in Cali­for­nia avreb­be inca­si­na­to tut­to, ma non imma­gi­na­va che l’a­vreb­be fat­to fino al pun­to di far­gli infi­la­re la testa del­la moglie in una sca­to­la. Eppu­re era anda­ta pro­prio così. Era anda­ta che lui ave­va comin­cia­to ad invec­chia­re: un po’ di pan­cet­ta e qual­che capel­lo argen­ta­to all’i­ni­zio, nien­te di che. Inve­ce lei no, lei si era rifiu­ta­ta di lascia­re che il tem­po la tra­sfor­mas­se nel­la suo­ce­ra. Non per vani­tà, no. Era la vec­chia­ia, a ter­ro­riz­zar­la: la testa che non sa che ripe­te­re lo stes­so pen­sie­ro. Le situa­zio­ni che si incan­cre­ni­sco­no. Pri­ma fu una lipo­su­zio­ne. Poi un ritoc­chi­no. Poi, sem­pre di più, men­tre lui avviz­zi­va e lei no. La chi­rur­gia pla­sti­ca dava buo­ni risul­ta­ti.

“Come fa una don­na così a sta­re con quel vec­chio” — mor­mo­ra­va­no all’u­sci­ta del­la Chie­sa.

La suo­ce­ra non ave­va ces­sa­to di cri­ti­car­la, fino a che un ictus le tol­se la paro­la.

Erin deci­se di rinun­cia­re a tut­to pur di goder­si in pri­ma fila lo spet­ta­co­lo di quel­la sof­fe­ren­za, e non se lo per­se. Il cer­vel­lo del­la don­na ave­va anco­ra tan­te cat­ti­ve­rie da dire, ma il cor­po e la voce non l’as­se­con­da­va­no più. Nei suoi occhi c’e­ra tut­to il tor­men­to di quel­la pri­gio­ne. E davan­ti a que­gli occhi c’e­ra Erin, sem­pre gio­va­ne.

La vec­chia se ne andò dopo anni d’in­fer­no.

Era suc­ces­so poche ore pri­ma, anche se sem­bra­va una vita. Da gior­ni il medi­co ave­va tol­to loro ogni spe­ran­za, e Giu­sep­pe sta­va tenen­do la mano del­la madre, quan­do la moglie era entra­ta. Era pas­sa­ta die­tro la schie­na del mari­to, sen­za degnar­lo di un gesto di con­for­to. S’e­ra chi­na­ta sul­la vec­chia, pie­gan­do­si ad ango­lo ret­to, e le ave­va sus­sur­ra­to. “La vuoi sape­re una cosa, Doreen?”

Il mari­to era resta­to immo­bi­le, men­tre lei ave­va tira­to fuo­ri una foto, o qual­co­sa del gene­re. Gli occhi del­la vec­chia sem­bra­va­no seguir­la. Erin alzò il brac­cio, rive­lan­do con­tro la luce una radio­gra­fia che sem­bra­va piut­to­sto vec­chia.

“Era tuo figlio a non pote­re ave­re figli, non io. Ma sic­co­me tu ne eri così con­vin­ta, ho pre­fe­ri­to non dar­ti una delu­sio­ne. Que­sto — sven­to­lò il foglio — sareb­be sta­to tuo nipo­te.”

La vec­chia ebbe uno spa­smo, emi­se un suo­no acu­to, sof­fiò fuo­ri un filo d’a­ria e morì.

Come suc­ces­se che Giu­sep­pe riu­scì ad alzar­si, affer­ran­do pri­ma che potes­se scap­par­gli quel­la moglie così gio­va­ne e così vec­chia, non avreb­be sapu­to dire. Ma era suc­ces­so, ed era comin­cia­to tut­to con una tele­fo­na­ta dome­ni­ca­le.

Giu­sep­pe andò a cer­ca­re in fon­do allo scan­ti­na­to il gros­so sac­co del car­bo­ne, e con quel­lo riem­pì tut­ti gli spa­zi vuo­ti nel­la sca­to­la con la testa. Poi tor­nò di sopra con lo sca­to­lo­ne, ci infi­lò den­tro anche la radio­gra­fia e chiu­se tut­to con del nastro ade­si­vo. L’a­vreb­be sem­pli­ce­men­te sciol­ta. Tut­ta quel­la pla­sti­ca si sareb­be squa­glia­ta sen­za alcun biso­gno di aci­do, che nem­me­no sape­va dove anda­re a pesca­re.

Pen­sò anche di rispar­mia­re sul­la bistec­ca avve­le­na­ta, tan­to più che non avreb­be sapu­to come avve­le­nar­la, una bistec­ca. Se ne moris­se per stra­da, quel­la cagna male­det­ta, che cer­to non avreb­be mai potu­to dire nul­la a nes­su­no. E se gli fos­se riu­sci­to d’ac­chiap­par­la ci avreb­be fat­to su qual­che bel dol­la­ro, che quel­la lì ave­va il pedi­gree e tut­to.

Sì, gli avreb­be fat­to como­do qual­che sol­do, per fare alla madre un bel fune­ra­le.

E pen­sa­re che a lui non impor­ta­va gran­ché di ave­re un figlio.

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