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Giugno
1 Giugno 2023

DAP­PER­TUT­TO

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«Il n’y a pas de hors-tex­te»
Jac­ques Der­ri­da. De la gram­ma­to­lo­gie. Paris, Minuit. 1967: 227

Ange­li­ca Delui­gi ha pub­bli­ca­to sul­le pagi­ne di Ātman una bre­ve nota sul­la pos­si­bi­li­tà – e for­se sul­la neces­si­tà, o alme­no il desi­de­rio – di «gene­ra­re un pen­sie­ro fuo­ri dal­lo spet­ta­co­lo – o fuo­ri dal domi­nio, che è la stes­sa cosa» (Da nes­su­na par­te, 24 apri­le 2023).

L’autrice pren­de il ter­mi­ne ‘spet­ta­co­lo’ e la com­ples­sa idea a cui si refe­ri­sce da La socie­té du spec­ta­cle di Guy Debord ma va oltre la cri­ti­ca mar­xi­sta del filo­so­fo fran­ce­se, for­mu­lan­do una ricet­ta anco­ra più radi­ca­le. Tut­to par­te dal­la distin­zio­ne fra le paro­le e le cose, con l’affermazione «che le cose sono rea­li e che inve­ce le paro­le non lo sono». Seguo­no due avver­ten­ze.
La pri­ma è che il ter­mi­ne ‘paro­le’ si deve inten­de­re come sined­do­che per i segni di ogni tipo; «tut­ti gli arbi­tra­ri rita­gli di real­tà che han­no assun­to tale livel­lo di esi­sten­za auto­no­ma da sosti­tui­re l’unica real­tà effet­ti­va, la real­tà del­le cose».
La secon­da avver­ten­za ci met­te in guar­dia dal con­clu­de­re che l’autrice pen­si che non ci sia nul­la al di fuo­ri del­le cose, per­ché non lo pen­sa.
Il ragio­na­men­to si chiu­de con l’esortazione a «impa­ra­re a pen­sa­re fuo­ri dal­le paro­le». A que­sto fine, Delui­gi ci por­ta l’esempio di un albe­ro che cono­sce bene e di cer­te sue carat­te­ri­sti­che pro­po­nen­do­ci un eser­ci­zio: per sfug­gi­re «alle maglie del­lo spet­ta­co­lo-domi­nio» occor­re «resi­ste­re di fron­te all’immensità di una cosa che è» – appun­to quell’albero (il cor­si­vo è suo).

 

Il ragio­na­men­to nel suo com­ples­so, la moti­va­zio­ne appa­ren­te e i pas­sag­gi nei qua­li si arti­co­la il discor­so mi lascia­no inter­det­to. Comin­cia­mo da un pas­sag­gio impor­tan­te.
Non è chia­ro come Delui­gi pos­sa pre­sen­ta­re una distin­zio­ne tan­to net­ta e sicu­ra di sé fra le ‘cose’ e le ‘paro­le’. La distin­zio­ne ricor­da quel­la fra res e ver­ba di Cice­ro­ne e Quin­ti­lia­no, che in qua­si due­mi­la anni è sta­ta cri­ti­ca­ta, con­fu­ta­ta e supe­ra­ta da mol­tis­si­mi pen­sa­to­ri e che oggi ha sola­men­te inte­res­se sto­ri­co. L’inconsistenza di que­sta posi­zio­ne teo­ri­ca è evi­den­te in un’espressione che si tro­va nel­la stes­sa nota. Alla fine del­la lun­ga descri­zio­ne dell’albero men­zio­na­ta sopra, l’autrice scri­ve: «Que­sto è solo un rac­con­to, anco­ra, e non è la real­tà, ma chi leg­ge sa cos’è la real­tà e sa che non è il rac­con­to». Pro­via­mo a riscri­ve­re que­sta fra­se usan­do gli stes­si ter­mi­ni gene­ra­li uti­liz­za­ti nel­la nota: Que­ste sono solo paro­le, non cose, ma chi leg­ge sa cosa sono le cose e sa che non sono paro­le.

Eh no, così non vale.
Chi leg­ge maga­ri ha un’idea chia­ra sul­la distin­zio­ne fra res e ver­ba, ma se leg­ge la nota di Delui­gi è per­ché vuo­le cono­sce­re l’idea che ne ha lei e si aspet­ta anzi che ven­ga espo­sta in un discor­so chia­ro e per­sua­si­vo. Non si può subap­pal­ta­re ai let­to­ri in que­sto modo la costru­zio­ne del pila­stro che reg­ge tut­to il ragio­na­men­to.
Imma­gi­na­te se Lud­wig Witt­gen­stein nel­le Ricer­che filo­so­fi­che aves­se scrit­to: I let­to­ri cono­sco­no bene la dif­fe­ren­za che pas­sa fra le paro­le viste come spec­chio del mon­do e le paro­le viste come ele­men­ti di gio­chi lin­gui­sti­ci pre­ten­den­do di aver assol­to così al suo com­pi­to. Rus­sell, Pop­per e gli altri si sareb­be­ro pen­ti­ti di aver par­te­ci­pa­to ai suoi semi­na­ri e avreb­be­ro pen­sa­to che sareb­be sta­to meglio lasciar­lo a Vien­na a fare il giar­di­nie­re.

 

L’idea che ave­va Quin­ti­lia­no di res, ver­ba e del­le loro rela­zio­ni è sta­ta, come ho det­to, con­se­gna­ta alla sto­ria. Pos­sia­mo figu­rar­ci tale con­ce­zio­ne come un lago di paro­le sul­la cui super­fi­cie si spec­chia­no, sen­za distor­cer­si, tut­te le cose attor­no. A rischio di sem­pli­fi­ca­re trop­po e di man­ca­re di rispet­to a que­sta bran­ca del sape­re, vor­rei dire qui che due tem­pe­ste han­no incre­spa­to in modo irre­pa­ra­bi­le la pla­ci­da super­fi­cie del lago.
La pri­ma, anti­ca, è una tem­pe­sta onto­lo­gi­ca.
Una manie­ra per evo­car­la è  la famo­sa bat­tu­ta di Giu­liet­ta: «Wha­t’s in a name? That which we call a rose, / By any other name would smell as sweet» [in nota Wil­liam Sha­ke­spea­re. Romeo and Juliet, II, ii, 47–48]. Per seco­li, gran par­te del dibat­ti­to è gra­vi­ta­to attor­no a que­sto dub­bio: “Wha­t’s in a name?” Sia­mo pro­prio sicu­ri che il mon­do – com­pre­si gli uni­ver­sa­li come il nume­ro dodi­ci, i trian­go­li, il colo­re ver­de e così via – abbia una real­tà indi­pen­den­te da come lo pen­sia­mo, vedia­mo e nomi­nia­mo? II vesco­vo Ber­ke­ley, per fare un esem­pio famo­so, pen­sa­va di no quan­do scris­se nel 1710 “Esse is per­ci­pi” (fon­te).

La secon­da tem­pe­sta è epi­ste­mo­lo­gi­ca e si è abbat­tu­ta sul lago in tem­pi più recen­ti.
Un famo­so espe­ri­men­to men­ta­le la può illu­stra­re. Imma­gi­na­te che uno scien­zia­to rie­sca a espian­ta­re il cer­vel­lo di una per­so­na e a immer­ger­lo in una vasca dove l’organo tro­va tut­to ciò che gli ser­ve per con­ti­nua­re a vive­re e fun­zio­na­re nor­mal­men­te. Imma­gi­na­te anche che lo scien­zia­to sia in gra­do di col­le­gar­lo a un com­pu­ter che sti­mo­la in esso espe­rien­ze coscien­ti e incon­sce, cre­den­ze, desi­de­ri e ogni altro nor­ma­le sta­to cere­bra­le. Come fa il cer­vel­lo a sape­re che si tro­va in una vasca? E se un gran­de gol­fo, un mare inte­ro, con­te­nes­se i cer­vel­li di tut­ti noi, come farem­mo a sape­re che non ci stia­mo par­lan­do attra­ver­so que­ste righe ben­sì che Ātman e tut­to quan­to con­tie­ne è solo un fascio di sti­mo­li che pas­sa­no da un cer­vel­lo gal­leg­gian­te all’altro attra­ver­so il com­pu­ter del­lo scien­zia­to? È la con­di­zio­ne di Neo nel film The Matrix pri­ma di veni­re risve­glia­to dal son­no amnio­ti­co. The Matrix è usci­to nel 1999, la ver­sio­ne più cor­ren­te del­la sto­ria del cer­vel­lo nel­la vasca è del 1981 e si deve a Hila­ry Put­nam [in nota Rea­son, Truth and Histo­ry. Cam­brid­ge, Cam­brid­ge Uni­ver­si­ty Press. 1981].

 

Quin­di, gran par­te del­la rifles­sio­ne con­tem­po­ra­nea ver­te non tan­to sul­la real­tà auto­no­ma del­le cose e del mon­do ma sul­la pos­si­bi­li­tà che abbia­mo di for­mu­la­re rap­pre­sen­ta­zio­ni sog­get­ti­ve, inter­per­so­na­li o socia­li del mon­do stes­so. Nel­la luci­da espres­sio­ne di Put­nam, il pro­ble­ma è: «How is inten­tio­na­li­ty, refe­ren­ce, pos­si­ble?» (Put­nam 1981: 43).

Put­nam non fu cer­to il pri­mo a por­si il pro­ble­ma del­lo scet­ti­ci­smo radi­ca­le, che anzi scor­re sot­to il pen­sie­ro occi­den­ta­le come un fiu­me car­si­co fin dal­le ori­gi­ni. Un fram­men­to di Gor­gia che è arri­va­to fino a noi dal V seco­lo avan­ti Cri­sto dice più o meno così: a) nul­la esi­ste, b) se anche esi­ste, è incom­pren­si­bi­le per gli uomi­ni e c) se anche è com­pren­si­bi­le, rima­ne inef­fa­bi­le e ine­spri­mi­bi­le ver­so gli altri. L’opera di cui que­sto fram­men­to fa par­te s’intitola Sul non esse­re o sul­la natu­ra, quin­di è chia­ro dove vuo­le anda­re a para­re Gor­gia. Ma come resi­ste­re alla ten­ta­zio­ne che anche per lui l’argomento semio­ti­co ven­ga pri­ma di quel­lo onto­lo­gi­co? Lo dico per­ché, riper­cor­ren­do all’indietro i tre pas­si, dal ter­zo al pri­mo, vedia­mo che se fos­si­mo cer­ti di poter effet­ti­va­men­te comu­ni­ca­re ciò che sap­pia­mo agli altri, allo­ra ogni pez­zo del rom­pi­ca­po andreb­be al suo posto.

Ho cer­ca­to di mostra­re, in gran­de sin­te­si e cor­ren­do il rischio – ripe­to – di man­ca­re di rispet­to a un’intera regio­ne del­lo sci­bi­le, quan­to sono agi­ta­te le acque che Ange­li­ca Delui­gi vede inve­ce come un levi­ga­to spec­chio. Ma ci sono due aspet­ti anco­ra più inquie­tan­ti nel­la sua bre­ve nota.
Ecco il pri­mo: per­ché cre­de­re che le lin­gue natu­ra­li e gli altri siste­mi semio­ti­ci sia­no in sé un domi­nio o uno stru­men­to di domi­nio? Essi ecce­do­no enor­me­men­te lo ‘spet­ta­co­lo’ di cui par­la Debord. Cer­to, gran par­te del­le imma­gi­ni del­la socie­tà dei con­su­mi sono vio­len­te e pre­va­ri­can­ti, come lo sono altri lin­guag­gi e pro­dot­ti cul­tu­ra­li. Ecco un esem­pio:

 

Eppu­re, con le stes­se lin­gue natu­ra­li e gli stes­si siste­mi semio­ti­ci  si pos­so­no fare discor­si e testi che respi­ra­no sere­ni e che illu­mi­na­no e libe­ra­no i let­to­ri. Ne indi­co qual­cu­no a caso, giu­sto per spie­ga­re ciò che inten­do: Il mae­stro e Mar­ghe­ri­ta di Bul­ga­kov, il Bebop, i prin­ci­pi fon­da­men­ta­li del­la Costi­tu­zio­ne ita­lia­na, Cor­to Mal­te­se e – nel loro pic­co­lo – tan­ti dei pez­zi che tro­via­mo su Ātman, com­pre­so quel­lo di Delui­gi.

Per­ché ricor­re­re all’opzione nuclea­re di “pen­sa­re fuo­ri dal­le paro­le” quan­do baste­reb­be un setac­cio e un po’ di san­ta pazien­za per sepa­ra­re il gra­no dal loglio? Anco­ra, per­ché descri­ve­re i “rita­gli di real­tà” come “arbi­tra­ri”, qua­si che la qua­li­fi­ca fos­se un indi­ce di tur­pi­tu­di­ne mora­le? Sap­pia­mo alme­no dai pri­mi del Nove­cen­to che tut­te le paro­le sono neces­sa­ria­men­te arbi­tra­rie, anzi arbi­tra­rie e con­ven­zio­na­li [in nota Cf., Fer­di­nand de Saus­su­re. Cor­so di lin­gui­sti­ca gene­ra­le. Intro­du­zio­ne, tra­du­zio­ne e com­men­to di Tul­lio De Mau­ro, Bari, Edi­to­ri Later­za. 1967]. Infi­ne, per­ché dipin­ge­re le paro­le come un eser­ci­to inva­so­re inten­to a pren­der­si con la vio­len­za e il sopru­so il Regno del Rea­le che spet­te­reb­be di dirit­to alle cose?

Tut­te le paro­le e tut­ti gli altri segni, nes­su­no esclu­so, non sono altro che ‘qual­co­sa che sta per un’altra cosa’ (ali­quid stat pro ali­quo). Da sem­pre i segni con­vi­vo­no in pace con gli ogget­ti, anzi li guar­da­no sma­nio­si di mostrar­ne il sen­so ad altri segni che li inter­pre­ta­no e li com­pren­do­no per for­ma­re alla fine cre­den­ze, con­vin­ci­men­ti e abi­tu­di­ni. È un val­zer che va avan­ti da milio­ni di anni, da mol­to pri­ma che sul­la ter­ra com­pa­ris­se­ro i nostri pri­mi ante­na­ti. Esso vede sul­la pista da bal­lo que­ste tre cate­go­rie di dan­za­to­ri –  i segni, appun­to, gli ogget­ti e gli inter­pre­ti. Da que­sto val­zer sor­ge il signi­fi­ca­to e, da quan­do sono entra­ti in pista gli esse­ri uma­ni, è gra­zie ad esso che pos­sia­mo scam­biar­ci del­le idee e vive­re insie­me. Da que­sto val­zer nasce e si svi­lup­pa la cul­tu­ra.

 

Devo mani­fe­sta­re un’ultima inquie­tu­di­ne. Per­ché fare tut­ta que­sta fati­ca nell’intento di «spac­ca­re lo spet­ta­co­lo»? È un eser­ci­zio dif­fi­ci­le e inna­tu­ra­le, maga­ri può esse­re anche peri­co­lo­so. Sono cer­to che ci si deb­ba ribel­la­re al con­trol­lo tota­le del­le imma­gi­ni e dei discor­si del capi­ta­le, ma sia­mo sicu­ri che si pos­sa fare così? Che cosa pen­sa di tro­va­re Dilui­gi là fuo­ri? Come pen­sa di sen­tir­si se e quan­do riu­scis­se ad arri­var­ci?

Gor­gia può aiu­tar­ci a rispon­de­re a que­ste doman­de. Sem­pre risa­len­do dal ter­zo pas­so al pri­mo, sap­pia­mo che chi esce dal­la casa del­le paro­le e degli altri segni vie­ne assa­li­to da una soli­tu­di­ne asso­lu­ta e insa­na­bi­le, per­ché è dav­ve­ro impos­si­bi­le comu­ni­ca­re agli altri l’incontro con l’albero e qual­sia­si espe­rien­za, cre­den­za o pas­sio­ne che si tro­vi nel nostro ani­mo. Il pas­so cen­tra­le di Gor­gia, poi, ci mostra che la situa­zio­ne è ancor più gra­ve e dispe­ra­ta. A ben vede­re, fuo­ri dal­le paro­le e dagli altri sen­gi l’incontro pro­prio non può avve­ni­re. Non capi­rem­mo nul­la né dell’albero né di qual­sia­si altra cosa. E que­sto è chia­ro, per­ché se ci disfia­mo dei segni non solo diven­tia­mo inca­pa­ci di dare un nome e un sen­so alle cose, ma non sia­mo nem­me­no più in gra­do di sta­bi­li­re un qual­che rap­por­to con esse, in quan­to la per­ce­zio­ne stes­sa pro­ce­de per segni. Infi­ne, poi­ché non si può più comu­ni­ca­re né capi­re, sen­za le paro­le man­ca­no i pre­sup­po­sti meta­fi­si­ci per una qual­sia­si con­ce­pi­bi­le real­tà – per non par­la­re dei pre­sup­po­sti fisi­ci, men­ta­li e psi­co­lo­gi­ci.
Mi sa che ave­va ragio­ne Der­ri­da quan­do scri­ve­va, nel­lo stes­so anno in cui Debord pub­bli­ca­va La socie­té du spec­ta­cle, che non esi­ste nul­la al di fuo­ri del testo.

PRE­SEN­TA­ZIO­NE DELL’ AUTO­RE

Ubal­do Stec­co­ni è nato ad Anco­na il 22 mar­zo 1962 e vive a Bru­xel­les dal 2001, dove è esper­to di comu­ni­ca­zio­ne per la Com­mis­sio­ne euro­pea. Nei pre­ce­den­ti 15 anni, Ubal­do ha inse­gna­to tra­dut­to­lo­gia, semio­ti­ca e mate­rie affi­ni in Ita­lia, nel­le Filip­pi­ne e negli Sta­ti Uni­ti. Oltre all’insegnamento, nei suoi anni a Mani­la ha lavo­ra­to per la sezio­ne cul­tu­ra­le dell’ambasciata d’Italia, ha lan­cia­to la serie Salin (tra­du­zio­ne) per Anvil publi­shing e ha diret­to la sezio­ne recen­sio­ni del­la rivi­sta Pen&Ink. Negli Sta­ti Uni­ti, è sta­to Qua­li­ty Con­trol and Qua­li­ty Assu­ran­ce Mana­ger per Welocalize.com e cor­ri­spon­den­te da Washing­ton D.C. per il pro­gram­ma radio­fo­ni­co Fah­ren­heit di Rai Radio 3. In Ita­lia, era uno dei soci di Logos con­sul­ting dove ha con­tri­bui­to, fra le altre cose, alla loca­liz­za­zio­ne per il mer­ca­to ita­lia­no di pro­gram­mi appli­ca­ti­vi del­la Micro­soft. Oltre a nume­ro­se pub­bli­ca­zio­ni acca­de­mi­che, Ubal­do ha con­ce­pi­to e cura­to due rac­col­te di rac­con­ti in tra­du­zio­ne: Day­dreams and Night­ma­res per Anvil publi­shing (Mani­la) e Bali­k­ba­yan per Fel­tri­nel­li (Mila­no) e ha col­la­bo­ra­to alla tra­du­zio­ne di Fede­li a oltran­za, di V.S. Nai­paul per Adel­phi (Mila­no). Nel 2006 ha con­se­gui­to un PhD in let­te­ra­tu­re com­pa­ra­te pres­so l’University Col­le­ge Lon­don sot­to la gui­da di Theo Her­mans. La sua ulti­ma ope­ra acca­de­mi­ca è A World Atlas of Trans­la­tion, cura­to assie­me a Yves Gam­bier e pub­bli­ca­to da John Ben­ja­mins (Amster­dam e New York) nel 2019.

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