«Il n’y a pas de hors-texte»
Jacques Derrida. De la grammatologie. Paris, Minuit. 1967: 227
Angelica Deluigi ha pubblicato sulle pagine di Ātman una breve nota sulla possibilità – e forse sulla necessità, o almeno il desiderio – di «generare un pensiero fuori dallo spettacolo – o fuori dal dominio, che è la stessa cosa» (Da nessuna parte, 24 aprile 2023).
L’autrice prende il termine ‘spettacolo’ e la complessa idea a cui si referisce da La societé du spectacle di Guy Debord ma va oltre la critica marxista del filosofo francese, formulando una ricetta ancora più radicale. Tutto parte dalla distinzione fra le parole e le cose, con l’affermazione «che le cose sono reali e che invece le parole non lo sono». Seguono due avvertenze.
La prima è che il termine ‘parole’ si deve intendere come sineddoche per i segni di ogni tipo; «tutti gli arbitrari ritagli di realtà che hanno assunto tale livello di esistenza autonoma da sostituire l’unica realtà effettiva, la realtà delle cose».
La seconda avvertenza ci mette in guardia dal concludere che l’autrice pensi che non ci sia nulla al di fuori delle cose, perché non lo pensa.
Il ragionamento si chiude con l’esortazione a «imparare a pensare fuori dalle parole». A questo fine, Deluigi ci porta l’esempio di un albero che conosce bene e di certe sue caratteristiche proponendoci un esercizio: per sfuggire «alle maglie dello spettacolo-dominio» occorre «resistere di fronte all’immensità di una cosa che è» – appunto quell’albero (il corsivo è suo).
Il ragionamento nel suo complesso, la motivazione apparente e i passaggi nei quali si articola il discorso mi lasciano interdetto. Cominciamo da un passaggio importante.
Non è chiaro come Deluigi possa presentare una distinzione tanto netta e sicura di sé fra le ‘cose’ e le ‘parole’. La distinzione ricorda quella fra res e verba di Cicerone e Quintiliano, che in quasi duemila anni è stata criticata, confutata e superata da moltissimi pensatori e che oggi ha solamente interesse storico. L’inconsistenza di questa posizione teorica è evidente in un’espressione che si trova nella stessa nota. Alla fine della lunga descrizione dell’albero menzionata sopra, l’autrice scrive: «Questo è solo un racconto, ancora, e non è la realtà, ma chi legge sa cos’è la realtà e sa che non è il racconto». Proviamo a riscrivere questa frase usando gli stessi termini generali utilizzati nella nota: Queste sono solo parole, non cose, ma chi legge sa cosa sono le cose e sa che non sono parole.
Eh no, così non vale.
Chi legge magari ha un’idea chiara sulla distinzione fra res e verba, ma se legge la nota di Deluigi è perché vuole conoscere l’idea che ne ha lei e si aspetta anzi che venga esposta in un discorso chiaro e persuasivo. Non si può subappaltare ai lettori in questo modo la costruzione del pilastro che regge tutto il ragionamento.
Immaginate se Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche avesse scritto: I lettori conoscono bene la differenza che passa fra le parole viste come specchio del mondo e le parole viste come elementi di giochi linguistici pretendendo di aver assolto così al suo compito. Russell, Popper e gli altri si sarebbero pentiti di aver partecipato ai suoi seminari e avrebbero pensato che sarebbe stato meglio lasciarlo a Vienna a fare il giardiniere.
L’idea che aveva Quintiliano di res, verba e delle loro relazioni è stata, come ho detto, consegnata alla storia. Possiamo figurarci tale concezione come un lago di parole sulla cui superficie si specchiano, senza distorcersi, tutte le cose attorno. A rischio di semplificare troppo e di mancare di rispetto a questa branca del sapere, vorrei dire qui che due tempeste hanno increspato in modo irreparabile la placida superficie del lago.
La prima, antica, è una tempesta ontologica.
Una maniera per evocarla è la famosa battuta di Giulietta: «What’s in a name? That which we call a rose, / By any other name would smell as sweet» [in nota William Shakespeare. Romeo and Juliet, II, ii, 47–48]. Per secoli, gran parte del dibattito è gravitato attorno a questo dubbio: “What’s in a name?” Siamo proprio sicuri che il mondo – compresi gli universali come il numero dodici, i triangoli, il colore verde e così via – abbia una realtà indipendente da come lo pensiamo, vediamo e nominiamo? II vescovo Berkeley, per fare un esempio famoso, pensava di no quando scrisse nel 1710 “Esse is percipi” (fonte).
La seconda tempesta è epistemologica e si è abbattuta sul lago in tempi più recenti.
Un famoso esperimento mentale la può illustrare. Immaginate che uno scienziato riesca a espiantare il cervello di una persona e a immergerlo in una vasca dove l’organo trova tutto ciò che gli serve per continuare a vivere e funzionare normalmente. Immaginate anche che lo scienziato sia in grado di collegarlo a un computer che stimola in esso esperienze coscienti e inconsce, credenze, desideri e ogni altro normale stato cerebrale. Come fa il cervello a sapere che si trova in una vasca? E se un grande golfo, un mare intero, contenesse i cervelli di tutti noi, come faremmo a sapere che non ci stiamo parlando attraverso queste righe bensì che Ātman e tutto quanto contiene è solo un fascio di stimoli che passano da un cervello galleggiante all’altro attraverso il computer dello scienziato? È la condizione di Neo nel film The Matrix prima di venire risvegliato dal sonno amniotico. The Matrix è uscito nel 1999, la versione più corrente della storia del cervello nella vasca è del 1981 e si deve a Hilary Putnam [in nota Reason, Truth and History. Cambridge, Cambridge University Press. 1981].
Quindi, gran parte della riflessione contemporanea verte non tanto sulla realtà autonoma delle cose e del mondo ma sulla possibilità che abbiamo di formulare rappresentazioni soggettive, interpersonali o sociali del mondo stesso. Nella lucida espressione di Putnam, il problema è: «How is intentionality, reference, possible?» (Putnam 1981: 43).
Putnam non fu certo il primo a porsi il problema dello scetticismo radicale, che anzi scorre sotto il pensiero occidentale come un fiume carsico fin dalle origini. Un frammento di Gorgia che è arrivato fino a noi dal V secolo avanti Cristo dice più o meno così: a) nulla esiste, b) se anche esiste, è incomprensibile per gli uomini e c) se anche è comprensibile, rimane ineffabile e inesprimibile verso gli altri. L’opera di cui questo frammento fa parte s’intitola Sul non essere o sulla natura, quindi è chiaro dove vuole andare a parare Gorgia. Ma come resistere alla tentazione che anche per lui l’argomento semiotico venga prima di quello ontologico? Lo dico perché, ripercorrendo all’indietro i tre passi, dal terzo al primo, vediamo che se fossimo certi di poter effettivamente comunicare ciò che sappiamo agli altri, allora ogni pezzo del rompicapo andrebbe al suo posto.
Ho cercato di mostrare, in grande sintesi e correndo il rischio – ripeto – di mancare di rispetto a un’intera regione dello scibile, quanto sono agitate le acque che Angelica Deluigi vede invece come un levigato specchio. Ma ci sono due aspetti ancora più inquietanti nella sua breve nota.
Ecco il primo: perché credere che le lingue naturali e gli altri sistemi semiotici siano in sé un dominio o uno strumento di dominio? Essi eccedono enormemente lo ‘spettacolo’ di cui parla Debord. Certo, gran parte delle immagini della società dei consumi sono violente e prevaricanti, come lo sono altri linguaggi e prodotti culturali. Ecco un esempio:
Eppure, con le stesse lingue naturali e gli stessi sistemi semiotici si possono fare discorsi e testi che respirano sereni e che illuminano e liberano i lettori. Ne indico qualcuno a caso, giusto per spiegare ciò che intendo: Il maestro e Margherita di Bulgakov, il Bebop, i principi fondamentali della Costituzione italiana, Corto Maltese e – nel loro piccolo – tanti dei pezzi che troviamo su Ātman, compreso quello di Deluigi.
Perché ricorrere all’opzione nucleare di “pensare fuori dalle parole” quando basterebbe un setaccio e un po’ di santa pazienza per separare il grano dal loglio? Ancora, perché descrivere i “ritagli di realtà” come “arbitrari”, quasi che la qualifica fosse un indice di turpitudine morale? Sappiamo almeno dai primi del Novecento che tutte le parole sono necessariamente arbitrarie, anzi arbitrarie e convenzionali [in nota Cf., Ferdinand de Saussure. Corso di linguistica generale. Introduzione, traduzione e commento di Tullio De Mauro, Bari, Editori Laterza. 1967]. Infine, perché dipingere le parole come un esercito invasore intento a prendersi con la violenza e il sopruso il Regno del Reale che spetterebbe di diritto alle cose?
Tutte le parole e tutti gli altri segni, nessuno escluso, non sono altro che ‘qualcosa che sta per un’altra cosa’ (aliquid stat pro aliquo). Da sempre i segni convivono in pace con gli oggetti, anzi li guardano smaniosi di mostrarne il senso ad altri segni che li interpretano e li comprendono per formare alla fine credenze, convincimenti e abitudini. È un valzer che va avanti da milioni di anni, da molto prima che sulla terra comparissero i nostri primi antenati. Esso vede sulla pista da ballo queste tre categorie di danzatori – i segni, appunto, gli oggetti e gli interpreti. Da questo valzer sorge il significato e, da quando sono entrati in pista gli esseri umani, è grazie ad esso che possiamo scambiarci delle idee e vivere insieme. Da questo valzer nasce e si sviluppa la cultura.
Devo manifestare un’ultima inquietudine. Perché fare tutta questa fatica nell’intento di «spaccare lo spettacolo»? È un esercizio difficile e innaturale, magari può essere anche pericoloso. Sono certo che ci si debba ribellare al controllo totale delle immagini e dei discorsi del capitale, ma siamo sicuri che si possa fare così? Che cosa pensa di trovare Diluigi là fuori? Come pensa di sentirsi se e quando riuscisse ad arrivarci?
Gorgia può aiutarci a rispondere a queste domande. Sempre risalendo dal terzo passo al primo, sappiamo che chi esce dalla casa delle parole e degli altri segni viene assalito da una solitudine assoluta e insanabile, perché è davvero impossibile comunicare agli altri l’incontro con l’albero e qualsiasi esperienza, credenza o passione che si trovi nel nostro animo. Il passo centrale di Gorgia, poi, ci mostra che la situazione è ancor più grave e disperata. A ben vedere, fuori dalle parole e dagli altri sengi l’incontro proprio non può avvenire. Non capiremmo nulla né dell’albero né di qualsiasi altra cosa. E questo è chiaro, perché se ci disfiamo dei segni non solo diventiamo incapaci di dare un nome e un senso alle cose, ma non siamo nemmeno più in grado di stabilire un qualche rapporto con esse, in quanto la percezione stessa procede per segni. Infine, poiché non si può più comunicare né capire, senza le parole mancano i presupposti metafisici per una qualsiasi concepibile realtà – per non parlare dei presupposti fisici, mentali e psicologici.
Mi sa che aveva ragione Derrida quando scriveva, nello stesso anno in cui Debord pubblicava La societé du spectacle, che non esiste nulla al di fuori del testo.
PRESENTAZIONE DELL’ AUTORE
Ubaldo Stecconi è nato ad Ancona il 22 marzo 1962 e vive a Bruxelles dal 2001, dove è esperto di comunicazione per la Commissione europea. Nei precedenti 15 anni, Ubaldo ha insegnato traduttologia, semiotica e materie affini in Italia, nelle Filippine e negli Stati Uniti. Oltre all’insegnamento, nei suoi anni a Manila ha lavorato per la sezione culturale dell’ambasciata d’Italia, ha lanciato la serie Salin (traduzione) per Anvil publishing e ha diretto la sezione recensioni della rivista Pen&Ink. Negli Stati Uniti, è stato Quality Control and Quality Assurance Manager per Welocalize.com e corrispondente da Washington D.C. per il programma radiofonico Fahrenheit di Rai Radio 3. In Italia, era uno dei soci di Logos consulting dove ha contribuito, fra le altre cose, alla localizzazione per il mercato italiano di programmi applicativi della Microsoft. Oltre a numerose pubblicazioni accademiche, Ubaldo ha concepito e curato due raccolte di racconti in traduzione: Daydreams and Nightmares per Anvil publishing (Manila) e Balikbayan per Feltrinelli (Milano) e ha collaborato alla traduzione di Fedeli a oltranza, di V.S. Naipaul per Adelphi (Milano). Nel 2006 ha conseguito un PhD in letterature comparate presso l’University College London sotto la guida di Theo Hermans. La sua ultima opera accademica è A World Atlas of Translation, curato assieme a Yves Gambier e pubblicato da John Benjamins (Amsterdam e New York) nel 2019.