Itaque nostri maiores rebus bellicis pluribusque laudibus ceteros homines superaverunt, linguae vero suae ampliatione seipsis superiores fuerunt.
Se dunque i padri nostri superano gli altri per gloria militare e per molti altri meriti, nella diffusione della lingua latina furono superiori a se stessi.
Lorenzo Valla. Elegantiae linguae latinae. 1471 (prefazione al primo libro). In Eugenio Garin (a cura di). Prosatori latini del Quattrocento. Riccardo Ricciardi editore, Milano-Napoli. 1952: pp. 594 e 595
Cuando bien comigo pienso, mui esclarecida reina, i pongo delante los ojos el antigüedad de todas las cosas que para nuestra recordación i memoria quedaron escriptas, una cosa hallo i saco por conclusión mui cierta: que siempre la lengua fue compañera del imperio.
Quando rifletto, illustrissima regina, e dispongo davanti agli occhi l’antichità di tutte le cose scritte per nostro ricordo e memoria, una cosa trovo e concludo con grande certezza: che la lingua è sempre stata compagna dell’impero.
Antonio de Nebrija. Prologo alla Gramática de la lengua castellana. 1492. Traduzione dell’autore.
Queste note esplorano il rapporto fra linguaggio e potere, che non ha smesso di incuriosirci dall’intuizione di Valla (nel prologo del primo manuale moderno della lingua latina) e dalla fortunata espressione di Nebrija (nel prologo della prima grammatica europea di una lingua volgare). Anzi, forse l’interesse risale a molto prima. Si può ipotizzare che la più antica scienza e disciplina del linguaggio, la retorica, sia nata proprio per esplorare questo rapporto. Secondo una storia che Cicerone attribuisce ad Aristotele, l’invenzione della retorica risponde alla necessità dei cittadini siciliani di far valere i propri diritti di fronte a un giudice dopo una lunga tirannide (Brutus 46). Certo, si tratta di un potere di natura diversa rispetto a quello di un personaggio politico, più vicino all’influenza che tutti vorremmo avere di fronte a molti nostri interlocutori. In ogni caso, queste note partono dal presupposto che chi intende influenzare il pensiero e il comportamento altrui deve usare le parole e gli altri segni responsabilmente. Chi poi ha una posizione di potere deve fare ancora più attenzione perché l’esercizio del potere senza responsabilità è pericoloso e ripugnante. Ogni ragionamento su linguaggio e potere deve avere un fondamento etico e politico forte perché retorica – che prima di tutto è una disciplina del pensiero – e linguaggio possono e devono tendere al bene.
MARCO CAVALLO E IL SINDACO
Nel mese di ottobre del 2022 il sindaco di Muggia, un piccolo comune fra Trieste e il confine con la Slovenia, ha acceso una polemica sulla stampa locale e nazionale. Il sindaco si chiama Paolo Polidori e la polemica riguarda ciò che ha detto in consiglio comunale sulla scultura in legno e cartapesta di un cavallo azzurro.
La scultura si chiama Marco Cavallo e venne realizzata nel 1973 all’interno di quello che era il manicomio di Trieste. Marco Cavallo divenne rapidamente “il simbolo della libertà da contrapporre alla miseria della psichiatria”, come scrisse lo stesso Franco Basaglia e ha rappresentato da allora la sua rivoluzione di civiltà girando prima per le strade di Trieste e nel corso degli anni di molte altre città d’Italia.
Marco Cavallo è ospitato in un magazzino del comune di Muggia dal 2013. Nel corso di quel consiglio comunale dell’ottobre 2022, Polidori ha acceso la sua piccola polemica denunciando la mancanza di un atto amministrativo che facesse spazio alla scultura nei magazzini comunali e dichiarando che fosse “doveroso riportare la faccenda entro i confini della correttezza amministrativa”. La stampa, che in queste faccende va al sodo, ha concluso che Polidori stava sfrattando Marco Cavallo, ma il sindaco ha obiettato che è improprio parlare di sfratto in assenza di una pratica amministrativa all’origine dell’affitto. Dal punto di vista linguistico l’obiezione di Polidori è corretta e ci invita ad analizzare le sue parole con la stessa accuratezza.
Il comune di Muggia e il suo sindaco hanno la facoltà di tenere ciò che vogliono nei loro magazzini e di svuotarli quando vogliono. Se una scultura equina di quattro metri è di troppo, basta fare un atto per liberarsene. Eppure Polidori ha preferito prendere la strada più lunga. Ha descritto la cosa non come una decisione indirizzata a Marco Cavallo bensì come “una questione amministrativa di buon senso e di corretto utilizzo della cosa pubblica”. Si tratta di una figura retorica che possiamo chiamare ‘gettare il sasso e nascondere la mano’. Perché Polidori non ha preso la strada diritta? Perché non ha fatto un discorso letterale? Che cosa significa questo comportamento semiotico in termini generali? Da dove proviene?
A questo punto occorre formulare un’ipotesi, altrimenti il ragionamento non procede. Occorre immaginare che per Polidori la presenza di una grande statua di cartapesta nel magazzino comunale sia del tutto indifferente. Ciò che conta, e procediamo sempre per ipotesi, è far saltare pubblicamente i nervi a chi vede in Marco Cavallo il simbolo di una battaglia politica, sociale e civile della sinistra. Per giunta una battaglia che si è conclusa da decenni con la vittoria della sinistra, perché in Italia dal 1978 non si possono più rinchiudere i “matti” e privarli della loro umanità. Se l’ipotesi regge, è lecito immaginare che la figura retorica utilizzata da Polidori si possa tradurre in questa espressione letterale: «non voglio il simbolo di una vittoria storica della sinistra nelle strutture del comune».
Far saltare i nervi agli avversari politici ha una lunga tradizione. Peppone e Don Camillo si facevano i dispetti tutto il tempo. Ma la figura retorica di Polidori fa parte di una tradizione molto più recente, quella che si è affermata nel 2016 durante la campagna elettorale per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. In quei mesi venne riadattato il termine snowflake, già in uso come veicolo di derisione, per insultare gli avversari del candidato di destra Donald Trump. Il fiocco di neve di sinistra è visto come fiacco, delicato e suscettibile. Tutto lo offende e lo indigna. È un gran divertimento stuzzicarlo e fargli saltare i nervi – e quando ci riesci, ecco la prova che è davvero una mammola.
Non è difficile immaginarsi che un personaggio politico trovi divertente far saltare i nervi agli avversari, per poi chiamarli mammole quando la freccia colpisce il bersaglio. Ma gli esponenti della alt-right americana e nostrana non sono arguti, spiritosi e bonari come Peppone e Don Camillo. Soprattutto, non risulta che come loro abbiano a cuore il benessere dei cittadini. Far saltare i nervi alle mammole di sinistra da parte loro è un comportamento semiotico violento, irresponsabile e pericoloso. Inoltre, per tornare a Polidori, si ravvisano due aggravanti nella figura retorica da lui utilizzata e che abbiamo chiamato ‘gettare il sasso e nascondere la mano’.
La prima è di ordine narratologico. Che strumenti avrebbe chi volesse prendere Polidori alla lettera e verificare la sua affermazione, secondo la quale nel 2013 Marco Cavallo prese dimora abusivamente nei magazzini del comune di Muggia? Dovrebbe rivolgersi allo stesso comune di Muggia e chiedere di avere accesso a un documento di diversi anni fa di cui si fatica a immaginare la natura. Si dovrebbe cercare un inventario del tempo. Oppure dovrebbe spuntare la domanda presentata da Marco Cavallo stesso per l’assegnazione di una casa popolare. Quest’ultima ricerca, benché faceta, avrebbe una sua ragione storica e poetica. Il cavallo immortalato dalla statua aveva già fatto qualcosa di simile.
Insomma, le procedure che portarono all’ingresso della statua nelle strutture del comune di Muggia sono state probabilmente cancellate dal tempo, ma l’assenza della prova non è prova dell’assenza e l’affermazione di Polidori diventa praticamente impossibile da falsificare. Non si può più dire con certezza se sia vera o falsa, ma solo se sia verosimile e, se lo è, in che misura. In questo modo è più vicina alla narrativa, cioè alle storie immaginate, piuttosto che al resoconto di fatti realmente accaduti.
Non di rado è questa la natura delle dichiarazioni pubbliche architettate dai politici e dai commentatori di destra per far saltare i nervi alle mammole di sinistra, quindi la prima aggravante di Polidori è molto diffusa. La seconda è invece più originale. ‘Gettare il sasso e nascondere la mano’ è la figura retorica che gli ha consentito di nascondere le sue intenzioni rispetto alla permanenza di Marco Cavallo nei magazzini del comune. Celare le proprie intenzioni non è una bella cosa di norma, si pensi a una trattativa commerciale oppure a un dialogo amoroso. Ma spesso non è grave e anzi qualche volta lo facciamo persino per rispetto degli altri. Se dico a un amico «fa caldo qui dentro, no?» in realtà gli sto chiedendo di farmi la cortesia di aprire la finestra senza scoprire troppo le carte e senza impegnarlo. Se sente freddo o non ha voglia, amici come prima.
Le cose cambiano se a celare le intenzioni è il signor sindaco. Il discorso che vede coinvolti lui e i suoi concittadini deve essere sempre trasparente e per quanto possibile esplicito quando riguarda questioni di pubblica utilità. Le intenzioni e le finalità delle parole pronunciate e degli atti posti in essere dai rappresentanti eletti dal popolo devono essere palesi e di facile accesso, perché sul loro riconoscimento si forma il consenso democratico. Il fatto che ciò accada troppo raramente non ci deve scoraggiare. Non dobbiamo accontentarci di una democrazia ammaccata e opaca. Il discorso che avete letto finora si fonda precisamente su questa forma di cocciutaggine. Non dobbiamo smettere di pretendere che i nostri rappresentanti e tutti i cittadini si impegnino a rafforzare le istituzioni che ci consentono di vivere insieme in modo ordinato, pacifico e creativo. Ecco perché occorre rigettare la figura ‘gettare il sasso e nascondere la mano’ come potenzialmente eversiva. Se adottata sistematicamente rischia di inquinare i pozzi della democrazia e di indebolire l’istituzione che Polidori si è impegnato a difendere nel momento in cui ha accettato di fare il sindaco di Muggia. Il sindaco Peppone, per quanto avversario del parroco del suo paese, non l’avrebbe mai fatto.
PRESENTAZIONE DELL’ AUTORE
Ubaldo Stecconi è nato ad Ancona il 22 marzo 1962 e vive a Bruxelles dal 2001, dove è esperto di comunicazione per la Commissione europea. Nei precedenti 15 anni, Ubaldo ha insegnato traduttologia, semiotica e materie affini in Italia, nelle Filippine e negli Stati Uniti. Oltre all’insegnamento, nei suoi anni a Manila ha lavorato per la sezione culturale dell’ambasciata d’Italia, ha lanciato la serie Salin (traduzione) per Anvil publishing e ha diretto la sezione recensioni della rivista Pen&Ink. Negli Stati Uniti, è stato Quality Control and Quality Assurance Manager per Welocalize.com e corrispondente da Washington D.C. per il programma radiofonico Fahrenheit di Rai Radio 3. In Italia, era uno dei soci di Logos consulting dove ha contribuito, fra le altre cose, alla localizzazione per il mercato italiano di programmi applicativi della Microsoft. Oltre a numerose pubblicazioni accademiche, Ubaldo ha concepito e curato due raccolte di racconti in traduzione: Daydreams and Nightmares per Anvil publishing (Manila) e Balikbayan per Feltrinelli (Milano) e ha collaborato alla traduzione di Fedeli a oltranza, di V.S. Naipaul per Adelphi (Milano). Nel 2006 ha conseguito un PhD in letterature comparate presso l’University College London sotto la guida di Theo Hermans. La sua ultima opera accademica è A World Atlas of Translation, curato assieme a Yves Gambier e pubblicato da John Benjamins (Amsterdam e New York) nel 2019.