La recensione di Una lunghissima ombra, il nuovo disco di Andrea Laszlo De Simone
Il meccanismo della storia ha smesso ormai definitivamente di funzionare da qualche decennio. Camminiamo in un paesaggio di rovine, cercando di maneggiare il senso di colpa di questa sterminata disfatta dell’umanità. Raccogliamo dei cocci di storia per disporli in maniere ancora sorprendenti e la chiamiamo arte.
La musica di Laszlo De Simone è sempre stata una musica delle rovine. La sua voce filtrata, come tutto il trattamento sonoro dei suoi album enfatizzano un suono sempre leggermente distorto, che a discapito della chiarezza d’ascolto, raggiunge un’organicità di tutti i timbri, legati insieme in quell’unica massa sonora che sembra dialogare direttamente con il nostro subconscio. Appare quanto di più vicino ad una operazione di ucronia musicale, quella che Carrère nel suo libro omonimo definisce la narrazione in cui “la storia diventa palesemente altra, modificata da distorsioni irreversibili” (Carrère 2024). Queste distorsioni irreversibili sono le stesse che Andrea Laszlo De Simone applica alla sua musica, inventando una storia della musica leggera palesemente altra. Canzoni che vengono da un altro mondo – mai esistito – che guarda il nostro con una strana ed estatica malinconia.
Già con i suoi lavori precedenti Uomo Donna (2017) e l’EP Immensità (2020), usciti entrambi per 42 Records, si era mosso nel tempo privato – sonoro e verbale – del ricordo.
Quella musica rivelava una sensibilità artistica che aveva bisogno di compiere uno sforzo immane per confrontarsi con il presente, proprio nel compiere quello sforzo però risplendeva il suo talento più profondo e prezioso. Uno sforzo che è anche il cuore di Una lunghissima ombra.
Negli ultimi cinque anni, De Simone si è allontanato dalla scena musicale per dedicarsi al cinema, la sua prima passione artistica, in cui aveva già lavorato a lungo come video assist. Ha composto la colonna sonora di Le Règne Animal (2024), con cui ha vinto un premio César, continuando a dare credito all’intenzione di voler abbandonare la scrittura di canzoni per dedicarsi interamente alle colonne sonore. In quel mestiere diverso spariva la necessità di cantare, sparivano le parole e anche il suo personaggio pubblico trovava maggiori margini di occultamento. Potevano essere le immagini in movimento della pellicola – e non il suo corpo e la voce – a farsi veicolo della sua musica.
In una recente lunghissima intervista su Rolling Stone, De Simone ribadisce come si senta poco a suo agio nel panorama musicale contemporaneo e nel ruolo di celebrità che è chiamato a recitare l’artista. Con l’uscita di questo album non farà concerti, il palco l’affatica e vuole dedicare le sue energie alla famiglia: “è doloroso per me perché non sono un attore, non riesco a infilarmi una maschera. […] È bello suonare, non smette di piacermi, ma mi affatica. E poi sei lontano da casa e io non voglio perdere la chance che si presenta una volta sola nella vita di vedere i 5 anni di mia figlia”.
Poggio il primo dei due vinili di Una lunghissima ombra sul giradischi, dopo qualche minuto, la sua voce distorta – privata nel mix delle frequenze più estreme dello spettro – intona delle parole che esistono soltanto in un universo poetico ormai completamente posticcio. Sembra di ascoltarlo in bianco e nero. È la voce di un cadetto spaziale che spedisce messaggi nella sua navicella alla deriva; è la voce dell’ultimo bambino terrestre, il cui lamento viene registrato con mezzi di fortuna dai superstiti dell’apocalisse ecologica.
Ciò che distingue il lavoro di Laszlo De Simone nell’odierno panorama musicale italiano – ed è la grande conferma di questo nuovo album – è la piena consapevolezza del suo stile musicale. Non si limita infatti a scrivere testi in maniera coraggiosa e personalissima ma dà alla sua musica un suono perfettamente coerente, riconoscibile, autosignificante. È davvero raro nella scena musicale italiana trovare artisti che abbiano un controllo così cristallino del proprio universo timbrico, faccio qualche nome casuale: quello dei Baustelle è diventato ormai un feticcio che sa di moquette sporca; Vasco Brondi non è mai riuscito a trovarlo, appoggiandosi, dopo il primo album, su un’identità sonora sempre più generica e anonima; per fare un altro nome, Iosonouncane, sta costruendo il suo suono album dopo album, ma col rischio di venire inghiottito dal suo stesso gigantismo elettroacustico.
Nella musica di Laszlo De Simone tutto è estremamente misurato, dando l’idea di entrare in sala di registrazione con un’idea sonora quanto mai precisa, che trae forza dall’essere in un rapporto di perfetta simbiosi con la sua scrittura: armonica, semplici giri di accordi che ci riportano immediatamente ad arrangiamenti pop del secondo dopoguerra; e poetica, i troncamenti delle vocali finali, le rime baciate e quel vocabolario obsoleto, fanno riferimento ad un universo poetico tanto preciso quanto completamente anti-realistico. Il suo è uno strano e ostinato collocarsi fuori dal tempo presente per trovare con quest’ultimo un dialogo autentico. Una tale posizione artistica potrebbe apparire reazionaria, manieristica, ma approfondendo l’ascolto di Una lunghissima ombra, traccia dopo traccia si rivela come sia proprio questa ricerca di una musicalità altra che gli permette di costruire quel particolare sguardo poetico sulla realtà.
Torniamo al primo nerissimo LP che ha cominciato a vorticare sul mio giradischi. Con l’introduzione ambientale del Buio entriamo in una fanfara, rumori sospesi tra una festa e una scena di guerriglia, che si scioglie presto in un tappeto di droni e cori. In Ricordo Tattile compare un organo sottile che tesse un giro armonico, arricchito dall’intervento degli archi, qualche battuta dopo entra la batteria e un arpeggio di pianoforte in sei ottavi. La voce distorta ripete “Spremono la tua carne a fondo”, è il suo corpo-sonda, che tornerà per tutto il disco come strumento sacrificale di confronto con la realtà, impregnato di ricordi diventa il covo di una nostalgia straniante: “Quasi all’imbrunire / Filtrano i ricordi / Come fiori incolti / Fra le tue rovine”. Il paesaggio astratto di Neon è accompagnato da droni immersi in un velo di nebbia sintetica e distorta. Le canzoni emergono dal caos informe disegnando delicati contrappunti di flauti e pianoforte, come nella successiva La Notte che, dopo un’introduzione strumentale sommessa, si trasforma in un motivetto di cori e fischi dal sapore balneare. “E ora sconvolto dal dolore / Abbandonato nella mia sventura / Se c’è qualcuno che non ha paura / Io prego mi soccorra”. Un vento sintetico lascia spazio alla chitarra di Colpevole, tra le melodie degli archi e il testo minimale che si ripete nell’incastro ritmico di due parole: “sono colpevole”.
Giro sul lato opposto il vinile, sistemo la puntina e mi accoglie un respiro affannato. L’ingresso di un mandolino apre la strada agli archi e agli arpeggi di Quando, uno dei testi più belli: “È colpa del respiro, fragile come me / Se soffro tanto, ma sono vivo / È colpa della bocca, stupida come me / E del tuo corpo che la tocca”. La novità più felice del disco da un punto di vista strumentale è la ritmica, mutevole, prima acustica poi sintetica, impreziosita da triangoli e cabáse che si rincorrono nell’ostinato terzinato degli arrangiamenti. Un tappeto estatico e minimalista di arpeggi di piano, cori e sintetizzatori ci accompagna verso il prossimo pezzo: Aspetterò. Introdotto da un temporale, il suono dello scacciapensieri e la melodia fischiata sembrano portarci in territori western, poi la sezione ritmica accende nuovamente il jukebox della canzonetta sanremese, fino a un ritornello che mescola il nichilismo a una strana e sinistra allegria: “Sapendo che non sono niente e niente avrò / Perché di niente è fatto tutto, ed io lo so”. Come nei grandi capolavori del pop, l’incubo è imperlato di una melodia luminosa. La voce di una bambina che canticchia ci porta a Per te, un arpeggio di chitarra con vibrato, fischiettamenti e percussioni sbarazzine che raccontano l’assoluto della genitorialità.
Tolgo il disco che rallenta e metto sul piatto il secondo. Un conto alla rovescia, la fine dell’anno o l’inizio del mondo. È Un momento migliore , tra le vette dell’album: “Ho perso il cuore ed un amico vero / Ho perso tutti e non ho più nessuno / Ho dato amore, ma non son stato sincero / Ed ho mentito senza rimorso alcuno”. Una confessione della smisurata sofferenza del vivere comune, del tempo che trasporta l’esistenza attraverso le età, la perdita di sé e degli affetti che, invece di implodere, viene trasfigurata in un inno di speranza: “Nessuno, nessuno / Ha mai avuto un momento migliore / Mai”. Ancora la stasi di una registrazione ambientale, Diffrazione. Un ambiguo arpeggio di chitarra introduce Pienamente, ritorna l’opprimente senso di vacuità dell’esistere nella sua tautologia irrisolta (“chi vive, morirà”), poi sfuma su un rapido e delicato arpeggio di sintetizzatore. In questa eterna lotta tra il buio e la luce, in Planando sui raggi del sole, la seconda diventa protagonista, nella speranza di un volo che superi l’illusione: “Guardaci, voliamo come angeli / Planando sui raggi del sole”. Un ritmo marziale raccoglie l’esile slancio del ritornello e lo trascina fino a distruggersi sugli scogli di un basso sintetico, un sax e una batteria swingata si raccolgono su quella piattaforma sonora, ed è come fossimo entrati improvvisamente nel fumoso jazz club del paradiso. Sentiamo il battimani e il pubblico incoraggiare i musicisti, sono momenti di musica estatica, altissima, che sfuma lasciandoci appesi a una nostalgia appiccicosa e al vento freddo che riempie Spiragli insieme ai sempiterni arrangiamenti d’archi. Le parole, già centellinate, da qui in poi cominceranno a stingere fino a sparire, i testi diventano sfibrati e sempre più concisi.
Giro il vinile sull’ultima facciata. Quello che ero una volta è una preghiera laica su percussioni sintetiche e sintetizzatori pulsanti: “La debolezza è una colpa / Che tendo a giustificare / Una questione irrisolta / Che mi costringe a sbagliare / E non c’è cosa peggiore”. L’organo flebile di Rifrazione introduce le ultime due tracce dell’album, in cui il miracolo d’equilibrismo tra distruzione e accettazione di sé sembra compiersi. Non è reale arriva come fosse un singolo radiofonico, ma spezza a metà qualunque speranza di vita. In un’operazione chirurgica spirituale, estrae il suo nucleo oscuro di sogno tra una ritmica post-punk e le pulsazioni dei sintetizzatori sempre più presenti, mentre De Simone ripete come in un mantra “Non è reale”. Un’eco rimbalza fino a sparire nella distorsione introducendo l’omonima Una lunghissima ombra, l’ultima canzone dell’album, un minimo quadretto folk, la marcetta funebre che segna la fine di questo viaggio e di ogni viaggio.
Quando la puntina si ferma rimane l’impressione che diventare grande – un uomo, un padre, un artista – sia ciò che più spaventa e, allo stesso tempo, affascina Andrea Laszlo De Simone. Così, Una lunghissima ombra sembra usare il trampolino del dolore privato per penetrare nel midollo del mondo, lo fa con la sua musica elegiaca, raffinata e ingenua allo stesso tempo, sempre coraggiosa e incosciente, sempre vera. Quell’ombra inesausta che rimane nelle nostre orecchie, ascolto dopo ascolto, prende la forma di una domanda che interroga direttamente il mondo e la nostra storia: non sarà proprio questo privato irrisolto, in costante conflitto con il sé, con il dolore dell’esistere e la prospettiva di una morte certa, non sarà proprio quel privato compassionevole, un punto di vista privilegiato sull’odierno? Un privato che si fa grumo assoluto di umanità, attraverso il suono, un punto d’incontro, inalienabile e universale, come un’ombra che ci avvolge, ci inquieta e ci rasserena.
Fotografia di Giorgia Bellotti