Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza.
Funghi in città, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (novembre 1963), p. 3Italo Calvino
60 anni dopo, settimana più, settimana meno.
Non chiamatemi Marcovaldo — o Marco o Valdo — e non mi tediate con queste cose letterarie, lo sapete che non me ne intendo. Se proprio dovete farlo, se proprio non potete resistere alla tentazione di rivolgervi a me usando quel nome lì — che poi che razza di nome sarebbe? — accomodatevi pure, ché il mondo è pieno di gente che parla da sola e ride controvoglia.
Sofia, la mia collega, dice che glielo ricordo, che le sembra di rivedere in me questo Marcovaldo con cui sostiene di essere cresciuta. “La mia prima lettura, la mia prima avventura”, dice e sospira. La ascolto senza capire, in fondo è una brava ragazza.
Il mio nome è Ahmed e non credete che sia un nome facile da portare in giro, non è mica un cagnolino come quelli che certe ragazze col trucco pesante portano nella borsetta, non è mica un orpello il mio nome e che significhi “lodatissimo” forse nemmeno lo sapete e forse poco importa.
Che poi chi era questo tale Marco o Valdo non saprei mica, so solo che andava in giro e gli capitavano cose e le stagioni cambiavano mentre gli capitavano cose. Avventure, le definisce Sofia, piccole avventure quotidiane condite di poesia. Ecco, allora so per certo di non essere questo Valdo di cui non fa che parlare perché a me succede ben poco, del resto cosa volete che succeda a un povero Cristo con una bicicletta sfondata, una famiglia da mantenere e un lavoro fetido. Nessuna avventura per un Ahmed qualunque, nulla da raccontare.
“La notte durava venti secondi, e venti secondi il GNAC”. Sarà pure una brava ragazza questa Sofia, sarà pure una delle poche persone che mi rivolge la parola sorridendo in questa cittadina senza arte né parte, ma quando dice certe cose resto lì a guardarla con la bocca come quella che fanno i pesci nell’acquario. Venti secondi, dice lei. Pagherei per vedere quelle punte di spillo che voi chiamate stelle per venti secondi filati; anche la Luna da queste parti sembra stilizzata, la caricatura di una falce dorata.
Nessuna avventura, nessuna stella a impolverare il cielo per gente come me, solo luci al neon, nebbia bassa e puzza di zona industriale.
“Questi bambini avrebbero bisogno di respirare un po’ d’aria buona”, dice il medico. Buona da mangiare?, ha chiesto mia moglie. Buona com’è buona Sofia, penso mentre l’odore di cibo in putrefazione e larve si leva dai cassonetti che svuotiamo, io e Sofia, lei declamando parole evocative ma prive di senso, io cercando di trattenere il respiro.
E non venitemi a parlare di pertugi, tarli e tafani a dorso di cavallo ché da queste parti di cose del genere non se ne vede neanche l’ombra. Solo zanzare, fameliche e invadenti zanzare che divorano le caviglie in questo ottobre troppo caldo, in questo caldo che sembra non finire mai.
Aria buona, dice il medico. Trovala tu l’aria buona da respirare e quando l’hai trovata mettila in un barattolo o in un contenitore qualsiasi, fammi annusare quest’aria che fa il bene e scordati, l’aria buona dei quartieri lassù, quelli abbarbicati in cima alla collina, dove il cemento diventa sentiero e il grigio lascia il passo al verde acceso. Quell’aria lì, quella che noi Ahmed o Marcovaldo — o Marco o Valdo che dir si voglia — possiamo solo immaginare mentre strusciamo i piedi sull’asfalto e tratteniamo il fiato raccogliendo la vostra merda, che certo non ha il profumo delle rose appena sbocciate.
“Domani mette pioggia”, dice qualcuno affacciandosi all’ingresso di un bar.
“Più che pioggia mette diluvio”.
“Vorrà dire che mangeremo funghi!”, rispose ridendo e guardando il sole sorgere, ancora indeciso se varcare o meno la soglia del bar.
Intanto si suda in questa città maledetta in cui l’umidità rosicchia le ossa e l’estate non vuole saperne di fare le valigie. Non c’è poesia in questo sudore, resta solo timore verso questa natura matrigna, capace di spazzare in un’ora quel che un Ahmed qualsiasi o un tizio di passaggio hanno costruito in anni di fatica e miseria.
Te la prendi con me, ti accanisci contro noi poveri Cristi e non capisci che chi finora ti ha violentata, cara Natura mia, chi ti ha ridotta a Dea senza fedeli, chi ti ha brutalizzata fino a renderti terrorista, chi ti ha fatto questo non sono io, non è nemmeno quel tale Marcovaldo di cui sento tanto parlare e che tanto pare amarti. Te la prendi con noi e ci spazzi via mentre loro se ne stanno lì, arrampicati sul loro cucuzzolo verde a respirare aria buona.