Negli ultimi anni abbiamo visto il susseguirsi di decine di manifestazioni di protesta in tutta Italia. Chiediamo al lettore di sollevarci dalla noiosa elencazione di ogni momento di protesta, ma converrà con noi sul fatto che sono state tante e molto diverse tra loro. Non è questione di ragione o torto, né dei motivi e delle matrici ideologiche o pseudo-ideologiche che le hanno organizzate. La domanda è molto più banale: dove conducono le manifestazioni? Quali obiettivi si pongono e qual è il traguardo ultimo che raggiungono? Dal no-green-pass in tempo di covid fino al no-guerra di sempre, passando per il no-alternanza-scuola-lavoro di qualche mese fa, le manifestazioni sono state descritte e raccontate in lungo e in largo, senza che qualcosa, poi, sia cambiato davvero. È dunque un mero esercizio di democrazia che va tutelato in quanto tale o è uno strumento di cambiamento?
La questione si fa paradossale: nonostante le importanti manifestazioni di ogni genere in tutto il Paese, pochi sono gli obbiettivi reali raggiunti in favore di quella piazza.
Tutti conosciamo i diversi modi d’intendere la piazza. Quella intesa come agorà, come punto d’incontro di molte persone che svolgono le più svariate attività, condotte tutte simultaneamente: un mercato, una banca, un negozio di abbigliamento, un caffè e così via. Poi c’è quella intesa come la Pnice greca, dove ci s’incontrava esplicitamente per un evento alla volta: tendenzialmente per discutere delle faccende più importanti dello Stato (Sennet 2021, 231). La Pnice era una specie di teatro (e non a caso theatron, in greco, significa spazio per osservare) un luogo ordinato, gestito e prevedibile. È paragonabile, per certi versi, al nostro Parlamento.
La piazza, intesa come agorà, diviene talvolta luogo di protesta, forse per una questione meramente di spazio, forse perché la Pnice (il Parlamento) è praticamente inaccessibile.
L’agorà, da sempre deputata allo scambio di beni e servizi, continua ad assolvere alla sua originaria funzione anche per le proteste che ospita, le quali, da spazio di dissenso, si trasformano in semplici e innocui atti di consumo. Questo capita a patto che gli individui, divenuti più consumatori che cittadini consapevoli, sono svuotati della propria originaria identità, attraverso l’imposizione dall’alto di un mono-culturalismo tipico della società dei mercati, cioè dalla società occidentale, dove il dissenso è consentito, certo, ma in una determinata forma accettabile, meglio se silenziosa e non disturbante.
Lo svuotamento dell’identità cammina di pari passo con lo svuotamento del pensiero e con la cultura della repulsione per il conflitto. Una società di consumatori può esistere se si fonda su una società pacifica, senza conflitti, senza che questa società possa essere compromessa da un pensiero alternativo e concorrente. La possibilità di confrontarsi con una “cultura del conflitto” — anche non violento — significa affrontare la sfida di capire chi sono le persone coinvolte, cosa pensano e quali sono i loro interessi. Se in una società cade il conflitto cade il soggetto che richiede il cambiamento.
E questo in Italia è stato reso possibile anche grazie alle leggi anti-manifestazione costruite ad arte contro ogni tipo di dimostrazione del conflitto, dove i risvolti penali (arresto, reclusione, daspo) fanno da deterrente ad ogni tipo di manifestazione che si svolga in modo non previsto, non ordinato, non prestabilito.
La legge 146 del 1990 regolamenta il diritto di sciopero e stabilisce per la prima volta i cosiddetti “servizi pubblici essenziali”, con i quali si “gambizza” lo strumento dello sciopero come atto di conflitto, mettendo al primo posto, sopra ad ogni cosa, la cosiddetta pace sociale. In poche parole s’imbriglia la protesta per salvaguardare quei servizi essenziali del cittadino, separando di fatto, per legge, la protesta dalla vita civile. Un principio di civilizzazione del conflitto (per usare un termine caro ad Aris Accornero) (Santoro, Passarelli, 2018, 314). Anche in Francia esiste una legge simile, ma senza questa limitazione. Un francese infatti si domanderebbe per quale motivo, noi italiani, continuiamo a definirlo ‘sciopero’ se i lavoratori, durante un’astensione collettiva, sono tenuti ad assicurare 6 ore di servizio completo. Nel mese di aprile del 2018, per protestare contro le riforme attuate dal Presidente Macron, è stato proclamato un grande sciopero dei treni destinato a protrarsi, ad intermittenza, per tre mesi e a paralizzare il Paese, e si è, inoltre, assistito ad un blocco pressoché totale del sistema aeroportuale.
All’italianissima legge 146, con le sue estenuanti lungaggini (ad esempio nei servizi pubblici essenziali, la legge 146 prima, e la 83/2000 dopo, richiedono un preavviso minimo di 10 giorni) sono seguiti, recentemente, i Decreti Sicurezza che hanno fatto scivolare definitivamente il picchettaggio da reato amministrativo a reato penale. Non mancheranno altri ottimi esempi nel futuro che ci aspetta, seguiteci per altri consigli! Per ora comprendiamo che queste leggi, scoraggiando talune modalità di protesta, di fatto smorzano ogni evoluzione del conflitto, con il fine di mantenere la pace sociale, meglio conosciuta come status quo. Le cose non devono cambiare e il cittadino ha fatto propria la convinzione – sottolineo convinzione – che non possano cambiare.
Per cui si manifesta per tutto ciò che è importante certo, ma che di fatto non sposta di una virgola gli assetti sociali, cioè quelli dai quali discendono tutti gli altri. Ci si sbraccia per il diritto degli affittuari di avere con sé un animale domestico in casa, ma si accetta di buon grado il fatto che il 5% dei cittadini italiani detiene quasi il 50% delle ricchezze nazionali (Banca d’Italia, 2024). Ci si indigna per le braccia tese di Acca Larentia, ma si continua a bisbigliare sulla crisi abitativa per le giovani generazioni. Migliaia di firme per il giustissimo congedo parentale ai papà, ma nessuna manifestazione che richieda un programma serio per la costruzione di asili nido pubblici, gratuiti e accessibili. Non solo le istanze sono morbide con il sistema, ma la loro compostezza non è per esso per nulla disturbante. Se fosse tale, le manifestazioni in stile ‘gita a Lourdes’ diverrebbero qualcosa di rischioso e il rischio, per il cittadino-consumatore, non è accettabile se include sé stesso.
Per questo per lui diventa ripugnante qualsiasi modello di protesta che travalichi il consenso del potere, che scavalchi la recinzione della desiderabilità sociale. Eppure oltre quella recinzione qualcuno si è spinto durante la storia, che egli fosse dalla parte giusta o da quella sbagliata.
Gli incessanti sforzi del movimento Palestine Action nel prendere di mira la Elbit Systems, l’azienda di armamenti israeliana, ha portato al raggiungimento di un obiettivo non indifferente: la perdita di 6 milioni di sterline durante la vendita della controllata britannica di Elbit. Quello che ha fatto il movimento pro-Palestina è stata l’evoluzione strategica dell’attivismo, passando dalla semplice mobilitazione alla disobbedienza civile di tipo dirompente e a dir poco disturbante. Le loro azioni hanno portato, nel tempo, a danni concreti e significativi alla fabbrica, alla chiusura temporanea e alla riduzione del valore della vendita della filiale da parte di Elbit. Nonostante l’opposizione della polizia locale, il gruppo ha persistito e intensificato le proteste settimanali, ottenendo una vittoria importante. Se chi ha appena letto questo esempio ha provato repulsione per queste azioni, sappia solo che è normale per il cittadino-consumatore ritenere più ripugnante un’azione contro una fabbrica di armi piuttosto che l’esistenza stessa di una fabbrica di armi. Il cittadino-consumatore ripudia e svaluta ogni iniziativa che sia oltre la sua portata d’immaginazione.
Avviene nella sua mente e nella sua cultura una sorta di svalutazione del mezzo della manifestazione in sé che, a poco a poco, perde quel suo valore di novità e di unicità, nonchè di disturbo. La sua manifestazione possiede un carattere docile, che è involuto in un qualsiasi altro evento di minore importanza, di pura cronaca da raccontare e raccontarsi. Il tutto sfuma in una narrazione utile solo a se stessa, con un inizio, uno svolgimento e una fine, banalmente degna di nota, buona per essere scritta e forse anche letta e poi terminata, come si chiude l’ultima pagina di un quotidiano.
Quel momento di protesta, di esigenza o di denuncia non era altro che uno spettacolo fine a se stesso, certo con elementi di riflessione importanti e forse urgenti, ma come fa lo spettatore dopo la fine di un film al cinema torna a casa pensando agli impegni del giorno dopo. Il manifestante di oggi diventa il protagonista brevi spatio di un evento al quale partecipa non tanto come attore, quanto invece come spettatore che consuma il proprio momento, come una serata al cinema o a teatro, come un gruppetto di amici che ordina una birra in un qualsiasi pub o paga il biglietto per un museo in centro. Social-network alla portata di mano, naturalmente.
Cosa resta dunque di quella piazza se non la soddisfazione, del tutto personale, di avervi aderito? Non si pensi che sia l’ennesima riprova della distanza delle piazze dai Palazzi, delle masse dalla politica: diventa più che altro la coagulazione del mezzo e del fine nel medesimo atto. La protesta diventa il fine ultimo dell’atto stesso di protestare, la piazza diviene il luogo dove quelle richieste si consumano e si dissipano, dove tutti torneranno nelle loro case ad organizzare la successiva adunata in compagnia, in un reality-show periodico, che viene rinnovato ogni anno con una nuova e banale riedizione dal patetico sapore da petits bourgeois. L’incapacità, l’inerzia e la pigrizia di rinnovare lo strumento della piazza – e con esse le nostre discutibili certezze sulla libertà d’espressione – tradiscono la piazza stessa e il suo essere mezzo reale di cambiamento.
Non vorremmo generalizzare: non tutti gli atti di ribellione sono allo stesso tempo atti di consumo, semmai lo diventano più facilmente nel mondo occidentale contemporaneo, governato da un particolare nichilismo passivo capace di tritare anche le masse potenzialmente pensanti, trasformandole in un mucchio indefinito di utenti, il cui unico valore è il consumo. Più in particolare il consumo del proprio tempo e, con esso, il deterioramento dei valori e degli obiettivi che spingono dal profondo l’organizzazione di quella ribellione. In altre parole, i singoli individui percepiscono che qualcosa di sbagliato esiste, s’indignano per questo, ma individuano come prioritario il soddisfacimento di un altro valore, particolarmente più adatto al consumo, ovvero la fruizione del tempo della ribellione e la sua trasfigurazione in semplice status symbol da esporre, rivendicare e condividere, senza alcun sacrificium per la causa o per un valore più alto. Mettete a paragone una piazza europea per i diritti delle donne con la stessa piazza in Iran, ad esempio. Qui da noi le cose perdono qualsiasi significato. Per buona pace del potere.
- Richard Sennet, 2021, Costruire e Abitare, etica per la città, Feltrinelli.
- Santoro, Passarelli, 2018, Discorso in tema di rappresentatività e legittimazione al conflitto nei servizi pubblici essenziali, in Realtà e Forma, Giappichelli
- Banca d’Italia, 2024, Distributional Wealth Accounts.
- https://www.palestineaction.org/recruiters-drop-elbit/