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Dicembre
8 Dicembre 2025

LA VIA DEL­LE RETI

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Sei.

L’erba mi sfio­ra le cavi­glie.

Si pie­ga, si rial­za. A sten­to supe­ra i miei cal­zi­ni.

Il ven­to pro­va a rad­driz­zar­la, ridar­le la for­ma di un tem­po, quan­do anco­ra i fili luc­ci­ca­va­no come pie­truz­ze d’agata.

Come se potes­se basta­re. Chis­sà quan­te scar­pe ci sono pas­sa­te sopra.

Su que­sto pra­to ci devo esse­re cadu­to anch’io. Gio­ca­va­mo a pal­la, aspet­tan­do che qual­cu­no venis­se a pren­der­ci.

Che sci­vo­lo­ni. Quan­ti pas­sag­gi sba­glia­ti.

E quan­ti Super Tele bacia­ti dal­la spu­ma del mare.

Ride­va­mo sen­za sape­re per­ché.

Come se tut­to, anche cade­re, anche per­der­si, fos­se un modo per resta­re anco­ra­ti.

Mez­zi nudi, con l’aria geli­da a riz­za­re i peli del­le brac­cia.

Mam­ma si arrab­bia­va quan­do tor­na­vo a casa tut­to tre­mo­lan­te. Per­lo­me­no ci pro­va­va.

Non­no ride­va:

— Sapes­si quan­te vol­te ci hai fat­to sta­re in pen­sie­ro te.

Lei scuo­te­va la testa. Cam­bia­va argo­men­to:

— Pre­so qual­co­sa oggi?

— Qual­co­sa.

I lec­ci si pie­ga­no un altro po’.

La stra­da ver­so la riva rie­cheg­gia mesta ma inces­san­te, come un respi­ro not­tur­no.

Se stes­se zit­ta, potrei con­ta­re le onde.

Una alla vol­ta. Arri­va­no, si pre­sen­ta­no e si spen­go­no per sem­pre.

Set­te.

Non­no e il suo ami­co pesca­va­no con la balan­za, una sera sì e due no.

Più di una vol­ta ha pro­va­to a inse­gnar­mi.

Lui in bar­chi­no. Io sul­la riva.

La rete tra le mani. Stret­ta.

Un gior­no for­se ci sarem­mo scam­bia­ti di posto.

Quan­do le sue ginoc­chia non avreb­be­ro più ret­to l’umidità degli sti­va­li.

Un testa­men­to che avrei dovu­to pas­sa­re a qual­cun altro dopo di me.

Quel pri­mo ten­ta­ti­vo me lo ricor­do.

Non si par­la­va da gior­ni. Nem­me­no a tavo­la.

Il suo ami­co ave­va tos­si­to per l’ultima vol­ta.

Mai lo vidi pian­ge­re.

Mai. Solo lun­ghi silen­zi, guar­dan­do la via che por­ta alla dar­se­na.

Un film pro­iet­ta­to nei suoi occhi ceru­lei. Risa­te, liti­gi, ore in bar­ca schie­na con­tro schie­na.

Foto mai svi­lup­pa­te, chiu­se a chia­ve den­tro a quel respi­ro mai arri­va­to in gola.

Quel­la sera al lar­go por­tò me.

Par­la­va e par­la­va. Sen­za fer­mar­si. Ogni det­ta­glio.

Come se il silen­zio ora all’improvviso gli faces­se pau­ra.

Mi tre­ma­va­no le mani. La rete si con­tor­ce­va come se non voles­se far­si pren­de­re.

Sor­ri­de­va, dice­va che non impor­ta­va.

A tavo­la si sie­de sem­pre nel­lo stes­so posto.

Per­pen­di­co­la­re alla viot­to­la. Accan­to a lui, la sedia vuo­ta. Quel­la dell’ ami­co.

Lì dove sta­va il com­pa­gno di mil­le tra­mon­ti.

Otto.

I tiran­ti metal­li­ci sbat­to­no sui pochi albe­ri rima­sti a gal­leg­gia­re. Rego­la­ri, ma rispet­to­si.

Sem­pre meno bar­che attrac­ca­no qui. Sen­za fare gran­de bac­ca­no se ne sono anda­ti qua­si tut­ti. Un ulti­mo eso­do di otto­bre, lapi­da­rio.

Uno alla vol­ta.

Pri­ma quel­li che par­la­va­no trop­po. Poi quel­li che par­la­va­no poco.

Qual­cu­no è spa­ri­to d’inverno, qual­cu­no non ha fat­to in tem­po a salu­ta­re.

Il bar è anco­ra in pie­di, ma non ha più nes­su­no da ascol­ta­re.

Resta solo l’insegna, rosic­chia­ta dai bala­ni.

L’odore di fumo si è fer­ma­to sul pavi­men­to. Si è uni­to alla neb­bia del­la lagu­na.

Le cre­pe del ban­co­ne han­no inghiot­ti­to cen­ti­na­ia di paro­le, mani ruvi­de, sto­rie rac­con­ta­te a voce trop­po alta. 

La pri­ma siga­ret­ta l’ho fuma­ta die­tro quel bar.

Fer­ra­go­sto.

Con i più gran­di. Figli di nes­su­no, qual­che turi­sta del vero nord spen­na­to dall’ affit­ta­ca­me­re del­la pine­ta.

Era impos­si­bi­le cam­mi­na­re tra le vie del pae­se in quel­le set­ti­ma­ne.

Fin­ché le vetri­ne si spe­gne­va­no, i risto­ran­ti si ammu­to­li­va­no e tut­ti cor­re­va­no ver­so la riva.

Un uni­co calo­re. Stret­ti nel buio.

Poi i bot­ti.

Le luci.

I visi a inter­mit­ten­za, qua­si ad applau­di­re il cie­lo.

Noi un po’ più in là. Appog­gia­ti al muro.

Con­ta­va­mo i vol­ti nuo­vi. Con la siga­ret­ta tra le dita.

Ogni ago­sto aspet­ta­va­mo che qual­co­sa cam­bias­se.

Ma l’estate tor­na­va ugua­le. Sem­pre ugua­le.

Stes­sa luce bian­ca sul molo. Stes­se can­zo­ni dal­le fine­stre.

La gen­te cam­bia­va, l’attesa no.

Arri­va­va­no e se ne anda­va­no. Lascian­do­ci di tan­to in tan­to qual­che bacio.

Fin­ché me ne sono anda­to pure io.

Nove.

— Aspet­ta­mi qui. Non ci vor­rà mol­to.

Lo dice­va sem­pre. Una sera sì e due no.

Pri­ma di incam­mi­nar­si sul­la via del mare.

— Set­te e die­ci. Mas­si­mo set­te e un quar­to.

E tor­na­va sem­pre.

Tran­ne quel­la vol­ta.

La bar­ca si era fer­ma­ta in mez­zo alla sec­ca.

Li ripre­se­ro i cara­bi­nie­ri.

Mam­ma non ci vede­va tor­na­re. Qua­si sven­ne dal­la pau­ra.

— Mi ave­va det­to di aspet­ta­re qui.

Que­sto devo aver det­to, quan­do mi tro­va­ro­no.

Sedu­to nell’ erba. Le gam­be divo­ra­te dal­le zan­za­re.

Anche quel­la sera, alla fine, è tor­na­to.

In ritar­do. Ma è tor­na­to.

Die­ci.

Non mi piac­cio­no le reti a bilan­cia.

Sono sco­mo­de. Inef­fi­cien­ti. Ingo­ver­na­bi­li.

— Le usa­no da tre­cen­to anni, ci sarà un moti­vo.

Le giu­sti­fi­ca­va Non­no. Ogni vol­ta.

— Dava­no da man­gia­re a mio padre. E ora anche a te. Per­ché cam­biar­le?

Io intan­to leg­ge­vo e impa­ra­vo nuo­ve tec­ni­che.

Fibre di car­bo­nio. Reti a tra­ma fit­ta.

Inven­zio­ni più o meno lega­li che si tra­mu­ta­va­no in sofi­smi ingar­bu­glia­ti.

Nien­te. Tem­po per­so.

Balan­za in set­ti­ma­na. Len­za il saba­to.

Pran­zo a mez­zo­gior­no. Film di Giu­lia­no Gem­ma alle tre e mez­za.

Cena alle otto. Un bacio in fron­te a Non­na.

E tut­to da capo.

Nel pae­se accan­to c’era un nego­zio spe­cia­liz­za­to, tra il pani­fi­cio e il cam­pa­ni­le.

Ami. Can­ne. Esche. Un calei­do­sco­pio di lustri­ni e oppor­tu­ni­tà.

Ave­vo otto anni. Mi lasciò sce­glie­re tut­to. Spe­se un patri­mo­nio.

Quel pome­rig­gio aggrap­pai all’amo un subac­queo, che si por­tò a riva ogni sin­go­lo cen­te­si­mo.

Pian­si per ore.

Lui si tene­va la pan­cia dal­le risa­te:

— Alme­no novan­ta chi­li alla pri­ma pesca­ta!

Dodi­ci.

Le ombre si allun­ga­no.

Tre­di­ci.

In fon­do alla via le onde leg­ge­re si infi­la­no tra gli albe­ri.

Fra poco lo vedrò. Arri­ve­rà tra i lec­ci.

Lo scric­chio­lio dei rami. Il pas­so pesan­te. Le dita spor­che.

Cam­mi­ne­rà len­to. Col peso del­la fati­ca river­sa­ta sul­le spal­le.

La schie­na cur­va. I pochi capel­li spet­ti­na­ti.

Tra le dita ciò che resta del­la rete a maglia gros­sa.

Un gro­vi­glio sbrec­cia­to da rin­cal­za­re una vol­ta tor­na­ti a casa. Un labi­rin­to per la memo­ria.

Quat­tor­di­ci.

Quin­di­ci.

Non ricor­do cosa ci sia­mo det­ti, l’ultima vol­ta.

For­se gli ho par­la­to del nuo­vo lavo­ro.

For­se sta­vo solo per andar­me­ne.

Via dal­la lagu­na.

Lui ha guar­da­to me.

Poi l’orizzonte.

Face­va sem­pre così, quan­do non tro­va­va le paro­le.

Fis­sa­va qual­co­sa per un atti­mo solo, giu­sto il tem­po di capir­ne i bor­di, il colo­re.

Poi gli occhi sci­vo­la­va­no altro­ve.

Abbia­mo smes­so di par­lar­ci. Poco a poco.

Una vol­ta l’anno. Qual­che augu­rio di Nata­le.

Mai un liti­gio. Solo distan­za.

Non c’era più tem­po nean­che per i silen­zi.

Sì, deve aver­me­lo chie­sto.

Se era dav­ve­ro quel­lo che vole­vo.

Ma non ricor­do la sua voce.

E nem­me­no la mia.

Sedi­ci.

I fio­ri di gli­ci­ne han­no coper­to com­ple­ta­men­te la via.

Gal­leg­gia­no nell’etere sen­za un prin­ci­pio o una fine. Come neve, vol­teg­gia­no

pri­ma ver­so il bas­so, poi di nuo­vo all’insù. Sem­bra­no lot­ta­re, fan­no di tut­to per non toc­ca­re

ter­ra. Il ven­to li accom­pa­gna alla fine del­la via, dove cre­do ci sia anco­ra il mare.

Por­ta con sé l’odore umi­do dell’acqua e lo stra­sci­chìo del­le reti da pesca.

Si tor­na­va a casa, e tut­to era pron­to a rico­min­cia­re.

Ora, sola­men­te gli echi.

Qual­co­sa che anco­ra c’è.

E vor­rei non ci fos­se più.

Dicias­set­te.

Diciot­to.

Foto­gra­fia di Gia­co­mo Bian­co

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