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Novembre
27 Novembre 2025

IMMA­GI­NA­RE UNA SCIEN­ZIA­TA

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Che aspet­to ha una per­so­na che si occu­pa di scien­za? Secon­do i bias del­la media del­le per­so­ne, e in par­ti­co­la­re dei bam­bi­ni e del­le bam­bi­ne, la rispo­sta è per lo più: l’aspetto di un uomo. 

Que­sta doman­da ha gui­da­to la ricer­ca del socio­lo­go David Cham­bers, idea­to­re del test Draw a scien­ti­st (DAST). Nel 1983, Cham­bers rese pub­bli­ci i risul­ta­ti emer­si in segui­to alla som­mi­ni­stra­zio­ne del test tra il 1966 e il 1977 a un cam­pio­ne di 5.000 bam­bi­ni e bam­bi­ne tra i 5 e gli 8 anni, resi­den­ti in Cana­da e negli Sta­ti Uni­ti. La doman­da posta era sem­pli­ce: dise­gna­re una per­so­na che fa scien­za. I risul­ta­ti furo­no altret­tan­to chia­ri: solo 28, lo 0,6% del cam­pio­ne, dise­gna­ro­no una don­na. Per tut­ti gli altri, gli scien­zia­ti era­no uomi­ni dai capel­li bian­chi e scom­pi­glia­ti con un cami­ce addos­so (Cham­bers 1983). 

Nei decen­ni suc­ces­si­vi, il DAST si è tra­sfor­ma­to in uno stru­men­to di ricer­ca soli­do e con­so­li­da­to, per­met­ten­do­ci anco­ra oggi di son­da­re l’immagine del­le per­so­ne di scien­za nel­la fan­ta­sia dei bam­bi­ni e del­le bam­bi­ne. Una meta-ana­li­si su 78 stu­di con­dot­ti su 20.000 bam­bi­ni e ado­le­scen­ti tra il 1985 e il 2016 mostra che la per­cen­tua­le di bam­bi­ni e bam­bi­ne che dise­gna­no una don­na è sali­ta nel tem­po, pas­san­do dal 22% del 1985 al 34% del 2016. Secon­do l’analisi, tut­ta­via, a dise­gna­re scien­zia­te sono soprat­tut­to le fem­mi­ne: nel­la mag­gior par­te dei casi, i bam­bi­ni dise­gna­no scien­zia­ti maschi. Que­sto ste­reo­ti­po ten­de inol­tre a raf­for­zar­si con l’età: i dise­gni di scien­zia­te don­ne risul­ta­no meno fre­quen­ti quan­do il test vie­ne som­mi­ni­stra­to a stu­den­ti del­le supe­rio­ri (Mil­ler 2018). 

Que­sti risul­ta­ti sem­bre­reb­be­ro indi­ca­re un cam­bia­men­to posi­ti­vo: imma­gi­na­re una scien­zia­ta oggi è più faci­le rispet­to a cinquant’anni fa. Gli stu­di con­dot­ti sul­lo ste­reo­ti­po del­la per­so­na di scien­za, tut­ta­via, ci mostra­no che sia­mo anco­ra lon­ta­ni dall’uguaglianza di gene­re quan­do guar­dia­mo più da vici­no gli arche­ti­pi degli scien­zia­ti e del­le scien­zia­te: uomi­ni e don­ne nel­la scien­za ven­go­no tut­to­ra per­ce­pi­ti in modo net­ta­men­te dif­fe­ren­te. Uno stu­dio esten­si­vo con­dot­to dal Poli­tec­ni­co di Mila­no su oltre 100 papers dedi­ca­ti alla rap­pre­sen­ta­zio­ne ste­reo­ti­pi­ca del­lo scien­zia­to con­clu­de che non solo, ad oggi, le per­so­ne di scien­za nei bias dell’opinione pub­bli­ca sono anco­ra per lo più uomi­ni, ma anche che l’immaginario lega­to alle scien­zia­te don­ne rical­ca gli ste­reo­ti­pi maschi­li, non riu­scen­do ad acqui­si­re un’identità defi­ni­ta. Gli scien­zia­ti sono con­si­de­ra­ti nerd, poco attraen­ti, poco socie­vo­li, paz­zi ma genia­li; men­tre le scien­zia­te ven­go­no ritrat­te come accon­di­scen­den­ti, ami­che­vo­li, socie­vo­li e spes­so subor­di­na­te a un uomo (Maz­zu­chel­li & Ros­si-Lama­stra 2025). 

Secon­do gli auto­ri del­la ricer­ca, gli ste­reo­ti­pi potreb­be­ro esse­re raf­for­za­ti dal­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le scien­zia­te nei media main­stream. Que­sto tema è sta­to esplo­ra­to dal­la socio­lo­ga Eva Flic­ker in un arti­co­lo com­par­so sul­la rivi­sta Public Under­stan­ding of Scien­ce nel 2003, incen­tra­to sull’analisi di un cam­pio­ne di film pro­dot­ti nel XX seco­lo in cui com­pa­io­no per­so­nag­gi di scien­zia­te. Flic­ker indi­vi­dua sei cate­go­rie ste­reo­ti­pa­te in cui clas­si­fi­ca le scien­zia­te dei film ana­liz­za­ti: la vec­chia zitel­la, un per­so­nag­gio total­men­te dedi­to al lavo­ro che man­ca del­le tipi­che carat­te­ri­sti­che fem­mi­ni­li, tra cui la capa­ci­tà di esse­re attraen­te per un uomo; la don­na-uomo, in tut­to e per tut­to simi­le ai suoi col­le­ghi maschi, sia nell’aspetto che nell’atteggiamento, ma dota­ta di un intui­to fem­mi­ni­le che spes­so si rive­la la car­ta vin­cen­te per risol­ve­re i pro­ble­mi; l’esper­ta inge­nua, una gio­va­ne don­na bril­lan­te, ma che spes­so ha biso­gno del­la gui­da maschi­le per inca­na­la­re il suo lavo­ro; la mal­va­gia cal­co­la­tri­ce pron­ta a tut­to per rag­giun­ge­re i suoi obiet­ti­vi, anche a usa­re il ses­so per mani­po­la­re gli avver­sa­ri; la figlia o assi­sten­te, sem­pre subor­di­na­ta a un per­so­nag­gio maschi­le di scien­zia­to; infi­ne, l’eroi­na soli­ta­ria, ste­reo­ti­po del­la scien­zia­ta per­fet­ta, sin­te­si tra bril­lan­te com­pe­ten­za e con­sa­pe­vo­lez­za del­la pro­pria fem­mi­ni­li­tà (Flic­ker 2003). 

Il tema di ricer­ca è sta­to ripre­so e amplia­to nel 2017 da uno stu­dio del­le ricer­ca­tri­ci Stein­ke e Pania­gua Tava­rez. L’analisi di film pro­dot­ti tra il 2002 e il 2014 ha per­mes­so di aggiun­ge­re alcu­ni tas­sel­li al qua­dro deli­nea­to da Flic­ker: in par­ti­co­la­re, la rap­pre­sen­ta­zio­ne iper-ses­sua­liz­za­ta del­le scien­zia­te, gene­ral­men­te inter­pre­ta­te da attri­ci mol­to attraen­ti, e l’incompatibilità tra lavo­ro e fami­glia, con una qua­si tota­le assen­za di madri che lavo­ra­no nel­la scien­za. 

Nei gran­di clas­si­ci del­la let­te­ra­tu­ra fan­ta­scien­ti­fi­ca, uno degli arche­ti­pi più noti di scien­zia­ta è Susan Cal­vin, la psi­co­lo­ga dei robot idea­ta da Isaac Asi­mov e com­par­sa per la pri­ma vol­ta nel rac­con­to Bugiar­do! (Asi­mov 1941). Cal­vin vie­ne descrit­ta come una don­na bril­lan­te, ma mol­to fred­da. In diver­si rac­con­ti affer­ma di ama­re i robot più del­le per­so­ne, per­ché inca­pa­ci di men­ti­re, e anche quan­do pro­va sen­ti­men­ti di amo­re e cura, come nel rac­con­to Len­ny (Asi­mov 1958), que­sti sono rivol­ti ver­so i robot, non ver­so esse­ri uma­ni. 

Pro­ba­bil­men­te, nel­le inten­zio­ni dell’autore, Cal­vin è un per­so­nag­gio posi­ti­vo e d’ispirazione: men­te bril­lan­te e genia­le, capa­ce di far­si stra­da in un cam­po domi­na­to dagli uomi­ni, in gra­do di risol­ve­re pro­ble­mi com­ples­si lega­ti alla men­te dei robot. Que­sta estre­ma per­for­ma­ti­vi­tà nel mon­do del lavo­ro, tut­ta­via, vie­ne rag­giun­ta a sca­pi­to di qual­sia­si com­pe­ten­za socia­le ed emo­ti­va del per­so­nag­gio, al pun­to che Cal­vin sem­bra più simi­le ai suoi ama­ti robot che agli esse­ri uma­ni. Un per­so­nag­gio ispi­ran­te, quin­di, ma poco con­cre­to, in cui non è faci­le iden­ti­fi­car­si per le bam­bi­ne e le ragaz­ze che si avvi­ci­na­no alla scien­za. 

E la capa­ci­tà di iden­ti­fi­car­si nei per­so­nag­gi è un pun­to cru­cia­le del­la que­stio­ne. Nel sag­gio Oltre Marie. Pro­spet­ti­ve di gene­re nel­la scien­za, Edwi­ge Pez­zul­li e Nastas­sja Cipria­ni evi­den­zia­no tra i fat­to­ri prin­ci­pa­li che por­ta­no le don­ne ad abban­do­na­re le car­rie­re lega­te a scien­za e tec­no­lo­gia pro­prio il sen­so di non appar­te­nen­za alla comu­ni­tà scien­ti­fi­ca. Le scien­zia­te, cioè, ten­do­no più dei loro col­le­ghi uomi­ni a sen­tir­si al mar­gi­ne, del­le intru­se nel cam­po in cui stu­dia­no o lavo­ra­no. Que­sta sen­sa­zio­ne si accom­pa­gna a una mag­gio­re ten­den­za a pro­va­re la sin­dro­me dell’impostore ed è ali­men­ta­ta dal­la man­can­za di role model posi­ti­vi e rea­li­sti­ci in cui le don­ne nel­la scien­za pos­sa­no rico­no­scer­si (Cipria­ni e Pez­zul­li 2023). Le con­se­guen­ze sono con­cre­te: le don­ne ten­do­no a fare meno doman­de duran­te i con­ve­gni, evi­ta­no di pro­por­re i loro arti­co­li alle rivi­ste più pre­sti­gio­se, assu­mo­no un ruo­lo subor­di­na­to duran­te i col­lo­qui con i supe­rio­ri. Tut­to que­sto ha un impat­to rea­le sul ‘sof­fit­to di cri­stal­lo’ del­la scien­za, l’insieme di osta­co­li mate­ria­li e cul­tu­ra­li che impe­di­sco­no l’avanzamento del­le car­rie­re del­le don­ne. 

E come potreb­be­ro, dopo­tut­to, le gio­va­ni don­ne rico­no­scer­si e sen­tir­si rap­pre­sen­ta­te in un set­to­re in cui gli ste­reo­ti­pi domi­nan­ti vor­reb­be­ro spin­ger­le ad abban­do­na­re ogni aspet­to ste­reo­ti­pi­ca­men­te lega­to alla fem­mi­ni­li­tà come l’empatia, la rela­zio­ne e la cura per emer­ge­re e asso­mi­glia­re ai loro model­li?

Affer­ma­re che le scien­zia­te dovreb­be­ro ave­re più model­li che si con­for­mi­no agli ste­reo­ti­pi fem­mi­ni­li del­la cura e dell’empatia potreb­be sem­bra­re una pro­vo­ca­zio­ne, ma è una pro­po­sta che rispon­de ad alme­no due esi­gen­ze con­cre­te. La pri­ma è quel­la di eli­mi­na­re nel minor tem­po pos­si­bi­le gli osta­co­li che impe­di­sco­no alle gio­va­ni don­ne di imma­gi­nar­si come scien­zia­te e se rap­pre­sen­ta­re più scien­zia­te ste­reo­ti­pi­ca­men­te fem­mi­ni­li può aiu­ta­re a rag­giun­ge­re que­sto risul­ta­to, for­se è una stra­da che vale la pena pro­va­re a per­cor­re­re. 

La secon­da esi­gen­za riguar­da inve­ce in modo più ampio la nostra capa­ci­tà di imma­gi­na­re e rap­pre­sen­ta­re il futu­ro del­la scien­za. La cri­si cli­ma­ti­ca ci met­te ogni gior­no di fron­te all’evidenza che una nar­ra­zio­ne del­la scien­za foca­liz­za­ta sul pre­do­mi­nio e lo sfrut­ta­men­to del­la natu­ra a ogni costo non è più soste­ni­bi­le. Abbia­mo biso­gno che valo­ri come la cura, la rela­zio­ne e l’empatia diven­ti­no carat­te­ri­sti­che cen­tra­li non solo nel­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le scien­zia­te, ma di tut­te le per­so­ne che si occu­pa­no di scien­za. 

Men­tre nel­la fic­tion main­stream que­sta istan­za non ha anco­ra por­ta­to a una pro­du­zio­ne ampia e strut­tu­ra­ta, alcu­ni sot­to­ge­ne­ri del­la fan­ta­scien­za, tra cui la spe­cu­la­ti­ve fic­tion fem­mi­ni­sta degli anni Set­tan­ta e Ottan­ta, con­tri­bui­sco­no già da tem­po a ribal­ta­re i model­li e a pro­por­re nuo­vi approc­ci alla nar­ra­zio­ne del­la scien­za. 

Pro­prio negli anni in cui Cham­bers por­ta­va avan­ti il suo Draw A Scien­ti­st Test, infat­ti, que­sta cor­ren­te let­te­ra­ria met­te­va atti­va­men­te in discus­sio­ne gli ste­reo­ti­pi con cui ci con­fron­tia­mo anco­ra oggi, ride­fi­nen­do radi­cal­men­te il ruo­lo del­le scien­zia­te e del­la scien­za stes­sa nel­la socie­tà. Nel­le sto­rie di autri­ci come Ursu­la K. LeGuin, Mar­ge Pier­cy, Joan­na Russ e Octa­via E. Butler, le inno­va­zio­ni scien­ti­fi­che e tec­no­lo­gi­che han­no un ruo­lo non solo in quan­to sfi­da sen­sa­zio­na­li­sti­ca ai limi­ti dell’ingegno uma­no, ma soprat­tut­to come mez­zi per ana­liz­za­re cri­ti­ca­men­te la socie­tà, l’etica e le dina­mi­che di pote­re inter­ne alla scien­za. Per que­ste scrit­tri­ci non è par­ti­co­lar­men­te inte­res­san­te rac­con­ta­re come tec­no­lo­gie mol­to avan­za­te sia­no sta­te svi­lup­pa­te e uti­liz­za­te dal­le civil­tà del futu­ro, men­tre con­si­de­ra­no fon­da­men­ta­le inda­ga­re le con­se­guen­ze socia­li e eti­che di tali inno­va­zio­ni. In uno dei gran­di clas­si­ci del gene­re, per esem­pio, La mano sini­stra del buio di Ursu­la K. Le Guin, l’umanità si è espan­sa su altri pia­ne­ti, sbloc­can­do la pos­si­bi­li­tà di viag­gia­re in pun­ti lon­ta­nis­si­mi del­lo spa­zio-tem­po e crean­do una socie­tà inter­ga­lat­ti­ca basa­ta su coo­pe­ra­zio­ne e scam­bio cul­tu­ra­le. Le Guin dedi­ca poco spa­zio a esplo­ra­re i det­ta­gli di que­sta socie­tà e del­le tec­no­lo­gie che l’hanno resa pos­si­bi­le, men­tre con­cen­tra la sua spe­cu­la­zio­ne sul­le nuo­ve for­me di incon­tro con l’Altro che la nuo­va socie­tà ren­de pos­si­bi­li (Le Guin 1969). 

In que­ste ope­re, le scien­zia­te acqui­si­sco­no pote­re pro­prio per­ché rie­sco­no meglio del­le loro con­tro­par­ti maschi­li a far­si por­ta­vo­ce di valo­ri essen­zia­li per un futu­ro uto­pi­co e con­di­vi­so. Nel roman­zo Don­na sul filo del tem­po, per esem­pio, Mar­ge Pier­cy intro­du­ce una socie­tà uto­pi­ca futu­ri­sti­ca in cui la pari­tà di gene­re si accom­pa­gna in modo inter­se­zio­na­le alla soste­ni­bi­li­tà e al rispet­to dell’ambiente. Qui le don­ne scien­zia­te non sono figu­re iso­la­te di genio, ma una par­te inte­gran­te di un impe­gno col­let­ti­vo per la soste­ni­bi­li­tà e la giu­sti­zia socia­le (Pier­cy 1976). 

Tro­via­mo un esem­pio emble­ma­ti­co di scien­zia­ta del­la spe­cu­la­ti­ve fic­tion fem­mi­ni­sta nel­la novel­la La sera, il gior­no e la not­te di Octa­via E. Butler, pub­bli­ca­ta per la pri­ma vol­ta nel 1987.
In quest’opera, il mon­do è afflit­to dal­la dif­fu­sio­ne di una malat­tia dege­ne­ra­ti­va che por­ta i mala­ti a per­de­re pro­gres­si­va­men­te la ragio­ne e a indul­ge­re in atti di auto­le­sio­ni­smo. La pro­ta­go­ni­sta, Lynn, a sua vol­ta infet­ta, incon­tra Bea­tri­ce, fon­da­tri­ce di un arti­co­la­to pro­get­to di cura incen­tra­to sul­la ria­bi­li­ta­zio­ne e lo svi­lup­po del­la crea­ti­vi­tà dei mala­ti. Men­tre nel resto del mon­do i mala­ti ven­go­no trat­ta­ti con assi­sten­ze pal­lia­ti­ve in atte­sa del­la mor­te, nel cen­tro diret­to da Bea­tri­ce rie­sco­no a riap­pro­priar­si in par­te del­la pro­pria vita e del­le pro­prie pas­sio­ni, con­vi­ven­do con la malat­tia e argi­nan­do i suoi aspet­ti più pro­ble­ma­ti­ci. 

Il cari­sma e la capa­ci­tà di lea­der­ship di Bea­tri­ce non sono casua­li. Lei ha infat­ti sco­per­to che le don­ne affet­te dal­la malat­tia emet­to­no un par­ti­co­la­re fero­mo­ne in gra­do di cal­ma­re e con­trol­la­re i pazien­ti. Lynn capi­sce pro­gres­si­va­men­te che in quan­to don­na infet­ta la atten­de un desti­no ine­vi­ta­bi­le: segui­re la stra­da aper­ta da Bea­tri­ce, diven­ta­re un medi­co come lei e usa­re il pro­prio pote­re per con­tri­bui­re al pro­gres­so del­la scien­za e al benes­se­re dell’umanità (Butler 1987). 

Ne La sera, il gior­no e la not­te le scien­zia­te non offro­no solu­zio­ni per eli­mi­na­re un pro­ble­ma, ma si impe­gna­no a inve­sti­re la pro­pria vita nel ten­ta­ti­vo di gestir­lo. Bea­tri­ce è una figu­ra com­ples­sa e stra­ti­fi­ca­ta, in cui la voca­zio­ne scien­ti­fi­ca ver­so la cura si uni­sce al sen­so di respon­sa­bi­li­tà per la comu­ni­tà di cui fa par­te. Può esse­re inte­res­san­te nota­re come, nel fina­le del­la novel­la, l’acquisizione di pote­re da par­te di Lynn, cui il futu­ro pro­spet­ta un ruo­lo domi­nan­te nel­la socie­tà, por­ta a un raf­fred­da­men­to dei suoi rap­por­ti con il com­pa­gno: il model­lo alter­na­ti­vo di scien­zia­ta pro­po­sto da Butler fati­ca a inse­rir­si nel­la socie­tà patriar­ca­le sen­za scon­trar­si con i suoi ste­reo­ti­pi e le sue aspet­ta­ti­ve. 

Le autri­ci di oggi ere­di­ta­no pro­prio da quel­la tra­di­zio­ne fem­mi­ni­sta la capa­ci­tà di inter­ro­ga­re i rap­por­ti di pote­re nel­la socie­tà e nel­la scien­za, riflet­ten­do sul­le tra­sfor­ma­zio­ni ambien­ta­li e tec­no­lo­gi­che che defi­ni­sco­no il pre­sen­te. Nel­la let­te­ra­tu­ra spe­cu­la­ti­va con­tem­po­ra­nea, istan­ze come cen­tra­li­tà del­la cura e del­la dimen­sio­ne socia­le del­la scien­za nel­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del­le scien­zia­te sono por­ta­te avan­ti da gene­ri come il solar­punk e l’ecofiction

La nar­ra­ti­va solar­punk, imma­gi­na un futu­ro uto­pi­co in cui l’umanità ha affron­ta­to la cri­si cli­ma­ti­ca gra­zie a tec­no­lo­gie soste­ni­bi­li e acces­si­bi­li e alla decen­tra­liz­za­zio­ne del pote­re. In que­sto con­te­sto, le don­ne scien­zia­te sono spes­so ritrat­te come lea­der e inno­va­tri­ci che non si limi­ta­no a gesti­re i disa­stri, ma li pre­ven­go­no e costrui­sco­no un futu­ro miglio­re met­ten­do in cam­po com­pe­ten­ze socia­li e rela­zio­na­li accan­to a quel­le scien­ti­fi­che. Que­sto è il caso, per esem­pio, di Kara, pro­ta­go­ni­sta del rac­con­to Iso­la ver­de del­la scrit­tri­ce austra­lia­na Shau­na O’ Mea­ra. Nell’ambito di una gara spet­ta­co­la­riz­za­ta in cui tre squa­dre di scien­zia­ti han­no il com­pi­to di usa­re tec­no­lo­gie inno­va­ti­ve per rie­qui­li­bra­re l’ecosistema di un’isola deva­sta­ta dal­la cri­si cli­ma­ti­ca e dall’intervento uma­no, Kara si impo­ne come uni­co per­so­nag­gio in gra­do di svin­co­lar­si dal­le logi­che del­la com­pe­ti­zio­ne e met­te­re le sue cono­scen­ze scien­ti­fi­che al ser­vi­zio del­la popo­la­zio­ne loca­le, riu­scen­do in que­sto modo a inne­sca­re un cam­bia­men­to dura­tu­ro e pro­fon­do (O’ Mea­ra 2017). 

Se il solar­punk pro­po­ne futu­ri in cui la cri­si cli­ma­ti­ca è sta­ta supe­ra­ta gra­zie a un’evoluzione col­let­ti­va e tec­no­lo­gi­ca, l’eco­fic­tion si col­lo­ca spes­so nel momen­to del­la cri­si stes­sa, osser­van­do da vici­no le frat­tu­re, le dis­so­nan­ze e le ambi­va­len­ze che accom­pa­gna­no la tra­sfor­ma­zio­ne eco­lo­gi­ca. Que­sto apre la stra­da alla pre­sen­za di per­so­nag­gi di scien­zia­ti e scien­zia­te che si pon­go­no in modo cri­ti­co rispet­to al pote­re costi­tui­to, cer­can­do di sve­lar­ne e com­pren­der­ne le con­trad­di­zio­ni e i peri­co­li. 

Nel roman­zo Oval (2019) di Elvia Wilk, per esem­pio, ambien­ta­to nel­la Ber­li­no del pros­si­mo futu­ro segna­ta dal cam­bia­men­to cli­ma­ti­co e dall’instabilità eco­no­mi­ca, la scien­za e la tec­no­lo­gia non offro­no solu­zio­ni sal­vi­fi­che, ma diven­ta­no stru­men­ti attra­ver­so cui inter­ro­ga­re la fra­gi­li­tà dei rap­por­ti uma­ni e dei siste­mi socia­li. 

La pro­ta­go­ni­sta, Anja, è una ricer­ca­tri­ce coin­vol­ta nel­lo svi­lup­po di tec­no­lo­gie soste­ni­bi­li e si ritro­va ad assi­ste­re alla distri­bu­zio­ne di un far­ma­co in gra­do di modi­fi­ca­re le emo­zio­ni del­le per­so­ne, un’innovazione nata con l’intento di ren­de­re la socie­tà più equa e soli­da­le ma che fini­sce per rive­la­re quan­to sia com­ples­so e rischio­so eser­ci­ta­re con­trol­lo sui sen­ti­men­ti uma­ni (Wilk 2019).

In Oval, la figu­ra del­la scien­zia­ta coin­ci­de con quel­la di una testi­mo­ne inquie­ta, sospe­sa tra respon­sa­bi­li­tà eti­ca e vul­ne­ra­bi­li­tà per­so­na­le. Anja non è la “don­na-uomo” descrit­ta da Flic­ker, né l’assistente remis­si­va di un men­to­re maschi­le: è una scien­zia­ta che met­te costan­te­men­te in discus­sio­ne il pro­prio ruo­lo e le con­se­guen­ze del pro­prio lavo­ro, accet­tan­do la com­ples­si­tà inve­ce di ten­ta­re di domi­nar­la a tut­ti i costi. La sua pro­fes­sio­na­li­tà non è disgiun­ta dal­la sua dimen­sio­ne emo­ti­va, rela­zio­na­le e poli­ti­ca, costi­tuen­do quin­di un’alternativa con­cre­ta e com­ples­sa agli ste­reo­ti­pi di scien­zia­te pro­iet­ta­te fuo­ri dal­la real­tà. 

Le rifles­sio­ni che attra­ver­sa­no que­ste nar­ra­zio­ni tro­va­no un’eco pro­fon­da nel­le teo­rie di pen­sa­tri­ci come Don­na Hara­way, che ha pro­po­sto model­li alter­na­ti­vi di sog­get­ti­vi­tà e di pote­re in rap­por­to alla tec­no­lo­gia. Nel suo Mani­fe­sto Cyborg (1985), Hara­way ha mostra­to come la distin­zio­ne tra natu­ra­le e arti­fi­cia­le, uma­no e mac­chi­na, maschi­le e fem­mi­ni­le non sia che un costrut­to cul­tu­ra­le: il cyborg diven­ta allo­ra la figu­ra di una sog­get­ti­vi­tà ibri­da, capa­ce di sot­trar­si alle logi­che del con­trol­lo e di crea­re allean­ze ine­di­te tra esse­ri uma­ni e non uma­ni. 

In que­sta pro­spet­ti­va, le scien­zia­te che la spe­cu­la­ti­ve fic­tion con­tem­po­ra­nea ha imma­gi­na­to e sta imma­gi­nan­do incar­na­no pro­prio il pas­sag­gio dal pote­re scien­ti­fi­co come con­trol­lo al pote­re scien­ti­fi­co come rela­zio­ne. Non risal­ta­no e non si distin­guo­no come geni soli­ta­ri dal­le intui­zio­ni impre­ve­di­bi­li: al con­tra­rio, come il cyborg di Hara­way, aspi­ra­no a far cir­co­la­re la cono­scen­za, a intrec­ciar­la con il mon­do che abi­ta­no. 

Imma­gi­na­re le scien­zia­te del futu­ro, quin­di, impli­ca imma­gi­na­re un pote­re scien­ti­fi­co che non aspi­ri a domi­na­re i cor­pi, la natu­ra o la cono­scen­za, ma a entra­re in rela­zio­ne con essi. In un discor­so del 2014, Ursu­la Le Guin affer­mò che “È soprat­tut­to gra­zie all’immaginazione che acqui­sia­mo con­sa­pe­vo­lez­za, e com­pas­sio­ne, e spe­ran­za” e for­se è pro­prio que­sta tria­de, che dovrem­mo chie­de­re alla scien­za del futu­ro. 

Foto­gra­fia di Gio­van­ni Bor­gia 

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