Che aspetto ha una persona che si occupa di scienza? Secondo i bias della media delle persone, e in particolare dei bambini e delle bambine, la risposta è per lo più: l’aspetto di un uomo.
Questa domanda ha guidato la ricerca del sociologo David Chambers, ideatore del test Draw a scientist (DAST). Nel 1983, Chambers rese pubblici i risultati emersi in seguito alla somministrazione del test tra il 1966 e il 1977 a un campione di 5.000 bambini e bambine tra i 5 e gli 8 anni, residenti in Canada e negli Stati Uniti. La domanda posta era semplice: disegnare una persona che fa scienza. I risultati furono altrettanto chiari: solo 28, lo 0,6% del campione, disegnarono una donna. Per tutti gli altri, gli scienziati erano uomini dai capelli bianchi e scompigliati con un camice addosso (Chambers 1983).
Nei decenni successivi, il DAST si è trasformato in uno strumento di ricerca solido e consolidato, permettendoci ancora oggi di sondare l’immagine delle persone di scienza nella fantasia dei bambini e delle bambine. Una meta-analisi su 78 studi condotti su 20.000 bambini e adolescenti tra il 1985 e il 2016 mostra che la percentuale di bambini e bambine che disegnano una donna è salita nel tempo, passando dal 22% del 1985 al 34% del 2016. Secondo l’analisi, tuttavia, a disegnare scienziate sono soprattutto le femmine: nella maggior parte dei casi, i bambini disegnano scienziati maschi. Questo stereotipo tende inoltre a rafforzarsi con l’età: i disegni di scienziate donne risultano meno frequenti quando il test viene somministrato a studenti delle superiori (Miller 2018).
Questi risultati sembrerebbero indicare un cambiamento positivo: immaginare una scienziata oggi è più facile rispetto a cinquant’anni fa. Gli studi condotti sullo stereotipo della persona di scienza, tuttavia, ci mostrano che siamo ancora lontani dall’uguaglianza di genere quando guardiamo più da vicino gli archetipi degli scienziati e delle scienziate: uomini e donne nella scienza vengono tuttora percepiti in modo nettamente differente. Uno studio estensivo condotto dal Politecnico di Milano su oltre 100 papers dedicati alla rappresentazione stereotipica dello scienziato conclude che non solo, ad oggi, le persone di scienza nei bias dell’opinione pubblica sono ancora per lo più uomini, ma anche che l’immaginario legato alle scienziate donne ricalca gli stereotipi maschili, non riuscendo ad acquisire un’identità definita. Gli scienziati sono considerati nerd, poco attraenti, poco socievoli, pazzi ma geniali; mentre le scienziate vengono ritratte come accondiscendenti, amichevoli, socievoli e spesso subordinate a un uomo (Mazzuchelli & Rossi-Lamastra 2025).
Secondo gli autori della ricerca, gli stereotipi potrebbero essere rafforzati dalla rappresentazione delle scienziate nei media mainstream. Questo tema è stato esplorato dalla sociologa Eva Flicker in un articolo comparso sulla rivista Public Understanding of Science nel 2003, incentrato sull’analisi di un campione di film prodotti nel XX secolo in cui compaiono personaggi di scienziate. Flicker individua sei categorie stereotipate in cui classifica le scienziate dei film analizzati: la vecchia zitella, un personaggio totalmente dedito al lavoro che manca delle tipiche caratteristiche femminili, tra cui la capacità di essere attraente per un uomo; la donna-uomo, in tutto e per tutto simile ai suoi colleghi maschi, sia nell’aspetto che nell’atteggiamento, ma dotata di un intuito femminile che spesso si rivela la carta vincente per risolvere i problemi; l’esperta ingenua, una giovane donna brillante, ma che spesso ha bisogno della guida maschile per incanalare il suo lavoro; la malvagia calcolatrice pronta a tutto per raggiungere i suoi obiettivi, anche a usare il sesso per manipolare gli avversari; la figlia o assistente, sempre subordinata a un personaggio maschile di scienziato; infine, l’eroina solitaria, stereotipo della scienziata perfetta, sintesi tra brillante competenza e consapevolezza della propria femminilità (Flicker 2003).
Il tema di ricerca è stato ripreso e ampliato nel 2017 da uno studio delle ricercatrici Steinke e Paniagua Tavarez. L’analisi di film prodotti tra il 2002 e il 2014 ha permesso di aggiungere alcuni tasselli al quadro delineato da Flicker: in particolare, la rappresentazione iper-sessualizzata delle scienziate, generalmente interpretate da attrici molto attraenti, e l’incompatibilità tra lavoro e famiglia, con una quasi totale assenza di madri che lavorano nella scienza.
Nei grandi classici della letteratura fantascientifica, uno degli archetipi più noti di scienziata è Susan Calvin, la psicologa dei robot ideata da Isaac Asimov e comparsa per la prima volta nel racconto Bugiardo! (Asimov 1941). Calvin viene descritta come una donna brillante, ma molto fredda. In diversi racconti afferma di amare i robot più delle persone, perché incapaci di mentire, e anche quando prova sentimenti di amore e cura, come nel racconto Lenny (Asimov 1958), questi sono rivolti verso i robot, non verso esseri umani.
Probabilmente, nelle intenzioni dell’autore, Calvin è un personaggio positivo e d’ispirazione: mente brillante e geniale, capace di farsi strada in un campo dominato dagli uomini, in grado di risolvere problemi complessi legati alla mente dei robot. Questa estrema performatività nel mondo del lavoro, tuttavia, viene raggiunta a scapito di qualsiasi competenza sociale ed emotiva del personaggio, al punto che Calvin sembra più simile ai suoi amati robot che agli esseri umani. Un personaggio ispirante, quindi, ma poco concreto, in cui non è facile identificarsi per le bambine e le ragazze che si avvicinano alla scienza.
E la capacità di identificarsi nei personaggi è un punto cruciale della questione. Nel saggio Oltre Marie. Prospettive di genere nella scienza, Edwige Pezzulli e Nastassja Cipriani evidenziano tra i fattori principali che portano le donne ad abbandonare le carriere legate a scienza e tecnologia proprio il senso di non appartenenza alla comunità scientifica. Le scienziate, cioè, tendono più dei loro colleghi uomini a sentirsi al margine, delle intruse nel campo in cui studiano o lavorano. Questa sensazione si accompagna a una maggiore tendenza a provare la sindrome dell’impostore ed è alimentata dalla mancanza di role model positivi e realistici in cui le donne nella scienza possano riconoscersi (Cipriani e Pezzulli 2023). Le conseguenze sono concrete: le donne tendono a fare meno domande durante i convegni, evitano di proporre i loro articoli alle riviste più prestigiose, assumono un ruolo subordinato durante i colloqui con i superiori. Tutto questo ha un impatto reale sul ‘soffitto di cristallo’ della scienza, l’insieme di ostacoli materiali e culturali che impediscono l’avanzamento delle carriere delle donne.
E come potrebbero, dopotutto, le giovani donne riconoscersi e sentirsi rappresentate in un settore in cui gli stereotipi dominanti vorrebbero spingerle ad abbandonare ogni aspetto stereotipicamente legato alla femminilità – come l’empatia, la relazione e la cura – per emergere e assomigliare ai loro modelli?
Affermare che le scienziate dovrebbero avere più modelli che si conformino agli stereotipi femminili della cura e dell’empatia potrebbe sembrare una provocazione, ma è una proposta che risponde ad almeno due esigenze concrete. La prima è quella di eliminare nel minor tempo possibile gli ostacoli che impediscono alle giovani donne di immaginarsi come scienziate – e se rappresentare più scienziate stereotipicamente femminili può aiutare a raggiungere questo risultato, forse è una strada che vale la pena provare a percorrere.
La seconda esigenza riguarda invece in modo più ampio la nostra capacità di immaginare e rappresentare il futuro della scienza. La crisi climatica ci mette ogni giorno di fronte all’evidenza che una narrazione della scienza focalizzata sul predominio e lo sfruttamento della natura a ogni costo non è più sostenibile. Abbiamo bisogno che valori come la cura, la relazione e l’empatia diventino caratteristiche centrali non solo nella rappresentazione delle scienziate, ma di tutte le persone che si occupano di scienza.
Mentre nella fiction mainstream questa istanza non ha ancora portato a una produzione ampia e strutturata, alcuni sottogeneri della fantascienza, tra cui la speculative fiction femminista degli anni Settanta e Ottanta, contribuiscono già da tempo a ribaltare i modelli e a proporre nuovi approcci alla narrazione della scienza.
Proprio negli anni in cui Chambers portava avanti il suo Draw A Scientist Test, infatti, questa corrente letteraria metteva attivamente in discussione gli stereotipi con cui ci confrontiamo ancora oggi, ridefinendo radicalmente il ruolo delle scienziate e della scienza stessa nella società. Nelle storie di autrici come Ursula K. LeGuin, Marge Piercy, Joanna Russ e Octavia E. Butler, le innovazioni scientifiche e tecnologiche hanno un ruolo non solo in quanto sfida sensazionalistica ai limiti dell’ingegno umano, ma soprattutto come mezzi per analizzare criticamente la società, l’etica e le dinamiche di potere interne alla scienza. Per queste scrittrici non è particolarmente interessante raccontare come tecnologie molto avanzate siano state sviluppate e utilizzate dalle civiltà del futuro, mentre considerano fondamentale indagare le conseguenze sociali e etiche di tali innovazioni. In uno dei grandi classici del genere, per esempio, La mano sinistra del buio di Ursula K. Le Guin, l’umanità si è espansa su altri pianeti, sbloccando la possibilità di viaggiare in punti lontanissimi dello spazio-tempo e creando una società intergalattica basata su cooperazione e scambio culturale. Le Guin dedica poco spazio a esplorare i dettagli di questa società e delle tecnologie che l’hanno resa possibile, mentre concentra la sua speculazione sulle nuove forme di incontro con l’Altro che la nuova società rende possibili (Le Guin 1969).
In queste opere, le scienziate acquisiscono potere proprio perché riescono meglio delle loro controparti maschili a farsi portavoce di valori essenziali per un futuro utopico e condiviso. Nel romanzo Donna sul filo del tempo, per esempio, Marge Piercy introduce una società utopica futuristica in cui la parità di genere si accompagna in modo intersezionale alla sostenibilità e al rispetto dell’ambiente. Qui le donne scienziate non sono figure isolate di genio, ma una parte integrante di un impegno collettivo per la sostenibilità e la giustizia sociale (Piercy 1976).
Troviamo un esempio emblematico di scienziata della speculative fiction femminista nella novella La sera, il giorno e la notte di Octavia E. Butler, pubblicata per la prima volta nel 1987.
In quest’opera, il mondo è afflitto dalla diffusione di una malattia degenerativa che porta i malati a perdere progressivamente la ragione e a indulgere in atti di autolesionismo. La protagonista, Lynn, a sua volta infetta, incontra Beatrice, fondatrice di un articolato progetto di cura incentrato sulla riabilitazione e lo sviluppo della creatività dei malati. Mentre nel resto del mondo i malati vengono trattati con assistenze palliative in attesa della morte, nel centro diretto da Beatrice riescono a riappropriarsi in parte della propria vita e delle proprie passioni, convivendo con la malattia e arginando i suoi aspetti più problematici.
Il carisma e la capacità di leadership di Beatrice non sono casuali. Lei ha infatti scoperto che le donne affette dalla malattia emettono un particolare feromone in grado di calmare e controllare i pazienti. Lynn capisce progressivamente che in quanto donna infetta la attende un destino inevitabile: seguire la strada aperta da Beatrice, diventare un medico come lei e usare il proprio potere per contribuire al progresso della scienza e al benessere dell’umanità (Butler 1987).
Ne La sera, il giorno e la notte le scienziate non offrono soluzioni per eliminare un problema, ma si impegnano a investire la propria vita nel tentativo di gestirlo. Beatrice è una figura complessa e stratificata, in cui la vocazione scientifica verso la cura si unisce al senso di responsabilità per la comunità di cui fa parte. Può essere interessante notare come, nel finale della novella, l’acquisizione di potere da parte di Lynn, cui il futuro prospetta un ruolo dominante nella società, porta a un raffreddamento dei suoi rapporti con il compagno: il modello alternativo di scienziata proposto da Butler fatica a inserirsi nella società patriarcale senza scontrarsi con i suoi stereotipi e le sue aspettative.
Le autrici di oggi ereditano proprio da quella tradizione femminista la capacità di interrogare i rapporti di potere nella società e nella scienza, riflettendo sulle trasformazioni ambientali e tecnologiche che definiscono il presente. Nella letteratura speculativa contemporanea, istanze come centralità della cura e della dimensione sociale della scienza nella rappresentazione delle scienziate sono portate avanti da generi come il solarpunk e l’ecofiction.
La narrativa solarpunk, immagina un futuro utopico in cui l’umanità ha affrontato la crisi climatica grazie a tecnologie sostenibili e accessibili e alla decentralizzazione del potere. In questo contesto, le donne scienziate sono spesso ritratte come leader e innovatrici che non si limitano a gestire i disastri, ma li prevengono e costruiscono un futuro migliore mettendo in campo competenze sociali e relazionali accanto a quelle scientifiche. Questo è il caso, per esempio, di Kara, protagonista del racconto Isola verde della scrittrice australiana Shauna O’ Meara. Nell’ambito di una gara spettacolarizzata in cui tre squadre di scienziati hanno il compito di usare tecnologie innovative per riequilibrare l’ecosistema di un’isola devastata dalla crisi climatica e dall’intervento umano, Kara si impone come unico personaggio in grado di svincolarsi dalle logiche della competizione e mettere le sue conoscenze scientifiche al servizio della popolazione locale, riuscendo in questo modo a innescare un cambiamento duraturo e profondo (O’ Meara 2017).
Se il solarpunk propone futuri in cui la crisi climatica è stata superata grazie a un’evoluzione collettiva e tecnologica, l’ecofiction si colloca spesso nel momento della crisi stessa, osservando da vicino le fratture, le dissonanze e le ambivalenze che accompagnano la trasformazione ecologica. Questo apre la strada alla presenza di personaggi di scienziati e scienziate che si pongono in modo critico rispetto al potere costituito, cercando di svelarne e comprenderne le contraddizioni e i pericoli.
Nel romanzo Oval (2019) di Elvia Wilk, per esempio, ambientato nella Berlino del prossimo futuro segnata dal cambiamento climatico e dall’instabilità economica, la scienza e la tecnologia non offrono soluzioni salvifiche, ma diventano strumenti attraverso cui interrogare la fragilità dei rapporti umani e dei sistemi sociali.
La protagonista, Anja, è una ricercatrice coinvolta nello sviluppo di tecnologie sostenibili e si ritrova ad assistere alla distribuzione di un farmaco in grado di modificare le emozioni delle persone, un’innovazione nata con l’intento di rendere la società più equa e solidale ma che finisce per rivelare quanto sia complesso e rischioso esercitare controllo sui sentimenti umani (Wilk 2019).
In Oval, la figura della scienziata coincide con quella di una testimone inquieta, sospesa tra responsabilità etica e vulnerabilità personale. Anja non è la “donna-uomo” descritta da Flicker, né l’assistente remissiva di un mentore maschile: è una scienziata che mette costantemente in discussione il proprio ruolo e le conseguenze del proprio lavoro, accettando la complessità invece di tentare di dominarla a tutti i costi. La sua professionalità non è disgiunta dalla sua dimensione emotiva, relazionale e politica, costituendo quindi un’alternativa concreta e complessa agli stereotipi di scienziate proiettate fuori dalla realtà.
Le riflessioni che attraversano queste narrazioni trovano un’eco profonda nelle teorie di pensatrici come Donna Haraway, che ha proposto modelli alternativi di soggettività e di potere in rapporto alla tecnologia. Nel suo Manifesto Cyborg (1985), Haraway ha mostrato come la distinzione tra naturale e artificiale, umano e macchina, maschile e femminile non sia che un costrutto culturale: il cyborg diventa allora la figura di una soggettività ibrida, capace di sottrarsi alle logiche del controllo e di creare alleanze inedite tra esseri umani e non umani.
In questa prospettiva, le scienziate che la speculative fiction contemporanea ha immaginato e sta immaginando incarnano proprio il passaggio dal potere scientifico come controllo al potere scientifico come relazione. Non risaltano e non si distinguono come geni solitari dalle intuizioni imprevedibili: al contrario, come il cyborg di Haraway, aspirano a far circolare la conoscenza, a intrecciarla con il mondo che abitano.
Immaginare le scienziate del futuro, quindi, implica immaginare un potere scientifico che non aspiri a dominare i corpi, la natura o la conoscenza, ma a entrare in relazione con essi. In un discorso del 2014, Ursula Le Guin affermò che “È soprattutto grazie all’immaginazione che acquisiamo consapevolezza, e compassione, e speranza” – e forse è proprio questa triade, che dovremmo chiedere alla scienza del futuro.
Fotografia di Giovanni Borgia
BIBLIOGRAFIA
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