20

Novembre
20 Novembre 2025

TRA PER­MES­SO E PRE­TE­SA: LA PSI­CO­LO­GIZ­ZA­ZIO­NE DEL POLI­TI­CO

0 CommentI
60 visualizzazioni
29 min

Vi dirò una cosa, quan­do le assi­sten­ti socia­li vi offro­no di che non sve­ni­re, per gra­zio­sa elar­gi­zio­ne, cosa che per loro è un’os­ses­sio­ne, ave­te un bel ten­ta­re la fuga. Vi inse­gui­ran­no fino ai con­fi­ni del­la ter­ra, con l’e­me­ti­co in mano. Quel­li del­l’E­ser­ci­to del­la Sal­vez­za non sono da meno. No, con­tro il gesto cari­ta­te­vo­le non c’è dife­sa, che io sap­pia. Si chi­na il capo, si ten­do­no le mani tut­te tre­man­ti e giun­te e si dice gra­zie, gra­zie signo­ra, gra­zie mia buo­na signo­ra. 

Samuel Bec­kett, Mol­loy

 

L’annosa que­stio­ne: psi­co­lo­gia e sta­tus quo

Quest’estate nel­la mia bol­la si è acce­so un bre­ve ma viva­ce dibat­ti­to: alcu­ni psi­co­lo­gi atti­vi su Insta­gram han­no rea­gi­to con indi­gna­zio­ne alla pub­bli­ca­zio­ne di un libro scrit­to da una nota socio­lo­ga che – a quan­to ho let­to – accu­sa­va la psi­co­lo­gia e la cul­tu­ra psi­co­lo­gi­ca di con­tri­bui­re al man­te­ni­men­to del­lo sta­tus quo capi­ta­li­sta. Io non ho let­to il libro, così come non lo ave­va­no let­to gli psi­co­lo­gi offe­si, ma la tesi non è cer­to nuo­va né par­ti­co­lar­men­te con­tro­ver­sa, se non per chi vive in deter­mi­na­ti recin­ti disci­pli­na­ri. Chec­ché ne pen­si­no i sin­go­li pro­fes­sio­ni­sti, lo stu­dio del ruo­lo e dell’influenza di psi­co­lo­gia e psi­chia­tria nel­la socie­tà non si è esau­ri­to con Fou­cault né con l’antipsichiatria, e il volu­me del­la socio­lo­ga rap­pre­sen­ta una pub­bli­ca­zio­ne tra mol­te. Cer­to, come per ogni discus­sio­ne, c’è chi è d’accordo e chi no. Il tema, d’altronde, è com­ples­so. 

Dal mio per­so­na­le pun­to di vista, è indub­bio che la psi­co­lo­gia e il suo pre­ci­pi­ta­to cul­tu­ra­le abbia­no un ruo­lo di rilie­vo nel man­te­ni­men­to del­lo sta­tus quo, non tan­to come for­za auto­no­ma di impo­si­zio­ne, quan­to come dispo­si­ti­vo che rac­co­glie e rifor­mu­la, attra­ver­so le pro­prie cate­go­rie, le postu­re esi­sten­zia­li rese neces­sa­rie dal­le con­di­zio­ni mate­ria­li del capi­ta­li­smo. Più che riflet­ter­ne sem­pli­ce­men­te le esi­gen­ze, essa ha con­tri­bui­to a costrui­re una for­ma di vita com­pa­ti­bi­le con i suoi vin­co­li, tra­sfor­man­do impe­ra­ti­vi di adat­ta­men­to in cri­te­ri di salu­te men­ta­le e in nor­me inte­rio­riz­za­te che indi­vi­dua­liz­za­no il males­se­re e ne oscu­ra­no la radi­ce col­let­ti­va e mate­ria­le. D’altronde, sul pia­no epi­ste­mo­lo­gi­co, la psi­co­lo­gia non si pro­po­ne di inter­ro­gar­si su come pos­sa con­fi­gu­rar­si una ‘vita buo­na’, su qua­li for­me socia­li per­met­ta­no real­men­te di fio­ri­re: il suo com­pi­to è descrit­ti­vo e fun­zio­na­le, non eti­co-poli­ti­co. Si con­cen­tra sul fun­zio­na­men­to, sull’adattamento, sull’equilibrio inter­no dei sog­get­ti rispet­to al pre­sen­te sta­to di cose. E que­sto, in sé, ha una sua posi­ti­vi­tà: la psi­co­lo­gia si pro­po­ne di alle­via­re la sof­fe­ren­za nel qui e ora, non in un mon­do pos­si­bi­le, anco­ra sol­tan­to pen­sa­to, più giu­sto di quel­lo attua­le. Il modo in cui spie­ga e inter­pre­ta la sof­fe­ren­za, tut­ta­via, fini­sce per tra­dur­re le con­trad­di­zio­ni socia­li in que­stio­ni psi­chi­che e indi­vi­dua­li, con­tri­buen­do a ciò che Mark Fisher (2009a) ha defi­ni­to rea­li­smo capi­ta­li­sta: la per­ce­zio­ne dif­fu­sa che non esi­sta un’alternativa cre­di­bi­le all’ordine esi­sten­te. La fun­zio­ne tera­peu­ti­ca del­la psi­co­lo­gia ren­de quel rea­li­smo non solo un para­dig­ma eco­no­mi­co o ideo­lo­gi­co, ma anche un’esperienza affet­ti­va e per­cet­ti­va. È come se ne irri­gi­dis­se le maglie, con­so­li­dan­do la con­vin­zio­ne, ormai sedi­men­ta­ta nel sen­so comu­ne, che non pos­sa esi­ste­re una socie­tà diver­sa e dun­que nem­me­no una psi­co­lo­gia diver­sa, né una cura che non coin­ci­da con l’adattamento al mon­do così com’è. 

La psi­co­lo­gia, insom­ma, vie­ne inte­sa come una que­stio­ne che riguar­da il pri­va­to, la cura dei sin­go­li indi­vi­dui. Lo si coglie bene, del resto, dal­le rea­zio­ni di sbi­got­ti­men­to degli psi­co­lo­gi sopra­ci­ta­ti quan­do han­no sco­per­to che la loro disci­pli­na può esse­re sot­to­po­sta a scru­ti­nio non sol­tan­to per i suoi effet­ti indi­vi­dua­li, ma anche per quel­li socia­li. 

Ciò non signi­fi­ca, ovvia­men­te, che la psi­co­lo­gia vada evi­ta­ta o con­dan­na­ta. Non si trat­ta di giu­di­ca­re gli usi e i bene­fi­ci indi­vi­dua­li, cer­ta­men­te impor­tan­ti, ma di inter­ro­ga­re il river­be­ro col­let­ti­vo di una disci­pli­na sem­pre più pre­sen­te nel discor­so socia­le. Poi, sin­go­lar­men­te, lo sap­pia­mo: biso­gna pur soprav­vi­ve­re. 

Uno degli auto­ri che a mio avvi­so ha sapu­to descri­ve­re con un toc­co par­ti­co­lar­men­te inci­si­vo e per­so­na­le que­sta dimen­sio­ne è sta­to pro­prio Fisher (2009b, 2014): la sua scrit­tu­ra, nutri­ta da una pro­fon­da sof­fe­ren­za esi­sten­zia­le, ha mostra­to come il dolo­re pos­sa, nono­stan­te tut­to, apri­re var­chi di rifles­sio­ne e signi­fi­ca­to poli­ti­co all’interno del­le costri­zio­ni con­cet­tua­li del­la psi­co­lo­gia e del rea­li­smo capi­ta­li­sta.

Vor­rei, quin­di, per­met­ter­mi di dare per buo­no que­sto pun­to, riman­dan­do a chi lo ha descrit­to pri­ma e meglio di me oltre a Fisher, con­si­glie­rei: Castel 2024, Smail 2005, Rose 2007, e ovvia­men­te Fou­cault 1961, 2003 , e riflet­te­re qui sul rove­scio del pro­ble­ma: se la psi­co­lo­gia è accu­sa­ta di depo­li­ti­ciz­za­re, nor­ma­liz­zan­do e cli­ni­ciz­zan­do istan­ze che gio­ve­reb­be­ro di una rifles­sio­ne non medi­ca, cosa suc­ce­de quan­do cer­ca di entra­re nel ter­re­no del poli­ti­co?

La que­stio­ne non è né bana­le né inap­pro­pria­ta, dal momen­to che se cri­ti­chia­mo la man­can­za di con­sa­pe­vo­lez­za poli­ti­ca del­la psi­co­lo­gia, dob­bia­mo esse­re pron­ti a una psi­co­lo­gia che entri in cam­po e si ‘mischi’ con la poli­ti­ca. Rispet­to al pia­no del­la pra­ti­ca cli­ni­ca, mol­ti pro­fes­sio­ni­sti cre­do­no a que­sta via e pro­muo­vo­no approc­ci più con­sa­pe­vo­li e respon­sa­bi­li dal pun­to di vista poli­ti­co; si pen­si, ad esem­pio, agli svi­lup­pi più recen­ti del­la psi­co­lo­gia affer­ma­ti­va rispet­to alla varian­za di gene­re e agli orien­ta­men­ti ses­suo-affet­ti­vi. Con “psi­co­lo­gia affer­ma­ti­va” si inten­do­no quei model­li cli­ni­ci che mira­no a rico­no­sce­re e valo­riz­za­re l’esperienza del­le per­so­ne LGB­T­QIA+, spo­stan­do l’attenzione dal­la cor­re­zio­ne o nor­ma­liz­za­zio­ne del­le dif­fe­ren­ze alla costru­zio­ne di con­te­sti di vita in cui esse pos­sa­no espri­mer­si libe­ra­men­te (Sin­gh & McKle­roy 2011). In que­sto sen­so, la cli­ni­ca assu­me una postu­ra espli­ci­ta­men­te poli­ti­ca di soste­gno e legit­ti­ma­zio­ne.

Se la poli­ti­ciz­za­zio­ne del­la cli­ni­ca è un’impresa rischio­sa, ma che vale la pena intra­pren­de­re, c’è tut­ta­via un altro modo in cui la psi­co­lo­gia entra nel­la poli­ti­ca, e che richie­de anco­ra più atten­zio­ne: quan­do è la poli­ti­ca stes­sa a ser­vir­si del lin­guag­gio psi­co­lo­gi­co per for­mu­la­re le pro­prie riven­di­ca­zio­ni, tra­sfor­man­do la cli­ni­ca in una fon­te di legit­ti­ma­zio­ne e in un voca­bo­la­rio per nomi­na­re l’oppressione. Il caso for­se più noto in que­sto sen­so è sta­to l’uscita dell’omosessualità dal  manua­le dia­gno­sti­co più uti­liz­za­to dai tera­peu­ti, il Dia­gno­stic and Sta­ti­sti­cal Manual of Men­tal Disor­ders (DSM) nel 1980 (defi­ni­ti­va nel 1987). Una deci­sio­ne cer­ta­men­te soste­nu­ta da stu­di scien­ti­fi­ci, ma che sep­pe inci­de­re in manie­ra deter­mi­nan­te sul modo in cui la cul­tu­ra per­ce­pi­va l’omosessualità. Vi chie­do di tene­re a men­te que­sto esem­pio, per­ché ci tor­ne­rà uti­le in segui­to.

Sof­fro dun­que lot­to

Il pro­ble­ma del­la psi­co­lo­gia – come del­la psi­chia­tria, con cui con­di­vi­de rela­zio­ni isti­tu­zio­na­li ed epi­ste­mo­lo­gi­che pro­fon­de – è che tra­ci­ma, sem­pre. Tra­ci­man­do, si dis­se­mi­na, dif­fon­den­do­si nel­le pra­ti­che quo­ti­dia­ne, nei lin­guag­gi, nei modi stes­si di pen­sa­re. Men­tre muta il les­si­co con cui par­lia­mo del males­se­re e per­fi­no di noi stes­si, la psi­co­lo­gia gode di un’autorità epi­ste­mi­ca socia­le sem­pre più for­te, uni­ta a un cer­to pote­re veri­dit­ti­vo, cioè la capa­ci­tà di pro­dur­re enun­cia­ti che ven­go­no rico­no­sciu­ti social­men­te come veri. Pote­re che si raf­for­za pro­prio per­ché non sem­pre riu­scia­mo a scor­ger­ne le stor­tu­re: d’altronde par­lia­mo di una disci­pli­na benin­ten­zio­na­ta, una disci­pli­na del­la cura. E pro­prio nel­la cura si anni­da il para­dos­so: for­za che sol­le­va e trat­tie­ne, pro­mes­sa che apre e gesto che vin­co­la, intrec­cio di gra­ti­tu­di­ne e di debi­to.

La tesi che vor­rei avan­za­re qui è sem­pli­ce ma so che cree­rà dispia­ce­re: se la psi­co­lo­gia ha biso­gno del­la poli­ti­ca, non è affat­to det­to che val­ga l’inverso. Quan­do il cam­po poli­ti­co si affi­da a cate­go­rie e lin­guag­gi psi­co­lo­gi­ci, cor­re infat­ti il rischio di pie­gar­si a postu­re che non apro­no nuo­ve pos­si­bi­li­tà di tra­sfor­ma­zio­ne, ma le irri­gi­di­sco­no, pro­du­cen­do un sol­lie­vo tan­to imme­dia­to quan­to illu­so­rio e tem­po­ra­neo.

In un sag­gio che si inti­to­la signi­fi­ca­ti­va­men­te Woun­ded Atta­ch­men­ts (1993), la filo­so­fa fem­mi­ni­sta Wen­dy Bro­wn ana­liz­za una ten­sio­ne inter­na a mol­te poli­ti­che dell’identità in par­ti­co­la­re a quel­le fem­mi­ni­ste, anti­raz­zi­ste e queer svi­lup­pa­te­si negli anni Ottan­ta e Novan­ta. Mostra come, nel­le socie­tà con­tem­po­ra­nee, le iden­ti­tà poli­ti­che emer­ga­no den­tro un intrec­cio di capi­ta­li­smo, libe­ra­li­smo e pote­ri disci­pli­na­ri, assu­men­do spes­so la for­ma di un ‘attac­ca­men­to feri­to’: una for­ma di lega­me che nasce dal­la feri­ta sto­ri­ca e dal­la con­di­zio­ne di subor­di­na­zio­ne, ma che fini­sce per trar­re da quel­la stes­sa feri­ta la pro­pria coe­ren­za e la pro­pria for­za. Inve­ce di orien­tar­si ver­so la tra­sfor­ma­zio­ne dei rap­por­ti di pote­re che l’hanno pro­dot­ta, l’identità ten­de così a inve­sti­re nel­la pro­pria feri­ta, a custo­dir­la come fon­da­men­to di rico­no­sci­men­to. È qui che si gene­ra, per Bro­wn, una ten­sio­ne psi­co-poli­ti­ca: la sof­fe­ren­za diven­ta non solo espe­rien­za, ma cate­go­ria pub­bli­ca di legit­ti­ma­zio­ne, un lin­guag­gio tera­peu­ti­co attra­ver­so cui la doman­da poli­ti­ca si arti­co­la come doman­da di cura e di risar­ci­men­to. L’attaccamento alla feri­ta, l’investimento nel dolo­re, la ricer­ca di col­pa e di com­pen­sa­zio­ne si tra­du­co­no in stra­te­gie poli­ti­che reat­ti­ve, fon­da­te su ciò che Bro­wn, ripren­den­do Nie­tzsche, defi­ni­sce res­sen­ti­ment: quel risen­ti­men­to che nasce dall’impotenza ad agi­re e che, inve­ce di tra­sfor­mar­si in for­za crea­ti­va, si fis­sa nel­la col­pa, nel giu­di­zio mora­le e nel biso­gno di rico­no­sci­men­to da par­te dell’altro (Bro­wn 1993, 400–401). La psi­co­lo­giz­za­zio­ne del con­flit­to si inne­sta così nel­la sce­na poli­ti­ca: gli attac­ca­men­ti feri­ti che dan­no for­za all’identità rischia­no di tra­sfor­ma­re la poli­ti­ca in un lin­guag­gio tera­peu­ti­co, vol­to più a custo­di­re e rap­pre­sen­ta­re la feri­ta che a muta­re i rap­por­ti di pote­re. In fon­do, quel­lo che Bro­wn met­te in luce è il rischio che il rico­no­sci­men­to poli­ti­co si fon­di su una moda­li­tà reat­ti­va e dipen­den­te, anco­ra­ta alla neces­si­tà di un’autorità ester­na per legit­ti­ma­re la pro­pria riven­di­ca­zio­ne. Per Bro­wn, è l’autorità col­pe­vo­liz­zan­te del dolo­re e del­la feri­ta, ma oggi pos­sia­mo vede­re come la psi­co­lo­gia pos­sa inglo­ba­re que­sta fun­zio­ne, con­fe­ren­do­le l’autorità epi­ste­mi­ca di una scien­za socia­le sem­pre più rile­van­te. 

Con per­mes­so

In que­sto affi­dar­si a un’istanza ester­na per legit­ti­ma­re le riven­di­ca­zio­ni si coglie bene ciò che Bro­wn dia­gno­sti­ca nell’età neo­li­be­ra­le inau­gu­ra­ta tra gli anni Ottan­ta e Novan­ta con l’affermarsi del­le poli­ti­che di Rea­gan e That­cher: la liber­tà sci­vo­la dal­la sfe­ra dell’autonomia a quel­la del­la licen­za, cioè del per­mes­so di fare, sem­pre revo­ca­bi­le per­ché dipen­den­te da un’autorità che con­ce­de o nega (Bro­wn 1995, 24–25). Nel suo les­si­co, il neo­li­be­ri­smo non è sol­tan­to un siste­ma eco­no­mi­co, ma un regi­me di sog­get­ti­va­zio­ne che tra­sfor­ma la liber­tà in una tec­ni­ca di gover­no: non più spa­zio di resi­sten­za, ma for­ma di ade­sio­ne. In que­sta cor­ni­ce, l’individuo è chia­ma­to a per­ce­pir­si libe­ro pro­prio nel­la misu­ra in cui si con­for­ma alle nor­me e ai vin­co­li del mer­ca­to – gesten­do se stes­so come un’impresa, otti­miz­zan­do la pro­pria vita come capi­ta­le uma­no (Bro­wn 2015, 35). La liber­tà diven­ta così un mec­ca­ni­smo di inte­rio­riz­za­zio­ne del pote­re: ciò che appa­re come scel­ta auto­no­ma è in real­tà il risul­ta­to di una dele­ga ai cri­te­ri di effi­cien­za e com­pe­ti­ti­vi­tà che rego­la­no il mon­do socia­le. Ridot­ta a licen­za, la liber­tà per­de la sua dimen­sio­ne col­let­ti­va e tra­sfor­ma­ti­va per far­si con­di­zio­ne con­ces­si­va, che non met­te mai in que­stio­ne i rap­por­ti di pote­re da cui dipen­de. Al con­tra­rio, li riba­di­sce: se la mia liber­tà dipen­de dal poter fare, essa resta sem­pre sog­get­ta a una con­di­zio­ne ester­na che può esse­re riti­ra­ta o nega­ta.

La psi­co­lo­gia si pre­sen­ta, pur­trop­po, come un otti­mo dispo­si­ti­vo per met­te­re in atto que­sta dina­mi­ca. Il suo impian­to nor­ma­ti­vo sta­bi­li­sce che cosa è sano e che cosa è pato­lo­gi­co, che cosa è legit­ti­mo e che cosa no. Misu­ra e sop­pe­sa le sof­fe­ren­ze, le tra­du­ce in una gram­ma­ti­ca scien­ti­fi­ca che por­ta con sé tut­ta l’autorità epi­ste­mi­ca del­la scien­za moder­na. Dice chi può esse­re in un cer­to modo e fino a che pun­to, deli­mi­ta i con­fi­ni di ciò che è accet­ta­bi­le. E, se mi si può obiet­ta­re che è una disci­pli­na ete­ro­ge­nea e non mono­li­ti­ca, che non vuo­le più assu­me­re que­sto ruo­lo nor­ma­ti­vo, mi sen­to di dire che non c’è biso­gno che lo fac­cia. Sia­mo noi stes­si, spes­so, a con­fe­rir­le que­sto ruo­lo: non solo nel­le nostre vite indi­vi­dua­li – dove può ave­re sen­so, a secon­da dei casi – ma anche nel­lo spa­zio poli­ti­co, dove diven­ta sem­pre più spes­so lo stru­men­to per legit­ti­ma­re riven­di­ca­zio­ni e rico­no­sci­men­ti. Sia­mo noi stes­si, per pri­mi, a spe­ra­re che ci sia un’autorità buo­na che ci dia il per­mes­so di esse­re, di fare e anche di lot­ta­re per cer­te istan­ze. 

Ma tor­nia­mo all’esempio del­la rimo­zio­ne dell’omosessualità dal DSM: abbia­mo det­to che fu un gesto poli­ti­co, che oggi leg­gia­mo come l’atto con cui una for­ma di vita, fino ad allo­ra mar­chia­ta come pato­lo­gi­ca, veni­va final­men­te ammes­sa nei con­fi­ni del ‘nor­ma­le’. Que­sto pas­sag­gio esem­pli­fi­ca con chia­rez­za la logi­ca con­ces­si­va che strut­tu­ra poli­ti­ca­men­te la psi­co­lo­gia: una for­ma di vita vie­ne rico­no­sciu­ta come legit­ti­ma solo dopo esse­re sta­ta, in pre­ce­den­za, dele­git­ti­ma­ta. Vale la pena sof­fer­mar­si sul­la moda­li­tà attra­ver­so cui ciò avvie­ne: per soste­ne­re che deter­mi­na­ti orien­ta­men­ti o iden­ti­tà deb­ba­no esse­re accet­ta­ti, si ricor­re spes­so all’argomento bio­lo­gi­co o gene­ti­co. L’assunto impli­ci­to è che, se non si trat­ta di una scel­ta, allo­ra non vi è col­pa, né divie­to. 

Que­sta postu­ra ideo­lo­gi­ca – sospe­sa tra bio­es­sen­zia­li­smo e fal­la­cia natu­ra­li­sti­ca – non nasce cer­to all’interno del­la psi­co­lo­gia: si trat­ta di un dispo­si­ti­vo che il fem­mi­ni­smo e gli stu­di post­co­lo­nia­li cer­ca­no con­ti­nua­men­te di sma­sche­ra­re e deco­strui­re. Tut­ta­via, la psi­co­lo­gia con­tem­po­ra­nea ne rap­pre­sen­ta oggi una del­le prin­ci­pa­li sedi di ripro­du­zio­ne, e se in cer­ti con­te­sti pos­sia­mo affer­ma­re con deci­sio­ne che la don­na non si ridu­ce all’utero e l’uomo non si ridu­ce al cro­mo­so­ma Y, altro­ve non esi­tia­mo a legit­ti­ma­re orien­ta­men­ti ses­sua­li o iden­ti­tà di gene­re sul­la base di pre­sun­te evi­den­ze gene­ti­che o neu­ro­bio­lo­gi­che. Una logi­ca con­trad­dit­to­ria che può tal­vol­ta ave­re valo­re tat­ti­co, ma che, assun­ta come oriz­zon­te poli­ti­co, con­se­gna le vite alla richie­sta mini­ma che ven­ga riti­ra­to il veto sul­la loro espres­sio­ne, sen­za mai inter­ve­ni­re sul­le con­di­zio­ni mate­ria­li in cui il dolo­re pren­de for­ma.

Fac­cia­mo un altro esem­pio, più deli­ca­to. La psi­co­lo­gia ha for­ni­to i dati per dimo­stra­re che, in caso di stu­pro, mol­te per­so­ne entra­no in uno sta­to di free­zing, di immo­bi­li­tà tonic immo­bi­li­ty , e che que­sta rea­zio­ne, lun­gi dall’essere un difet­to mora­le o una com­pli­ci­tà, è una rispo­sta neu­ro­fi­sio­lo­gi­ca auto­ma­ti­ca (Möl­ler et al. 2017; de la Tor­re Laso 2024). È sta­to impor­tan­te, for­se per­si­no fon­da­men­ta­le, che que­ste evi­den­ze venis­se­ro pro­dot­te e rico­no­sciu­te: han­no per­mes­so di con­fu­ta­re l’accusa, tan­to anti­ca quan­to infa­me, secon­do cui chi non resi­ste non subi­sce dav­ve­ro vio­len­za. Ma pro­prio qui vor­rei distin­gue­re i pia­ni. Sul pia­no stra­te­gi­co, l’uso dei dati psi­co­lo­gi­ci può ave­re un’utilità con­cre­ta. Su un pia­no di ana­li­si del pote­re, inve­ce, ciò che quei dati han­no fat­to è sta­to, in un cer­to sen­so, tra­sfor­ma­re in con­ces­sio­ne ciò che avreb­be dovu­to esse­re un rico­no­sci­men­to ovvio: la pos­si­bi­li­tà di non rea­gi­re fisi­ca­men­te alla vio­len­za sen­za per que­sto esse­re rite­nu­te com­pli­ci o con­sen­zien­ti. E se que­sta con­qui­sta ha richie­sto il tim­bro del­la psi­co­lo­gia, se è sta­to neces­sa­rio atten­de­re che degli stu­di pro­du­ces­se­ro un con­tro-argo­men­to che ci appa­re deci­si­vo di fron­te a un’obiezione che era ille­git­ti­ma in pri­ma istan­za, allo­ra la nostra rea­zio­ne non dovreb­be esse­re di gra­ti­tu­di­ne, ma di rab­bia. Rab­bia per gli spa­zi minu­sco­li entro i qua­li sia­mo costret­te a muo­ver­ci, rab­bia per l’idea che ci sia volu­ta una ricer­ca per con­ce­de­re ciò che avreb­be dovu­to esse­re rico­no­sciu­to da sem­pre. E rab­bia, infi­ne, pen­san­do al sol­lie­vo che que­sti dati han­no dato alle vit­ti­me, che, nega­te cul­tu­ral­men­te del­la pos­si­bi­li­tà di fidar­si di sé stes­se, han­no dovu­to atten­de­re una con­va­li­da ester­na per non sen­tir­si ‘sba­glia­te’ e per esse­re cre­du­te.

La psi­co­lo­gia, per come è strut­tu­ra­ta, non può che col­lo­car­si sul ver­san­te del­la licen­za. Non può che for­nir­ci que­sto tipo di aiu­to, che non pos­sia­mo che accet­ta­re rilut­tan­ti. Può soste­ne­re riven­di­ca­zio­ni stra­te­gi­che – che van­no quin­di atten­ta­men­te moni­to­ra­te – ma non rie­sce a pro­dur­re una liber­tà che sia al di fuo­ri del­lo spa­zio auto­riz­za­ti­vo e reat­ti­vo. Cer­to, que­sto non è un difet­to del­la psi­co­lo­gia, né un’accusa al suo ope­ra­to: in mol­ti casi, come que­sto, il suo inter­ven­to è sta­to neces­sa­rio. Ma pro­prio per que­sto occor­re vigi­la­re su come fun­zio­na que­sta uti­li­tà, su qua­li dispo­si­ti­vi di legit­ti­ma­zio­ne si fon­da e qua­li for­me di dipen­den­za pro­du­ce. Se voglia­mo impie­ga­re la psi­co­lo­gia in chia­ve poli­ti­ca, dob­bia­mo rico­no­sce­re che essa non può che ope­ra­re entro il peri­me­tro del per­mes­so. Dob­bia­mo ricor­dar­ci che, fuo­ri dal lin­guag­gio del buon-vive­re psi­co­lo­gi­co, nell’agire poli­ti­co il per­mes­so non va sem­pre chie­sto – anzi.

Il rischio, il pani­co, il sol­lie­vo di pre­ten­de­re

Occor­re allo­ra pen­sa­re una liber­tà che ecce­da radi­cal­men­te que­sto impian­to: non un sape­re che legit­ti­ma dall’alto, ma un agi­re che tra­sfor­ma dal bas­so; non un per­mes­so a esse­re, ma la costru­zio­ne di con­di­zio­ni in cui l’essere non richie­de alcu­na auto­riz­za­zio­ne. In que­sta pro­spet­ti­va, la liber­tà si con­fi­gu­ra come pra­ti­ca, e la pra­ti­ca è pre­te­sa. Se liber­tà signi­fi­ca sot­trar­si alla logi­ca del per­mes­so, allo­ra impli­ca il rischio di con­ce­der­si da sé il dirit­to di esi­ste­re, di dar­se­lo insie­me come col­let­ti­vi­tà, di recla­ma­re ciò che ci spet­ta. Pre­ten­de­re non vuol dire sopraf­fa­re, ma assu­me­re su di sé la for­za e l’azzardo del­la richie­sta: espor­si sen­za garan­zie, sen­za l’appoggio di un sape­re che cer­ti­fi­ca, sapen­do che ogni pre­te­sa può esse­re respin­ta, rifiu­ta­ta, repres­sa.

È un eser­ci­zio insta­bi­le che Bro­wn non a caso descri­ve come segna­to da ansia e ambi­va­len­za (Bro­wn, 1995, 24), per­ché chi pre­ten­de si espo­ne, rinun­cia alla pro­te­zio­ne di una legit­ti­ma­zio­ne ester­na, rischia: con le paro­le di Bro­wn: 

“Free­dom of the kind that seeks to set the terms of social exi­sten­ce requi­res inven­ti­ve and care­ful use of power rather than rebel­lion again­st autho­ri­ty; it is sober, exhau­sting, and without paren­ts” (Bro­wn 1995, 25). 

Ma è pro­prio in que­sta espo­si­zio­ne che risie­de la for­za poli­ti­ca del­la liber­tà: non nel riven­di­ca­re a par­ti­re dal­la feri­ta o dal dolo­re rico­no­sciu­to, ma nel rico­no­sce­re che nes­su­na liber­tà è inno­cen­te, che ogni atto di pre­te­sa si muo­ve den­tro rela­zio­ni di pote­re e di respon­sa­bi­li­tà. La liber­tà, in que­sto sen­so, non è leg­ge­rez­za né eman­ci­pa­zio­ne pura, ma un impe­gno: la fati­ca di eser­ci­ta­re pote­re cer­can­do di non ripro­dur­lo nei suoi aspet­ti dan­no­si, di agi­re sen­za garan­zie, di rispon­de­re del mon­do che si con­tri­bui­sce a tra­sfor­ma­re.

La pre­te­sa, in que­sto sen­so, ha del­le vici­nan­ze con l’esercizio del­la par­re­sia di cui par­la Fou­cault (2009): dire la veri­tà sen­za garan­zie, assu­men­do il rischio che il pote­re rea­gi­sca, che la paro­la ven­ga rifiu­ta­ta o puni­ta. Come la par­re­sia, anche la pre­te­sa non cer­ca legit­ti­ma­zio­ne ester­na, non si muo­ve nel­lo spa­zio sicu­ro del per­mes­so, ma si giu­sti­fi­ca nell’atto stes­so in cui si eser­ci­ta. Chi pre­ten­de, come chi par­la attra­ver­so la par­re­sia, non invo­ca un’autorità che cer­ti­fi­chi la veri­tà o il dirit­to del­la pro­pria posi­zio­ne: si espo­ne, met­te in gio­co se stes­so, assu­me su di sé il rischio del­la pro­pria for­za. Ma se la par­re­sia è innan­zi­tut­to un gesto indi­vi­dua­le, la pre­te­sa che qui ci inte­res­sa ha una dimen­sio­ne col­let­ti­va e imma­gi­na­ti­va: non si limi­ta a dire la veri­tà su ciò che sia­mo, ma recla­ma la pos­si­bi­li­tà di mon­di nuo­vi, di for­me di vita che anco­ra non han­no nome, e a cui vor­rei che des­si­mo un nome insie­me, come comu­ni­tà. È una pra­ti­ca che osa esi­ge­re oltre la feri­ta, nel­lo spa­zio ario­so del desi­de­rio e del­la spe­ran­za, che apre spa­zi che nes­su­na licen­za potreb­be mai con­ce­de­re.

For­se mi vie­ne in men­te la par­re­sia pro­prio per­ché mostra la sua dif­fe­ren­za rispet­to a un altro atto veri­ta­ti­vo che Fou­cault ave­va attri­bui­to anche alla psi­co­lo­gia, quel­lo del­la con­fes­sio­ne. Con­fes­sar­si signi­fi­ca dire la veri­tà di sé non per affer­mar­la, ma per con­se­gnar­la a un altro che la rac­co­glie, la inter­pre­ta, la giu­di­ca; è un atto che non si esau­ri­sce nel par­la­re, per­ché resta strut­tu­ral­men­te subor­di­na­to all’autorità di chi ascol­ta, sia essa il pre­te, il medi­co o lo psi­co­lo­go (Fou­cault 1978). 

La con­fes­sio­ne è, dun­que, una pra­ti­ca che pro­du­ce veri­tà sol­tan­to nel­la misu­ra in cui vie­ne rico­no­sciu­ta da un’istanza supe­rio­re: non basta dire, biso­gna che qual­cu­no con­va­li­di. È in que­sto scar­to che si gio­ca la dif­fe­ren­za deci­si­va: nel­la psi­co­lo­gia ci con­fes­sia­mo, nel­la poli­ti­ca pre­ten­dia­mo. Per para­fra­sa­re un cele­bre manua­le di auto-aiu­to psi­co­lo­gi­co, nel poli­ti­co ci tro­via­mo a esse­re i figli adul­ti di una disci­pli­na poli­ti­ca­men­te imma­tu­ra. È dif­fi­ci­le, è spa­ven­to­so, ma la buo­na noti­zia è che nel poli­ti­co non sia­mo mai soli: pos­sia­mo dar­ci il per­mes­so insie­me, legit­ti­mar­ci insie­me, soste­ner­ci nell’esercizio fra­gi­le e neces­sa­rio del­la spe­ran­za e del­la pre­te­sa.

Un pic­co­lo inci­so: il modo in cui la psi­co­lo­gia si poli­ti­ciz­ze­rà, ovve­ro diven­te­rà una disci­pli­na più con­sa­pe­vo­le del pro­prio ruo­lo socio­po­li­ti­co, avrà mol­to a che vede­re con il modo in cui si pen­sa e si pre­sen­ta al mon­do come scien­za: cioè con il modo in cui con­ce­pi­sce il pro­prio rap­por­to con il dato, con l’oggettività, e di con­se­guen­za con quel­la pre­te­sa di neu­tra­li­tà che, lun­gi dall’essere un pre­sup­po­sto inno­cuo, orien­ta in pro­fon­di­tà la sua pos­si­bi­li­tà di agi­re nel­lo spa­zio poli­ti­co. Ma que­sto è tut­to un altro arti­co­lo. 

Foto­gra­fia di Chia­ra Ales­san­dri

Biblio­gra­fia

Bro­wn, W. 1993. Woun­ded Atta­ch­men­ts, Poli­ti­cal Theo­ry, 21 (3), 390–410.

Bro­wn, W. 1995. Sta­tes of Inju­ry: Power and Free­dom in Late Moder­ni­ty. Prin­ce­ton (NJ), Prin­ce­ton Uni­ver­si­ty Press.

Bro­wn, W. 2015. Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revo­lu­tion. New York, Zone Books.

Castel, R. 2024. La gestio­ne dei rischi. Dall’antipsichiatria al post-psi­coa­na­li­si. Mime­sis, Mila­no.

De la Tor­re Laso, Jesús. 2024. “The Rea­li­ty of Tonic Immo­bi­li­ty in Vic­tims of Sexual Vio­len­ce: ‘I was Para­ly­zed, I Couldn’t Move’.” Trau­ma, Vio­len­ce & Abu­se 25 (2), 1630–1637.

Fisher, M. 2009a. Capi­ta­li­st Rea­li­sm: Is The­re No Alter­na­ti­ve? Win­che­ster: Zero Books.

Fisher, M. 2009b. The Pri­va­ti­za­tion of Stress, Soun­dings, 42, 123–33.

Fisher, M. 2014, 19 mar­zo. Good for Nothing, The Occu­pied Times 

https://theoccupiedtimes.org/?p=12841 

Fou­cault, M. 1961. Histoi­re de la folie à l’âge clas­si­que. Paris, Plon. Trad. it. Sto­ria del­la fol­lia nell’età clas­si­ca, Riz­zo­li, Mila­no, 1976.

Fou­cault, M. 1978. La volon­tà di sape­re, Fel­tri­nel­li, Mila­no.

Fou­cault, M. 2003. Le pou­voir psy­chia­tri­que. Cours au Col­lè­ge de Fran­ce (1973–1974). Paris, Seuil/Gallimard. Trad. it. Il pote­re psi­chia­tri­co. Cor­so al Col­lè­ge de Fran­ce (1973–1974), Fel­tri­nel­li, Mila­no, 2004.

Fou­cault, M. 2009. Il corag­gio del­la veri­tà. Il gover­no di sé e degli altri II. Cor­so al Col­lè­ge de Fran­ce (1983–1984), Fel­tri­nel­li, Mila­no.

Möl­ler, A., Hans, P. S., Lot­ti, H. 2017. “Tonic Immo­bi­li­ty during Sexual Assault – A Com­mon Reac­tion Pre­dic­ting Post­trau­ma­tic Stress Disor­der and Seve­re Depres­sion.” Acta Obste­tri­cia et Gyne­co­lo­gi­ca Scan­di­na­vi­ca, 96 (8), 932–938.

Rose, N. 2007. The Poli­tics of Life Itself: Bio­me­di­ci­ne, Power, and Sub­jec­ti­vi­ty in the Twen­ty-Fir­st Cen­tu­ry. Prin­ce­ton (NJ), Prin­ce­ton Uni­ver­si­ty Press.

Sin­gh, A. A., Vel McKle­roy. 2011. “A Prac­ti­ce Fra­mework for LGBT Affir­ma­ti­ve Coun­se­ling and Psy­cho­the­ra­py.” The Coun­se­ling Psy­cho­lo­gi­st, 39 (2), 167–210

 https://doi.org/10.1177/0011000010366160 .

Smail, D. 2005. Power, Inte­re­st and Psy­cho­lo­gy: Ele­men­ts of a Social Mate­ria­li­st Under­stan­ding of Distress. Ross-on-Wye, PCCS Books.

Con­di­vi­di:
I commenti sono chiusi
0
    0
    Carrello
    Il tuo carrello è vuotoRitorna allo shop