Se dovessi cedere allo sciocco quanto divertente passatempo di stilare una mia personale classifica dei film ‘più belli di tutti i tempi’ assegnerei la palma secondo diversi parametri: Quarto Potere di Orson Welles (1941) avrebbe uno scranno sul podio come, probabilmente, film più importante come impatto innovativo; Il Colore del Melograno di Sergej Parajanov (1969) come opera esteticamente più vicina al concetto di incanto supremo; 2001 – Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) come vertice dell’ardimento filosofico; Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij (1966) come abissale profondità spirituale; Mulholland Drive (2001) e l’ottava puntata, quale gioiello a sé stante, di Twin Peaks – The Return (2017) di David Lynch come visione misterica.
Ma se dovessi scegliere il film più significativo della settima arte, il più seminale, il più gravido di riflessioni filosofiche sullo stesso medium cinematografico, non avrei dubbio alcuno: Otto e mezzo di Federico Fellini (1963).
Se ‘felliniano’ è diventato un aggettivo, Otto e mezzo è diventato di per sé una categoria critica, quasi un genere a parte. Quante volte si è detto di un regista, ‘ha fatto il suo Otto e mezzo’, riferendosi a un tentativo di summa dei propri temi e di riflessione metacinematografica sul senso della propria arte – e dell’arte in assoluto?
Senza citare le opere che hanno dichiaratamente ripreso titolo e trama dell’opus magnum felliniano: pensiamo al tema analogo di Effetto notte di Truffaut del ‘73, al riferimento dichiarato di Stardust Memories di Woody Allen (1980), al cervellotico gioco di scatole cinesi di Synedoche, New York di Charlie Kaufman (2008), fino al più recente Un film fatto per Bene di Franco Maresco (2025).
“Creare un luogo comune è genio” scriveva nei suoi ultimi appunti Baudelaire (1861), sovvertendo, appunto, il luogo comune sul genio.
Il poeta francese aveva intuito quello che poi il suo erede eretico T.S. Eliot (1919) chiamerà “correlativo oggettivo”, il potere evocativo dell’immaginazione archetipica dell’immagine poetica.
Ecco ciò che è divenuto il film di Fellini, opera proverbiale – non nel senso mondano de La Dolce Vita, ma come categoria intellettuale – di un regista popolarissimo, fino a diventare egli stesso una voce del dizionario.
In breve, è difficile raccontare la trama del film, dacché lo smarrimento della trama – narrativa, artistica, filmica, esistenziale – è il tema stesso dell’opera.
Riassumendo brutalmente, il film racconta l’incapacità di Fellini di realizzare il film stesso.
Guido Anselmi, un famoso regista italiano in crisi d’ispirazione, non riesce a portare avanti, per la disperazione del produttore, un ambiziosissimo e costosissimo film di fantascienza. Si ritira in un centro termale, per cercare quiete mentale, ma viene presto risucchiato nel vortice d’impegni mondani, curiosi invadenti, amici e amanti… Soprattutto, è tormentato dai fantasmi della sua infanzia, simboli dei nodi irrisolti nelle sue relazioni con il sacro, con le donne e con se stesso.
Così, in un gioco tra realtà e finzione che va oltre Pirandello e Kurosawa, Fellini mette in scena se stesso attraverso il fedele alter ego di Marcello Mastroianni, la propria vita, i propri tradimenti, le proprie debolezze, il proprio fallimento.
E così, paradossalmente, realizza il suo capolavoro.
E in questo vertiginoso gioco di specchi, nel paradosso, di scontare lo iato tra rappresentazione e realtà, tra menzogna e verità, Fellini opera una catarsi tragica e gioiosa della propria miseria umana.
Supportato da sceneggiatori d’eccezione come Ennio Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi, il regista ci regala una serie di visioni apparentemente disconnesse, tra frammenti onirici, proiezioni psichiche, memorie trasognate e trasfigurazioni grottesche.
Eppure, checché ne dicano registi talentuosi ma molto lontani dalla potenza poetica felliniana come Luca Guadagnino, nessuna scena è gratuita o ridondante.
Chiunque abbia messo piede su un set cinematografico, può riconoscere nella rappresentazione grottesca del film, impreziosita dallo sguardo umoristico dello ‘spettatore addormentato Flaiano’, tutti i personaggi ricorrenti della grande Comédie humaine di Cinecittà: il produttore napoletano con amante sciocchina al seguito a metà tra il gagà e il gangster, le maestranze romane declinate tra stanchezza senile, astuzie impiccione e glaciale efficacia, i giornalisti pedanti, i paparazzi assedianti, la Corte dei Miracoli di figuranti, fascinosi o ridicoli.
Ma oltre a questo sfondo grottesco amorevolmente immortalato, il genio romagnolo mette in scena una vera e propria ghirlanda di personaggi indimenticabili, alcuni memorabili nella loro parodia stereotipata, altri luminosi nel loro nitore archetipico.
Nella rappresentazione del Femminile, Fellini compone la sua sinfonia memorabile, la sua più fulgida costellazione di archetipi.
Nella famigerata scena dell’harem immaginario, ogni aspetto dell’Eterno Femminino è presente: la moglie Luisa, interpretata da Anouk Aimée, fedele e servilmente obbediente, è il rovescio della nevrosi nella ‘realtà’ che va d’amore e d’accordo con Carla, l’amante fatua e procace nelle fattezze di Sandra Milo – proprio su quel set nacque la relazione adulterina col regista, a suggellare ancora una volta l’intreccio inestricabile tra vita e opera; la scoperta proibita della sensualità ferina e malinconica della Saraghina (Eddra Gale) e la grazia decadente della diva sul viale del tramonto (Madeleine LeBaeu), la dolce distanza della figura materna e le memorie infantili delle balie e delle loro giocose nenie in dialetto; tutto ciò col sottofondo ghignante dell’amica, confidente e streghetta Rossella Falk a testimoniare divertita il viavai di amanti reali o immaginarie – dall’algida hostess svedese alla procace danzatrice africana – nella messinscena mentale del protagonista.
Otto e mezzo è la testimonianza di uno stallo, creativo ed esistenziale.
Alla crisi esistenziale del protagonista non possono dare risposte né il dogma religioso – rappresentato, in una perfetta rappresentazione della ieraticità sorda al dialogo, dal Cardinale che si limita a citare Origene “extra ecclesiam nulla salus” – né il nichilismo postmoderno – divertentissima la scena in cui, durante i provini, Guido immagina di far impiccare Daumier, il borioso e incontentabile critico intellettuale interpretato da Jean Rougeul.
Ecco, dunque, nel finale, unica figura femminile di pura redenzione, Claudia, ovvero la Cardinale – in un gioco di parole forse involontariamente ironico con la sterile distanza spirituale del corrispettivo maschile: un omaggio quasi stilnovistico alla bellezza femminile, nella sua manifestazione più universalmente riconosciuta.
Già ne La Dolce Vita, nell’iconica scena dentro la Fontana di Trevi, lo stesso Marcello Mastroianni si riferiva ad Anita Ekberg in termini squisitamente archetipici, come in una litania alla Dea Iside: «Tu sei la prima donna del primo giorno della creazione. Sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo, la terra, la casa…».
Ancor più nel caso di Claudia Cardinale, il ruolo simbolico è dichiarato – il personaggio che avrebbe dovuto interpretare nel film è La Ragazza della Fonte. E anche qui il collegamento all’acqua come elemento di rigenerazione spirituale non fa pensare solo a Venere, ma al suo precedente archetipo indiano, la dea Lakshmi: «Sono venuta per far ordine, sono venuta per far pulizia», ripete nella visione onirica Claudia. Non solo dea del focolare, ma, appunto, Colei che smaschera ogni falsità. In cinque minuti di dialogo memorabile, solo davanti alla bellezza pura di Claudia, che smonta ogni sua scusa – il famoso «perché non sa voler bene» ripetuto tre volte per inchiodare al proprio egoismo il protagonista – il cinismo di Guido fa cadere la maschera e confessa il suo inganno: «Non c’è la parte nel film. Non c’è neanche il film. Non c’è niente di niente da nessuna parte».
La figura di Claudia, nella luce rivelativa della sua accecante bellezza, introduce allo scioglimento della vicenda, il famosissimo finale, per capire il quale credo sia necessario introdurre un concetto cardine della filosofia orientale, di cui secondo me il film è la perfetta rappresentazione nella cultura occidentale moderna.
Nell’induismo, l’intera creazione è vista come una manifestazione ludica del Divino, scaturita da pura libertà, gioia e creatività: Leela (o Lila), il gioco cosmico.
Vedremo, alla luce di questa visione, come nell’incapacità di creazione individuale umana, il protagonista troverà senso solo nel dissolversi nel grande gioco della creazione divina.
Intendo chiarire che questa non è solo una forzatura esegetica di uno spettatore fissato con l’Oriente che vuole piegare le visioni felliniane alle proprie ossessioni filosofiche.
Il rapporto fecondo di suggestione ed esplorazione di Fellini con le filosofie orientali, come in più largo senso dell’esoterismo e del paranormale, è noto.
Ricordo una conversazione a notte fonda, nei vicoli romani dietro Piazza Vescovio, con Marco Lodoli – proprio lui, l’unico a cogliere e a ricordare garbatamente a Carmelo Bene come la sua ricerca mistica fosse già risolta nella Bhagavad Gita – il quale mi confermò come, spesso, parlava con Fellini di guru orientali e di testi sacri induisti.
Fellini leggeva Jung e consultava spesso l’IChing, oracolo certo non indiano ma perfetta sintesi della visione orientale del divenire nel tempo ciclico.
L’idea della realtà come sogno di Brahma, deità dalla funzione creatrice nella Trimurti induista, non poteva che essere di grande suggestione per un autore che ha fatto della visione onirica la sostanza stessa della sua poetica.
Nel film la moglie del Mago – figura chiave, come vedremo – e dotata di poteri telepatici, si chiama proprio Maya: ovvero la dea induista che rappresenta il concetto, poi ripreso da Schopenhauer in altra accezione, di divina illusione connessa alla creazione.
Al di là, dunque, di un manifesto collegamento con l’Inconscio Collettivo, non è peregrino accostare concetti della tradizione spirituale indiana alla weltanschaaung felliniana.
Nel meraviglioso pantheon delle deità indù, la figura probabilmente più simbolicamente avvinta al concetto di Leela è Bala Krishna, il Krishna bambino, divinamente birichino.
Nella letteratura sacra, ad esempio nel Bhagavata Purana o Śrīmad Bhāgavatam del IX‑X sec. d.C., poi rielaborata nelle continue variazioni mitologiche e fiabesche dello sterminato sincretismo popolare indiano, ci sono innumerevoli aneddoti che testimoniano l’aspetto ludico del dio bimbo: le marachelle come rubare il burro – simbolo di madhurya, la dolcezza divina – o il proteggere i devoti sollevando con un dito il monte Govardhana.
Uno degli attributi di Krishna è il flauto, con cui incanta le pastorelle gopi in una danza – detta proprio Rasa Leela, che potremmo tradurre “gioco dell’estasi” – evidente invito metaforico a unirsi al gioco cosmico.
La divina giocosità infantile del dio ispira il grande messaggio mistico della Bhagavad Gita: testimoniare l’intero dramma dell’esistenza come un gioco, una commedia divina.
L’invito a una conoscenza perenne, a uno sguardo sub specie aeternitatis non può che condurre a una visione di sereno e giocoso distacco.
In Occidente, tale consapevolezza esoterica affonda le sue radici in uno dei più celebri frammenti di Eraclito (1980): Aion – il Tempo Eterno – è un fanciullo che gioca con le sue pedine.
Torniamo ora a Otto e mezzo.
Nel finale del film, dopo una disastrosa e umiliante conferenza stampa in cui Guido ha come via d’uscita onorevole solo un simbolico suicidio, ovvero la rinuncia al film, il regista si ritrova in una macchina ferma – come nel claustrofobico sogno iniziale – con l’intellettuale Daumier, assistendo allo smantellamento dell’astronave destinata alla scena madre del film, simbolo del fallimento del proprio ego ipertrofico.
Guido ascolta il monologo nichilista dell’intellettuale che sentenzia spietato: «Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine… Distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie».
E qui, nel silenzio, nel fallimento della razionalità, accade il miracolo.
Davanti alle ceneri della propria vanità, nella nigredo del proprio senso, ecco subitaneo, come il risveglio della Kundalini, un satori poetico e commovente: nel vuoto del proprio ego ritratto, nel vilamba – lo spazio tra i due pensieri esperito dal meditante ‘sahaj’, ovvero praticante dello yoga ‘spontaneo’ – fiorisce l’irrazionale, soave leggerezza della gioia di vivere.
Proprio durante la spietata critica nichilista del critico sorgono, come controcanto, le immagini poetiche dell’infanzia, la calma compostezza dei genitori, la cura e il tepore delle balie, il sorriso sublime della purezza di Claudia Cardinale.
Il finale di Otto e mezzo è la massima espressione filmica del post-moderno, ma anche la sua condanna e il superamento mistico della sua miseria nichilistica.
Ne La terra desolata del citato Eliot, dopo la decostruzione totale rimane il mosaico di riferimenti poetici a redimere lo smarrimento esistenziale — «con questi frammenti ho puntellato le mie rovine» — fino a far risuonare il perenne rintocco del mantra induista sulla pace universale: Om Shanti Shanti Shanti.
Allo stesso modo, il monologo finale interiore del protagonista di Otto e mezzo è vetta e superamento dell’esistenzialismo, dello Zeitgeist novecentesco, un’epifania joyciana che supera la memoria del tempo perduto proustiana in un attimo d’illuminazione improvvisa:
«Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo… com’è giusto accettarvi, amarvi… E com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato: tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero…»
Come in ogni esperienza mistica, il protagonista si scontra con l’ineffabile: «Ah, come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire.».
Ed è in quel momento che il benevolo trickster magico, l’amico Mago che per tutto il film è stato figura di supporto poetico – sappiamo quanto Fellini fosse amico e ammiratore di Gustavo Rol – apre le porte dell’’intuizione suprema, la più commovente rappresentazione dell’amor fati della storia del cinema: tutti i personaggi del film/mondo felliniano salgono insieme su una passerella, in un girotondo giocoso.
Una scena che metterebbe d’accordo Buddha, Seneca e Nietzsche.
Fellini rappresenta mirabilmente l’accettazione del proprio destino, la reintegrazione dell’Ombra, la fusione col daimon, il dissolvimento delle proprie maschere nel proprio Sé, in un abbraccio collettivo e carnascialesco.
Il girotondo finale non è solo un’immediata e antica allegoria circense dell’esistenza, ma è la vittoria del tempo ciclico, della coscienza perenne sulle miserie della ‘storia’, personale e collettiva.
Una meravigliosa danza in cui alla fine anche Guido/Fellini sale, mano nella mano con sua moglie, in un ricongiungimento simbolico con la sua Shakti, divenendo così, come da dettato della Bhagavad Gita, regista e protagonista, attore e testimone della sua stessa opera.
Una danza chiusa, con poetica commozione, dal Guido bimbo, danzante col flauto, esattamente come Bala Krishna, che guida fuori scena i musici giullari, a ricordarci come un comandamento poetico il messaggio definitivo e comune di ogni grande tradizione, il lampo sapienziale che illumina la coscienza: «È una festa la vita, viviamola insieme».
Fotografia di Alfredo Tessieri
Bibliografia
Baudelaire, Charles. [1861] 2016. Fusées. Mon coueur mis à nu et autres fragments posthume, Gallimard, Paris.
Eliot, T. S. [1919] 1967. Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e la critica, trad. di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano.
Eraclito. 1980. I frammenti, a cura di Giorgio Colli, Adelphi, Milano, fr. 52.