Dopo diversi anni che non lo facevo, ho riguardato uno dei cartoni Disney della mia infanzia: Le avventure di Bianca e Bernie (1977). Nella prima delle peripezie vissute dai due topini, Miss Bianca e il Signor Bernie devono salvare l’orfana Penny dalle grinfie di Madame Medusa, la proprietaria di un banco dei pegni alla disperata ricerca di un diamante noto come “l’occhio del diavolo”. In una delle scene per me più memorabili e più angoscianti, Medusa si rivolge al suo goffo complice Snoops, che ha appena lasciato scappare Penny per l’ennesima volta, e, puntandogli un dito lungo e affusolato contro il naso, gli sibila cattivissima: «Snoops, tu sei troppo tenero».
Ecco, mi chiedo se non sia questo il punto. Non con Penny e il suo orsacchiotto – era solo un gancio –, ma con noi. Siamo diventate troppo tenere, troppo sensibili? O siete voi che non ci prendete abbastanza sul serio?
A inizio agosto 2024 ero a Terni. Io e il mio compagno avevamo affittato per una settimana una grande casa in campagna per scrivere in pace le ultime pagine delle nostre tesi di dottorato: lui sui personaggi ipocondriaci – tutti uomini –, io sulle donne artificiali – tutte oggetti. Erano mesi che pensavamo a questa casa: al bosco, al lago, alle stanze studio da condividere solo a volte e se ci andava, perché ci sono giorni in cui c’è bisogno di solitudine e altri in cui invece è più bello parlare. Del resto, ci è capitato spesso di leggerci cose a vicenda e che i nostri percorsi di ricerca accademica si intrecciassero in punti inaspettati e, in effetti, a sentirlo parlare di medici un po’ faustiani e di pazienti oniricamente febbricitanti, da qualche giorno mi era venuta voglia di rileggere La montagna incantata di Thomas Mann, ma nella versione di Audible letta da Roberto Herlitzka, peraltro allora da poco scomparso. Inoltre, c’era di mezzo anche il mio 33esimo compleanno: avevo immaginato un pellegrinaggio laico tra Pasolini – Petrolio – e la Torre di Chia; un po’ di mostri a Bomarzo e una birra fresca, in perfetto stile millennial, stanca e senza Dio. Invece è andata che ho festeggiato come Gesù a Pasqua, ma con meno miracoli e più flebo: morendo e resuscitando in Pronto Soccorso per colpa di un corpo luteo emorragico esploso. Settecento millilitri di sangue nell’addome, un’operazione chirurgica d’urgenza e un ricovero di dieci giorni in ginecologia.
Eravamo arrivati da un giorno in questa casa di campagna — era proprio il giorno del mio compleanno — quando sono svenuta e sono stata portata d’urgenza al Pronto Soccorso. Quando è iniziata la degenza, dopo l’operazione e almeno un giorno dopo quello in cui ho fatto la medusa sul letto, immobile, dormendo tutto il tempo insieme alle mie estensioni artificiali a entrambi i lati del corpo – come una medusa, appunto – per quelli col gusto dell’esattezza: catetere, drenaggio, flebo e, più tardi, trasfusione, stavo quindi già leggendo Der Zauberberg (1924). Ero arrivata precisamente al momento in cui Hans Castorp, senza saperlo, si consegna alla polizia ospedaliera del Berghof. A onor di cronaca: avevo anche cominciato Eileen di Ottessa Moshfegh (2015) e le poesie di Nicanor Parra (2019). Il primo, però, avrei dovuto leggerlo dal mio Kindle vecchiotto e sapevo già che mi avrebbe fatto aumentare il perenne mal di testa; il secondo, invece, mi aveva fatto già deprimere abbastanza sul mio futuro da precaria nella scuola media italiana. Non potevo rischiare di farmi passare la voglia di fare un lavoro qualsiasi, fosse anche in un istituto di correzione come Eileen. Così, a un certo punto, ho messo un paio di cuffie e ho riavviato l’audiolibro.
Quello della Montagna magica – titolo ripristinato grazie alla stupenda interpretazione di Luca Crescenzi, curatore del Meridiano –, dura diverse ore: ma tanto, come filosofeggia il protagonista del romanzo, in ospedale il tempo è una messinscena dilatata. Ero più o meno nel posto giusto, no? Potevo immedesimarmi al massimo, no?
No. Non avrei dovuto farlo.
La verità è che quando il corpo si rivela per quel che è, un organismo indipendente da te e dal tuo bisogno di farti una specie di vacanza, non ci sono né cugini né innamoramenti fugaci a salvarti – a meno che non sia tutto un sogno, a meno che tu non sia una specie di ipocondriaco ed essere malato sia, appunto, il ‘tuo’ sogno. Durante la mia degenza, non ho incontrato nessun pedagogo all’altezza di Settembrini: solo due missionarie indiane che erano incuriosite dal mio turbante contro il mal di testa, annodato come usa, da loro, fare per gli uomini; qualche infermiera che ha capito che piangevo perché era strano non riuscire ad alzarmi dal letto e una dottoressa severa che però una volta mi ha mandato dei baci da lontano – la stessa davanti a cui qualche giorno dopo sarei scoppiata a piangere perché non ce la facevo più.
Tuttavia, potevo morire e non sono morta, potevo essere tagliata in due e così non è stato, potevo perdere un’ovaia e non l’ho persa, potrò – se vorrò – anche avere dei figli. Erano passati cinque giorni così, a ripetermi queste cose e a capire che cosa fosse un follicolo ovarico perché, nonostante sia adulta e il mio migliore amico un ginecologo bravissimo, non l’avevo mica capito ancora bene. Era cioè ormai Ferragosto quando Madame Chauchat abbandonava il sanatorio Berghof e anche Settembrini se ne andava, e pure io avrei dovuto essere dimessa. Quando Castorp si gettava nella tormenta di neve, stavo infatti proprio aspettando che il dottore di turno mi visitasse per sancire la mia liberazione: avevo passato non so quante ore, il giorno prima, a fantasticare su come avrebbe confermato le diagnosi rassicuranti delle altre dottoresse, su come me l’avrebbe detto. Non è facile stare in un ospedale quando inizi a sentirti meglio.
Invece non è andata bene, non sono stata dimessa. Valori ancora troppo instabili, dopotutto una trasfusione non è una cosa da poco. Contrariamente alle altre dottoresse e infermiere che mi avevano visitato con costanza fino ad allora, il dottor S. di turno quel giorno – nome di pura invenzione omaggiando Svevo, un altro ipocondriaco – non se la sentiva di lasciarmi andare. «Aspetta almeno fino a domani l’esame delle sei per l’emoglobina». Mi è sembrato di essere Castorp quando si misura per la prima volta la temperatura e scopre che sì, in effetti quel sintomo che il medico del sanatorio aveva osservato con sospetto fin dall’inizio non era affatto da sottovalutare. Il tutto con un meraviglioso senso di sospensione e, insieme, di inspiegabile orgoglio.
E però il dottor S. non è stato solo l’autore, forse giusto, di una pesante disillusione. È stato anche le mani che mi hanno dato un buffetto sulla pancia quando, dopo averla tastata come avevano sempre fatto fino a quel momento le dottoresse per capire se sentivo dolore, se c’era ancora sangue nell’addome e strizzandomela un po’ tra un punto e un cerotto, mi ha chiesto: «Questa è la tua solita pancetta?».
A questa domanda ho risposto titubante per diversi motivi: perché mi faceva impressione guardare là dove fino a un giorno prima avevo un tubo a estrarre sangue; perché era oggettivamente difficile giudicare; per quel meccanismo difensivo che avrei poi imparato a chiamare freezing e che, come suggerisce la parola, mi aveva immobilizzata, non capivo cosa stesse succedendo e come reagire.
«Sì, forse adesso è un po’ più gonfia del solito però…», ho fatto in tempo a dire ma lui, buffetto, se n’era già andato. Quando era ancora sulla soglia della mia stanza mi sono ripresa, gli ho chiesto di dirmi almeno il valore dell’emoglobina preso la sera prima a mezzanotte, se era salito e a quanto, a quanto doveva ancora salire per permettermi di uscire.
«Certo che è salito, ci mancherebbe, dopo la trasfusione».
Nessuno dei due ha avuto il tempo di dire “arrivederci” perché lui se n’era già andato: aveva furia, era Ferragosto, c’erano pochi medici in giro.
Naturalmente non si parla qui né dello stato di forma della mia pancia né del fatto che probabilmente non riuscirò mai più a immedesimarmi davvero in Hans Castorp – è mai stato possibile? – ma dei gesti e delle parole che puoi scegliere quando hai il tempo, il modo e forse la responsabilità di farlo per bene.
Quando ho raccontato la cosa ai miei genitori, venuti fino a Terni da Pistoia solo perché pensavano di riportarmi a casa, li ho visti che si guardavano negli occhi e non capita spessissimo. Avevano appena finito di raccontarmi di quando a mia nonna materna era stato dato del tu da una dottoressa e lei aveva risposto, rigidissima: «Prego!??», perché non si doveva permettere così tanta confidenza. Una storia nota, conosco bene il carattere altero, esageratamente orgoglioso che aveva mia nonna. Mio padre invece mi aveva raccontato un episodio nuovo, di quando cioè suo padre era stato operato alle corde vocali e, non potendo parlare, aveva mandato a quel paese con un semplice gesto il medico che quel giorno lo aveva chiamato per numero, e non per cognome. Però dopo il mio sfogo si sono guardati negli occhi. Qual è il confine tra un comportamento paternalistico, una tendenza a desoggettivare o a infantilizzare, e una storiella di famiglia? L’avevano capito loro? Io non lo so, e del resto per il dottor S. non ero né un numero né un cognome. Ero semplicemente “Lavinia”, e una “pancetta” da schiaffeggiare. Forse però quello sguardo tra i miei genitori era già una diagnosi. Mi ero consegnata anche io alla polizia ospedaliera, come Castorp? Ne sarei mai uscita?
Ma anche – dapprima in sordina e poi, piano piano, andante: avrebbe mai dato un buffetto sulla pancia di Castorp, il mio caro dottor S.?
Perché quello che è successo a me non è un caso grave o lampante, credo, ma non è nemmeno isolato. Lo stesso hanno denunciato altre donne, più e meno giovani come me. Penso a Marzia Sardo, che poche settimane fa ha raccontato la battuta di un operatore mentre faceva una TAC al Policlinico Umberto I di Roma: «Se vuoi togliere anche il reggiseno fai felici tutti».
Penso a tante altre che hanno parlato di parole inappropriate, di allusioni, di battute paternalistiche o sessiste ricevute proprio nei momenti di maggiore fragilità. Al fatto insomma che forse la mia sensazione di freezing non era dovuta al mio stato particolare, non era colpa mia o della mia goffaggine: era semplicemente il mio corpo che reagiva a un pericolo perché è programmato così. Non ero io ‘troppo sensibile’, era il dottor S. che stava oltrepassando un limite. Non sono storie di medici mostruosi, spesso sono ‘solo’ dettagli: un buffetto, un commento fuori posto, una battuta di troppo. Eppure segnano, umiliano, lasciano una cicatrice che si somma alle cicatrici fisiche. Siamo troppo sensibili noi, come Snoops, che ci indigniamo per un buffetto, per una frase? O siete voi che continuate a non capire quanto sia cruciale, per una donna stesa su un letto d’ospedale, il modo in cui la guardate e le parlate?
Per la mia tesi di dottorato ho letto e riletto Ventre di donna, romanzo del 1919 della futurista Enif Robert, sottotitolo: Romanzo chirurgico. Dopo questa mia esperienza ospedaliera ho sperimentato una profondissima sorellanza nelle parole che Robert scrive per raccontare e superare, scrivendo, i numerosi asfissianti ricoveri che dovette subire per un malfunzionamento delle ovaie: un peccato mortale, allora più di oggi, essere una donna ‘difettosa’. Se ci riuscite, recuperate il libro e provate a non deprimervi di fronte alle pagine dedicate ai deleteri e umilianti incontri con i dottori e le infermiere che la visitavano e giorno dopo giorno, controllo dopo controllo, e interrogavano il suo corpo come se fosse solo carne andata a male. Per colpa sua. «Ormai so di cosa SI ACCUSA il mio organismo», scrive la protagonista. Perché quando sei una paziente donna in un reparto di ostetricia/ginecologia e non stai per avere un figlio, a volte sei solo questo: carne, buffetto, saluti. Se va peggio, insulti: «pazza! pazza! pazza!»; «lame di sguardi che tagliano odiosamente prima del bisturi», scrive Robert. Anche quando non riesci ad avere un figlio è lo stesso.
L’autrice ha raccontato – cento anni prima che lo vivessi in prima persona – cosa significa essere un corpo femminile sul tavolo operatorio, un corpo da rimettere insieme che, però, non guarisce mai del tutto proprio a causa delle parole di chi lo dovrebbe curare.
Un secolo dopo, quante di noi si sentono ancora così?
Per non limitarsi alla cronaca, di libri che mostrano come i medici interagiscono col corpo delle donne prima, dopo e durante un percorso medico ne sono usciti parecchi altri dopo quello di Robert, che del resto è quasi dimenticato per gli stessi motivi per cui allora ebbe un po’ di successo – perché era scritto a quattro mani con Marinetti. Ne ha parlato in un saggio recente anche Ramona Onnis, raccogliendo i primi racconti italiani su percorsi di procreazione medicalmente assistita: si chiama In viaggio verso un figlio (2024) e mostra bene come l’esperienza clinica delle donne continui a essere opaca, sovraesposta o infantilizzata dalla società – ospedaliera e non solo –, anche quando le donne sono alla ricerca spesso disperante, sempre appassionata, di diventare madri. Penso al romanzo di Antonella Lattanzi, di cui Onnis si occupa, e che, fin dal titolo, parla di omissioni e non detti, mancanze e rimproveri in qualche modo interiorizzati: Cose che non si raccontano (2023) parla di un percorso tormentoso di maternità ma anche di parole, gesti, (pre)giudizi che, fuori e dentro i corpi delle donne, nel privato e nel politico, se c’è davvero una differenza, non riusciamo ancora del tutto a raccontare.
E allora torno alla domanda: siamo troppo sensibili?
All’ospedale di Terni nessuno mi ha dato dell’isterica come è capitato a Enif Robert.
Non ho subìto un abuso grave come invece alcune delle donne dei romanzi sulla Procreazione Medicalmente Assistita di cui si è occupata Onnis o come riportano i sempre più numerosi fatti di cronaca in Italia – dal Policlinico Umberto I all’ospedale Maggiore di Bologna: mi ripeto che è stato solo per la fretta, un buffetto di noia e nient’altro, ma è inutile mentire, avrei preferito che quelle mani non mi trattassero in quel modo. Se il dottor S. avesse voluto instaurare un rapporto di complicità con me, lo avrebbe potuto fare chiedendomi che audiolibro stessi ascoltando quando è entrato nella mia camera, o anche solo rispondendo con un semplice numero alla mia domanda sull’emoglobina, come tutte le altre dottoresse prima di lui. L’emoglobina è salita fino a qui, deve arrivare fino a qua. È un atto minimo, ma è la differenza tra essere una paziente e diventare solo carne gonfia su un lettino. Del resto, ormai sappiamo che il linguaggio non è mai neutro, che un buffetto non è mai solo un buffetto. Che dire ‘pancetta’ a una donna che ha appena subito un’operazione d’urgenza significa anche ridurla, minimizzare il suo dolore, infantilizzarla. La risposta, allora, è chiara: non siamo diventate troppo sensibili, abbiamo semplicemente imparato a farci prendere sul serio. Ma possiamo scongelarci solo parlando, problematizzando di più e alzando la voce insieme.
Fotografia di Valentina De Santis
Bibliografia
Il Fatto Quotidiano. 2025, 23 agosto. “Io, molestata durante una Tac all’Umberto I di Roma”: la denuncia di Marzia Sardo diventa virale”:
Lattanzi, A. 2023. Cose che non si raccontano, Einaudi, Torino.
La Repubblica. 2025, 16 marzo, “Ragazza ricoverata al Maggiore denuncia: “Molestata da un operatore sanitario”. Aperta un’inchiesta”:
Mann, T. [1924] 2011. [Der Zauerberg] La montagna incantata, Corbaccio, Milano.
Moshfegh, O. 2015. Eileen, Mondadori, Milano.
Parra, N. 2019. L’ultimo spegne la luce, Bompiani, Milano.
Onnis, R. 2024. In viaggio verso un figlio, Meltemi, Milano.
Pasolini, P. P. 1992. Petrolio, Einaudi, Torino.
Enif, R. & Marinetti, F. T. 1919 .Ventre di donna. Romanzo chirurgico, Facchi Editore, Milano.