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Ottobre
16 Ottobre 2025

MARIAN­NA UCRÌA: IL SILEN­ZIO CHE PAR­LA. RITRAT­TO DI UNA FEM­MI­NI­STA ANTE LIT­TE­RAM

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La lun­ga vita di Marian­na Ucrìa, pub­bli­ca­to dal­la casa edi­tri­ce Riz­zo­li nel 1990 e vin­ci­to­re del Pre­mio Cam­piel­lo, rap­pre­sen­ta uno dei ver­ti­ci nar­ra­ti­vi di Dacia Marai­ni. Scrit­tri­ce, poe­tes­sa, dram­ma­tur­ga e voce impre­scin­di­bi­le del­la let­te­ra­tu­ra ita­lia­na con­tem­po­ra­nea, Marai­ni ha dedi­ca­to gran par­te del­la sua pro­du­zio­ne alla rifles­sio­ne sul­la con­di­zio­ne fem­mi­ni­le, intrec­cian­do memo­ria per­so­na­le, inda­gi­ne sto­ri­ca e impe­gno civi­le. 

Figlia di una fami­glia col­ta e cosmo­po­li­ta, tra­scor­se l’infanzia in Giap­po­ne, dove fu inter­na­ta in un cam­po di con­cen­tra­men­to in segui­to al rifiu­to dei geni­to­ri di soste­ne­re la Repub­bli­ca di Salò. In età adul­ta, ha par­te­ci­pa­to atti­va­men­te alle bat­ta­glie fem­mi­ni­ste degli anni Set­tan­ta. Non sor­pren­de, dun­que, che nel ritrat­to di Marian­na Ucrìa si riflet­ta la sua atten­zio­ne costan­te ver­so figu­re di don­ne che resi­sto­no all’oppressione socia­le.

Ambien­ta­to nel­la Sici­lia del XVIII seco­lo, La lun­ga vita di Marian­na Ucrìa rico­strui­sce un mon­do di con­tra­sti: lo splen­do­re baroc­co del­le vil­le nobi­lia­ri e la mise­ria estre­ma dei con­ta­di­ni, il pote­re asso­lu­to dell’aristocrazia e il gio­go dell’Inquisizione, la rigi­da mora­le patriar­ca­le e la vita pri­va­ta segna­ta da vio­len­za e sopru­so. Marian­na Ucrìa, ispi­ra­ta a un’antenata di Marai­ni — l’autrice stes­sa ne rac­con­ta bre­ve­men­te in Baghe­ria (1993) — nasce in una fami­glia nobi­le, e, all’età di tre­di­ci anni, vie­ne costret­ta a spo­sa­re lo zio, l’uomo che l’aveva vio­len­ta­ta da bam­bi­na ren­den­do­la sor­do­mu­ta. La sua vita si sno­da tra gra­vi­dan­ze impo­ste, lut­ti, incon­tri inat­te­si, viag­gi e ami­ci­zie che la apro­no a nuo­vi oriz­zon­ti intel­let­tua­li e cul­tu­ra­li.

Il muti­smo di Marian­na, cau­sa­to dal trau­ma, è una meta­fo­ra poten­te: il silen­zio a cui la socie­tà rele­ga le don­ne. Anzi­ché ras­se­gnar­si, la pro­ta­go­ni­sta tra­sfor­ma però la sua con­di­zio­ne in una for­za: “Il silen­zio si era impa­dro­ni­to di lei come una malat­tia o for­se una voca­zio­ne” (Marai­ni 1990, 53). Marian­na comu­ni­ca attra­ver­so la scrit­tu­ra, divo­ra libri — “Usci­re da un libro è come usci­re dal meglio di sé” (Marai­ni 1990, 67) — svi­lup­pa un pen­sie­ro cri­ti­co e col­ti­va la curio­si­tà ver­so il mon­do. La sua vita è segna­ta da una con­sa­pe­vo­lez­za luci­da: «Gli occhi han­no l’ambizione di pos­se­de­re le for­me com­ple­te nel­la loro inte­gri­tà» (1990, 123), fra­se che non è solo un’osservazione sen­so­ria­le, ma il mani­fe­sto del­la sua sete di cono­scen­za e del­la sua volon­tà di com­pren­de­re il mon­do oltre le appa­ren­ze.

La vita di Marian­na Ucrìa si con­fi­gu­ra come un per­cor­so di cre­sci­ta inte­rio­re e di affran­ca­men­to intel­let­tua­le in un mon­do pro­fon­da­men­te ingiu­sto e gerar­chi­co, domi­na­to da un rigi­do patriar­ca­to. La sua con­di­zio­ne di sor­do­mu­ta, che ini­zial­men­te la rele­ga ai mar­gi­ni del­la comu­ni­ca­zio­ne e del­la vita socia­le, diven­ta para­dos­sal­men­te il pun­to di par­ten­za per uno sguar­do più acu­to e pene­tran­te sul­la real­tà. Marian­na svi­lup­pa una visio­ne del mon­do che non si accon­ten­ta del­le veri­tà impo­ste dal­la cul­tu­ra domi­nan­te: attra­ver­so lo stu­dio, la let­tu­ra, la scrit­tu­ra e l’osservazione atten­ta, costrui­sce una pro­pria coscien­za cri­ti­ca, uni­ca e rivo­lu­zio­na­ria per il con­te­sto in cui vive. La sua diver­si­tà, lon­ta­na dall’isolarla, diven­ta il moto­re di una com­pren­sio­ne più pro­fon­da del­le dina­mi­che socia­li. A dif­fe­ren­za del­le don­ne del suo ceto, Marian­na non si limi­ta a com­pi­ti deco­ra­ti­vi: gesti­sce beni, osser­va con atten­zio­ne le ingiu­sti­zie socia­li, inter­vie­ne per aiu­ta­re gli oppres­si. In un pas­sag­gio rive­la­to­re, di fron­te alla mise­ria con­ta­di­na, pen­sa: «For­se la giu­sti­zia non è di que­sto mon­do, ma il mio cuo­re non lo accet­ta» (Marai­ni 1990,156). Il suo sguar­do non è indif­fe­ren­te alle sof­fe­ren­ze altrui e in que­sta fra­se si con­den­sa tut­ta la ten­sio­ne mora­le che gui­da le sue scel­te: se il mon­do si fon­da sull’ingiustizia, Marian­na non si ras­se­gna. È una don­na che, pur nei limi­ti sto­ri­ci impo­sti dal­la sua epo­ca, com­pie pic­co­li ma signi­fi­ca­ti­vi atti di resi­sten­za, oppo­nen­do alla ras­se­gna­zio­ne l’empatia, alla pas­si­vi­tà l’azione, al silen­zio impo­sto la for­za del pen­sie­ro. 

Marai­ni, attra­ver­so que­sta figu­ra, costrui­sce un per­so­nag­gio che si fa emble­ma del­la pos­si­bi­li­tà di tra­sfor­ma­zio­ne: Marian­na non è solo testi­mo­ne del cam­bia­men­to, ma ne diven­ta agen­te, incar­nan­do una for­ma di eman­ci­pa­zio­ne silen­zio­sa ma tena­ce e andan­do a rap­pre­sen­ta­re dun­que un model­lo di fem­mi­ni­sta ante lit­te­ram: rifiu­ta la defi­ni­zio­ne di don­na come pro­prie­tà maschi­le, cri­ti­ca i matri­mo­ni impo­sti, cer­ca rela­zio­ni basa­te sul­la liber­tà, difen­de le altre don­ne, valo­riz­za l’istruzione come stru­men­to di eman­ci­pa­zio­ne (Che­mel­lo 2005). In un’epoca in cui il valo­re fem­mi­ni­le era misu­ra­to dal­la capa­ci­tà di gene­ra­re figli maschi, la sua prio­ri­tà è la digni­tà del­la per­so­na, non il rispet­to del­le con­ven­zio­ni socia­li. La sua capa­ci­tà di resi­ste­re è sin­te­tiz­za­ta in una fra­se che suo­na come un mani­fe­sto: «Non c’è silen­zio che pos­sa impe­di­re a un pen­sie­ro di nasce­re» (Marai­ni 1990, 192).

La figu­ra di Marian­na Ucrìa si può acco­sta­re ad un’altra pro­ta­go­ni­sta del pano­ra­ma let­te­ra­rio con­tem­po­ra­neo, che, pur immer­sa in un con­te­sto sto­ri­co e cul­tu­ra­le pro­fon­da­men­te oppres­si­vo, rie­sce a espri­me­re una for­ma di resi­sten­za, non attra­ver­so atti cla­mo­ro­si o rivo­lu­zio­ni ester­ne, ma attra­ver­so una ribel­lio­ne inti­ma, silen­zio­sa e inte­rio­re: si trat­ta di Ceci­lia, figu­ra cen­tra­le di Sta­bat Mater di Tizia­no Scar­pa (2008). Ceci­lia, orfa­na cre­sciu­ta nell’Ospedale del­la Pie­tà nel­la Vene­zia set­te­cen­te­sca, vive un’esistenza di iso­la­men­to e pri­va­zio­ne. L’istituto in cui cre­sce la for­ma per diven­ta­re musi­ci­sta, ma le nega affet­to, veri­tà e iden­ti­tà; lei non cono­sce l’origine del­la pro­pria esi­sten­za e sen­te su di sé un vuo­to enor­me: la man­can­za del­la madre. La sua ribel­lio­ne pren­de cor­po attra­ver­so due stru­men­ti: la musi­ca, che diven­ta per lei lin­guag­gio dell’anima, e la scrit­tu­ra, che eser­ci­ta in segre­to, di not­te, attra­ver­so let­te­re imma­gi­na­rie rivol­te a quel­la madre assen­te. Ceci­lia non si ribel­la aper­ta­men­te, ma col­ti­va den­tro di sé un’urgenza di espres­sio­ne che sfug­ge al con­trol­lo dell’istituzione e la ren­de, di fat­to, libe­ra nel pen­sie­ro. Marian­na e Ceci­lia sono, dun­que, due don­ne pri­va­te del­la paro­la: entram­be, però, rie­sco­no a ‘par­la­re’ attra­ver­so for­me diver­se: la scrit­tu­ra, l’arte, la rifles­sio­ne. Non gri­da­no la loro pro­te­sta, ma la lascia­no emer­ge­re nei gesti quo­ti­dia­ni, nel­le doman­de che si pon­go­no, nel­la ricer­ca osti­na­ta di un sen­so. In un’epoca in cui le don­ne era­no spes­so ridot­te a ogget­ti muti, esse si affer­ma­no come sog­get­ti pen­san­ti, capa­ci di intro­spe­zio­ne e di resi­sten­za.

Il per­so­nag­gio di Marian­na Ucrìa dia­lo­ga ideal­men­te con le don­ne del fem­mi­ni­smo nove­cen­te­sco, soprat­tut­to con quel­le che, negli anni Ses­san­ta e Set­tan­ta, riven­di­ca­ro­no il dirit­to all’istruzione, alla libe­ra scel­ta del part­ner, all’autodeterminazione del cor­po. Come loro, Marian­na com­pren­de che la liber­tà pas­sa attra­ver­so la con­sa­pe­vo­lez­za cul­tu­ra­le e la capa­ci­tà di sot­trar­si a ruo­li pre­de­fi­ni­ti. La sua figu­ra sem­bra per cer­ti ver­si anti­ci­pa­re alcu­ne istan­ze cen­tra­li del secon­do fem­mi­ni­smo — quel­lo che, con ope­re come Il secon­do ses­so del 1949 di Simo­ne de Beau­voir e Spu­tia­mo su Hegel del 1981 di Car­la Lon­zi, rifiu­ta­va l’idea del­la don­na come ‘altro’ rispet­to all’uomo e denun­cia­va il patriar­ca­to come strut­tu­ra socia­le e cul­tu­ra­le radi­ca­ta. L’opera di De Beau­voir, una del­le più influen­ti nel­la sto­ria del pen­sie­ro fem­mi­ni­sta, rap­pre­sen­ta una svol­ta fon­da­men­ta­le nel dibat­ti­to sul­la con­di­zio­ne del­la don­na. L’autrice affron­ta la que­stio­ne del­la “dif­fe­ren­za ses­sua­le” non come una real­tà natu­ra­le e immu­ta­bi­le, ma come una costru­zio­ne cul­tu­ra­le e sto­ri­ca che ha posto la don­na in una posi­zio­ne subal­ter­na rispet­to all’uo­mo e ritie­ne che che la libe­ra­zio­ne del­la don­na può avve­ni­re solo attra­ver­so l’autodeterminazione, la pre­sa di coscien­za del suo sta­to di oppres­sio­ne e la lot­ta con­tro le strut­tu­re socia­li che la man­ten­go­no in quel­la con­di­zio­ne. De Beau­voir esplo­ra inol­tre come la socie­tà abbia socia­liz­za­to le don­ne per inte­rio­riz­za­re que­sto ruo­lo di ‘altro’ e come la mater­ni­tà, la ses­sua­li­tà e la fami­glia sia­no sta­ti stru­men­ti di domi­na­zio­ne e oppres­sio­ne (Ros­si-Doria, 2008).

Il per­cor­so di Marian­na Ucrìa nel roman­zo di Marai­ni rien­tra nel­le dina­mi­che descrit­te da de Beau­voir: la pro­ta­go­ni­sta, come mol­te don­ne nel­la sto­ria, è vis­su­ta come ‘l’al­tro’ nel­la sua socie­tà e nel­la sua fami­glia, ma la sua evo­lu­zio­ne ver­so la con­sa­pe­vo­lez­za di sé è un per­cor­so di rot­tu­ra con l’immagine ste­reo­ti­pa­ta del­la don­na pas­si­va e sot­to­mes­sa. Il suo rifiu­to del matri­mo­nio impo­sto e la ricer­ca di uno spa­zio per­so­na­le di pen­sie­ro e azio­ne richia­ma­no anche le pra­ti­che del movi­men­to di libe­ra­zio­ne del­le don­ne in Ita­lia, nato nel 1970, che soste­ne­va l’autocoscienza come stru­men­to per ‘pren­de­re paro­la’ sul pro­prio cor­po e la pro­pria vita. Come nel caso di Marian­na Ucrìa, che alla fine del roman­zo acqui­si­sce una con­sa­pe­vo­lez­za radi­ca­le del­la sua con­di­zio­ne e dei limi­ti impo­sti dal patriar­ca­to, anche Lon­zi, con la sua ope­ra, invi­ta le don­ne a non cer­ca­re il rico­no­sci­men­to all’interno di una cul­tu­ra che le ha sem­pre mar­gi­na­liz­za­te, ma a crea­re nuo­ve for­me di pen­sie­ro e nuo­ve pra­ti­che di vita che sia­no libe­re dal­le dina­mi­che patriar­ca­li.

Tan­to nel pen­sie­ro di Simo­ne de Beau­voir quan­to in quel­lo di Car­la Lon­zi, si tro­va un for­te rifiu­to del­la con­di­zio­ne di subal­ter­ni­tà del­la don­na, che è sto­ri­ca­men­te costrui­ta e isti­tu­zio­na­liz­za­ta da una cul­tu­ra patriar­ca­le che la vede come la par­te man­can­te rispet­to all’uomo (Ros­si-Doria, 2008). Marian­na Ucrìa è con­sa­pe­vo­le di esse­re sta­ta rele­ga­ta a una posi­zio­ne subor­di­na­ta nel­la socie­tà. La sua eman­ci­pa­zio­ne, però, non pas­sa attra­ver­so l’ac­cet­ta­zio­ne del­le strut­tu­re socia­li che la oppri­mo­no, ma attra­ver­so un len­to e dolo­ro­so pro­ces­so di risco­per­ta del­la sua voce, del­la sua liber­tà e del suo pen­sie­ro auto­no­mo, allo stes­so modo in cui Lon­zi non accet­ta il pen­sie­ro filo­so­fi­co che la ridu­ce a un ‘ogget­to’ da deci­fra­re, ma riven­di­ca la sua sog­get­ti­vi­tà. Marian­na, attra­ver­so il suo per­cor­so di con­sa­pe­vo­lez­za, sem­bra pre­fi­gu­ra­re il tipo di auto­no­mia fem­mi­ni­le che entram­be que­ste autri­ci auspi­ca­no: un’autonomia che non cer­ca con­fer­me nel siste­ma cul­tu­ra­le domi­nan­te, ma che, al con­tra­rio, rifiu­ta quel siste­ma e cer­ca di costrui­re nuo­ve for­me di vita, di pen­sie­ro e di rela­zio­ne.

Eppu­re, men­tre il fem­mi­ni­smo nove­cen­te­sco si è espres­so con mani­fe­sta­zio­ni pub­bli­che, col­let­ti­vi e cam­pa­gne legi­sla­ti­ve — per il divor­zio, per la leg­ge sull’aborto, per la pari­tà sala­ria­le — la bat­ta­glia di Marian­na è pri­va­ta, silen­zio­sa, con­dot­ta nel­lo spa­zio ristret­to del­le sue rela­zio­ni e del­la sua casa. Tut­ta­via, que­sta dimen­sio­ne dome­sti­ca non ne smi­nui­sce la por­ta­ta rivo­lu­zio­na­ria: nel­la Sici­lia del XVIII seco­lo, leg­ge­re testi stra­nie­ri, ammi­ni­stra­re beni, pro­teg­ge­re una ser­va da un’ingiusta con­dan­na, o sem­pli­ce­men­te rifiu­ta­re di sot­to­met­ter­si pas­si­va­men­te, equi­va­le­va a sov­ver­ti­re l’ordine costi­tui­to. In que­sto sen­so, Marian­na si pone come una ‘sorel­la lon­ta­na’ del­le fem­mi­ni­ste nove­cen­te­sche: il suo lin­guag­gio non è quel­lo del­lo slo­gan, ma quel­lo del gesto pri­va­to, e la sua arma non è la piaz­za, ma la pagi­na scrit­ta. Entram­be, però, con­di­vi­do­no la stes­sa aspi­ra­zio­ne: libe­ra­re la don­na dal­la gab­bia del ruo­lo impo­sto. 

Tut­ta­via, è impor­tan­te ricor­da­re che Marian­na Ucrìa non era una don­na del popo­lo, ma appar­te­ne­va all’aristocrazia sici­lia­na. La sua posi­zio­ne socia­le le garan­ti­va pri­vi­le­gi mate­ria­li, un cer­to acces­so alla cul­tu­ra e un’autonomia gestio­na­le impen­sa­bi­le per mol­te altre don­ne del suo tem­po. Ed è pro­prio da que­sta posi­zio­ne di appa­ren­te pote­re che si sve­la la con­trad­di­zio­ne: Marian­na, pur nobi­le, era pur sem­pre una don­na in un siste­ma patriar­ca­le in cui il gene­re annul­la­va ogni altro tito­lo. Le sue bat­ta­glie, per quan­to ‘pri­va­te’, era­no tutt’altro che invi­si­bi­li: si con­fron­ta­va­no diret­ta­men­te con il pote­re maschi­le, incar­na­to nel mari­to – che è anche suo zio – e nel­la logi­ca fami­lia­re che ave­va nor­ma­liz­za­to il suo stu­pro infan­ti­le, tra­ve­sten­do­lo da dove­re matri­mo­nia­le. Il mari­to, figu­ra emble­ma­ti­ca del­la vio­len­za isti­tu­zio­na­liz­za­ta, non è solo l’uomo che la pos­sie­de con­tro la sua volon­tà, ma rap­pre­sen­ta anche la con­ti­nui­tà di un ordi­ne socia­le in cui le don­ne sono ogget­ti da scam­bia­re per pre­ser­va­re il patri­mo­nio. 

Marian­na non denun­cia aper­ta­men­te, non può far­lo nel con­te­sto in cui vive, ma ela­bo­ra len­ta­men­te un rifiu­to inte­rio­re che si tra­du­ce in scel­te con­cre­te: si iso­la emo­ti­va­men­te, col­ti­va il sape­re, edu­ca i figli a un pen­sie­ro più libe­ro, e, dopo la mor­te del mari­to, assu­me il con­trol­lo del patri­mo­nio fami­lia­re. Il suo silen­zio, spes­so let­to come con­dan­na alla pas­si­vi­tà, diven­ta inve­ce lo spa­zio di una resi­sten­za ela­bo­ra­ta e pro­fon­da, una for­ma di soprav­vi­ven­za e affer­ma­zio­ne indi­vi­dua­le in un mon­do che la vole­va sot­to­mes­sa. 

In defi­ni­ti­va, la figu­ra di Marian­na Ucrìa dimo­stra che la lot­ta per l’autodeterminazione fem­mi­ni­le può nasce­re anche tra le mura di un palaz­zo nobi­lia­re, e che la con­sa­pe­vo­lez­za non è pri­vi­le­gio del­la moder­ni­tà: è un seme che può ger­mo­glia­re ovun­que ci sia ingiu­sti­zia, pur­ché qual­cu­no tro­vi il corag­gio – o il dolo­re – per ascol­tar­la. Marian­na diven­ta così un arche­ti­po che attra­ver­sa i seco­li: la don­na che, pur impri­gio­na­ta in una strut­tu­ra socia­le oppres­si­va, rie­sce a tra­sfor­ma­re i vin­co­li in oppor­tu­ni­tà di resi­sten­za e cre­sci­ta per­so­na­le. La sua voce non si sen­te, ma si leg­ge e si avver­te: «Gli occhi par­la­no e nes­su­no può impe­dir­lo» (Marai­ni 1990, 121). In un’altra rifles­sio­ne, Marian­na sem­bra in qua­le modo anti­ci­pa­re l’idea di sorel­lan­za: «Fra don­ne ci si rico­no­sce, anche sen­za paro­le» (Marai­ni 1990, 188).

Con La lun­ga vita di Marian­na Ucrìa, Dacia Marai­ni non rac­con­ta sol­tan­to la sto­ria di una don­na lon­ta­na dai det­ta­mi del suo seco­lo, ma mostra come la con­sa­pe­vo­lez­za di sé pos­sa esse­re il pri­mo pas­so ver­so il cam­bia­men­to. Uno degli aspet­ti più poten­ti del roman­zo, infat­ti, è pro­prio l’e­vo­lu­zio­ne inte­rio­re di Marian­na; la sua con­sa­pe­vo­lez­za di sé non nasce in un solo momen­to, ma è il frut­to di un per­cor­so lun­go e tor­tuo­so, in cui la pro­ta­go­ni­sta riflet­te con­ti­nua­men­te sul­la pro­pria con­di­zio­ne e sul­le ingiu­sti­zie che subi­sce. Il silen­zio impo­sto dal­la sua sor­di­tà diven­ta un cana­le pri­vi­le­gia­to di cono­scen­za, un luo­go in cui Marian­na, lon­ta­no dai rumo­ri e dai dik­tat socia­li, può final­men­te ascol­ta­re la sua voce inte­rio­re, spes­so igno­ra­ta dal mon­do. È pro­prio que­sta con­sa­pe­vo­lez­za di sé che le per­met­te­rà, nel cor­so del roman­zo, di sfi­da­re le con­ven­zio­ni e di pren­de­re deci­sio­ni che la por­ta­no a un gra­dua­le e dolo­ro­so riscat­to.

Marian­na non ha voce, eppu­re il suo silen­zio è più elo­quen­te di mil­le pro­cla­mi: un atto di resi­sten­za che la avvi­ci­na alle bat­ta­glie fem­mi­ni­ste di ogni epo­ca, ricor­dan­do­ci che l’emancipazione comin­cia sem­pre da uno sguar­do cri­ti­co sul pro­prio mon­do e da una volon­tà incrol­la­bi­le di non pie­gar­si.

Foto­gra­fia di Andrea Camio­lo

Biblio­gra­fia

De Beau­voir, S. [1949] 1961. Il secon­do ses­so (Le Deu­xiè­me Sexe, 1949), trad. it. Can­ti­ni R., Andreo­se M.,  Il Sag­gia­to­re, Mila­no.

Che­mel­lo, A. 2005. Marian­na Ucrìa: il silen­zio come resi­sten­za, in Le eroi­ne del­la nar­ra­ti­va con­tem­po­ra­nea, a cura di F. Guar­nie­ri, pp. 89–104, Don­zel­li, Roma.

Lon­zi, C.1970. Spu­tia­mo su Hegel e altri scrit­ti, Scrit­ti di Rivol­ta Fem­mi­ni­le, Mila­no

Magaz­ze­ni, L. 2001. Scrit­tu­re di don­ne tra memo­ria e fin­zio­ne, in Qua­der­ni di ita­lia­ni­sti­ca, vol. 22, n. 2, 117–130.

Marai­ni, D. 1990. La lun­ga vita di Marian­na Ucrìa, Riz­zo­li, Mila­no.

Marai­ni, D. 1993. Baghe­ria, Riz­zo­li, Mila­no.

Mon­do, L. 1990, 16 otto­bre. “La Sici­lia del­la Marai­ni: una nobil­don­na con­tro il suo desti­no”, La Stam­pa.

Ros­si-Doria A. 2008. “Il movi­men­to del­le don­ne in Ita­lia. Espe­rien­ze, rela­zio­ni e pra­ti­che poli­ti­che (1968–1978)”, in Ita­lia con­tem­po­ra­nea, n. 253, Viel­la, Roma.

Scar­pa, T. 2008, Sta­bat Mater, Col­la­na Super­co­ral­li, Einau­di, Tori­no.

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