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Agosto
6 Agosto 2025

SPA­RI­RE PER RESI­STE­RE

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In Giap­po­ne miglia­ia di per­so­ne spa­ri­sco­no ogni anno. Lo fan­no per sal­var­si.
E, in fon­do, for­se, lo vor­rem­mo anche noi

Quan­do lo dice­va, mia madre, mi face­va pau­ra. Ero pic­co­la. Lei, gio­va­ne. Gio­va­ne, cre­do. Se io ero pic­co­la, lei dove­va esser­lo per for­za. Se ne usci­va con la stes­sa non­cu­ran­za con cui si scio­glie­va la lun­ga trec­cia e la rian­no­da­va, disin­te­res­sa­ta alla tavo­la davan­ti a lei, ai piat­ti, i suoi, che rima­ne­va­no sem­pre in par­te pie­ni, ai segni di stu­po­re – o tri­stez­za? – che trac­cia­va den­tro agli occhi scu­ri di mio padre, alla pau­ra di quel­la me pic­co­la e bam­bi­na che cre­sce­va a dismi­su­ra e si mani­fe­sta­va, soprat­tut­to di not­te, negli incu­bi che anco­ra, spes­so, mi accom­pa­gna­no. Sem­pli­ce­men­te, lo dice­va. 

«Te lo imma­gi­ni che esco da quel­la por­ta, una sera o una mat­ti­na, anche così, mal­ve­sti­ta, anche in cami­cia da not­te. Te lo imma­gi­ni che esco da quel­la por­ta sen­za indos­sa­re gli abi­ti adat­ti o tra­sci­nar­mi uno zai­no o una vali­gia e, sola­men­te, me ne vado? Te lo imma­gi­ni che esco, un gior­no, e non tor­no più?» 

Lo dice­va così. Non come uno scher­zo, come una che non ci deve nem­me­no pen­sa­re, che lo sa che pri­ma o poi capi­ta ed è così e basta, come le cose che nes­su­no ci ha potu­to fare nien­te, che c’è un momen­to in cui suc­ce­do­no e, più o meno, lo sape­va­mo tut­ti. Ma pro­prio tut­ti. In quel caso, non si sareb­be potu­to dire che mio padre o io non lo sapes­si­mo, non fos­si­mo pre­pa­ra­ti. Lei lo dice­va così. Non impor­ta­va il momen­to. Si vede che lo dice­va quan­do le veni­va in men­te di poter­lo fare. E anche solo quel­lo, for­se, le basta­va. Anche il solo sape­re che c’era un gesto sem­pli­ce, faci­le pro­prio, natu­ra­le qua­si, che avreb­be potu­to sal­var­la da tut­ti quan­ti, soprat­tut­to da noi, da quell’immagine di sé stes­sa con noi che dove­va per for­za esse­re diver­sa da quel­lo che era sta­ta pri­ma di esse­re madre, pri­ma di esse­re moglie, pri­ma di esse­re gran­de. Anche se, per for­za, se io ero pic­co­la, lei dove­va esse­re anco­ra gio­va­ne. 

A me, face­va pau­ra. E anco­ra più pau­ra il fat­to che né io né mio padre le rispon­des­si­mo nien­te. 

«Te lo imma­gi­ni che esco, un gior­no, e non tor­no più?»

E io, sì, me lo imma­gi­na­vo e mia madre era una don­na seria, pen­so di aver­la vista ride­re poche, pochis­si­me vol­te, e ci cre­de­vo a quel­le paro­le e non pote­vo dire di igno­ra­re quel suo pen­sie­ro o voglia di fare, non pote­vo dire che no, non ci ave­vo mai pen­sa­to, non me l’aspettavo pro­prio. E non vole­vo. Era la mia mam­ma. Eppu­re, né mio padre, né io le abbia­mo mai rispo­sto nien­te. Non capi­vo. Ades­so, sì. Ci pen­so anche io, ades­so, che ho, cre­do, la stes­sa età, che non ho mari­to o figli a cui por­re quel­la doman­da e a cui, di cer­to, non cre­do la por­rei. Ades­so che la capi­sco, com­pren­do anche il corag­gio che ci vole­va a pro­nun­cia­re quel­le fra­si che sem­bra­va­no sfug­gir­le con leg­ge­rez­za dal­le lab­bra scre­po­la­te esta­te e inver­no. Per­ché io, oggi, spa­ri­rei e basta. Non un viag­gio, non l’estero, non un tra­sfe­ri­men­to, non un anno sab­ba­ti­co. E, soprat­tut­to, nes­su­na avvi­sa­glia, nes­sun pre­av­vi­so, nes­sun reca­pi­to. Nien­te. Eva­po­ra­re. Lascia­re ogni cosa: nome, lavo­ro, respon­sa­bi­li­tà, trac­ce digi­ta­li, fami­glia – quel­la che non ho, quel­la che for­se avrò, quel­la che, di sicu­ro, dovrei ave­re o ci si aspet­ta che io abbia. Dis­sol­ver­si sen­za lascia­re bigliet­ti, chiu­de­re tut­to e non dire nien­te. 

Non è solo un pen­sie­ro, lumi­no­so per chi lo pen­sa, oscu­ro per chi lo subi­sce, che affio­ra nei momen­ti di stan­chez­za – o bur­nout, come ci pia­ce chia­mar­lo oggi, paro­la che non si usa­va trop­po ai tem­pi in cui era gio­va­ne mia madre. È una sal­vez­za. È una pos­si­bi­li­tà. Da quan­do fac­cio yoga la mat­ti­na, mi stu­pi­sce sem­pre la fra­se: «Ogni nuo­vo gior­no è una secon­da pos­si­bi­li­tà. Ogni nuo­va pra­ti­ca una ter­za.» A mia madre allo­ra, a me ades­so, ne baste­reb­be una secon­da e lo yoga è fin trop­po. Basta usci­re da una por­ta, non salu­ta­re nes­su­no: non tor­na­re mai più. In Giap­po­ne, deci­ne di miglia­ia di per­so­ne lo fan­no ogni anno. Si chia­ma­no joha­tsu (蒸発): vite che sva­ni­sco­no, che abbrac­cia­no una nuo­va pos­si­bi­li­tà. Let­te­ral­men­te, “per­so­ne che eva­po­ra­no”.

Secon­do The Vani­shed di Léna Mau­ger e Sté­pha­ne Remael (2016), in Giap­po­ne si sti­ma che ogni anno tra le 80.000 e le 100.000 per­so­ne scom­pa­ia­no volon­ta­ria­men­te.

Il feno­me­no non è nuo­vo, non rispon­de ai pres­san­ti rit­mi di vita a cui ci han­no sot­to­po­sto con­su­mi­smo sfre­na­to, digi­ta­liz­za­zio­ne o avven­to dell’intelligenza arti­fi­cia­le. Nasce, però, in un sostra­to non dis­si­mi­le, negli anni ’60, in pie­no boom eco­no­mi­co, quan­do la pres­sio­ne socia­le diven­ta una for­za silen­zio­sa e tota­liz­zan­te in Giap­po­ne. E allo­ra per­de­re il lavo­ro, divor­zia­re, fal­li­re, mostra­re debo­lez­za, sen­ti­re e ammet­te­re di non far­ce­la sono atti che, in una socie­tà rigi­da­men­te costrui­ta sul­l’o­no­re e sul­la for­ma, pos­so­no diven­ta­re inso­ste­ni­bi­li. E, per mol­ti, lo sono diven­ta­ti. Inve­ce di affron­ta­re la ver­go­gna pub­bli­ca­men­te, c’è chi ha scel­to di scom­pa­ri­re. In silen­zio. Eva­po­ra­re per non esplo­de­re. Anche que­sta è una for­ma di sal­vez­za e ognu­no si sal­va come può.

Per com­pren­de­re il joha­tsu biso­gna pas­sa­re da una paro­la: haji (慚愧). In giap­po­ne­se indi­ca la ver­go­gna, ma, a dif­fe­ren­za di quan­to pos­sia­mo espe­ri­re in Occi­den­te, qui, non è solo un sen­ti­men­to indi­vi­dua­le. È un diso­no­re che coin­vol­ge la comu­ni­tà, la fami­glia, il lavo­ro, i lega­mi, qua­lun­que ema­na­zio­ne e pro­pa­ga­zio­ne dell’individuo. Per­ché l’er­ro­re – se sem­pre una col­pa dob­bia­mo tro­va­re – non è mai solo tuo, è anche e soprat­tut­to del­le per­so­ne che ti han­no for­ma­to. Ecco come in una socie­tà for­te­men­te inter­di­pen­den­te, in cui la repu­ta­zio­ne è qua­si onto­lo­gi­ca, la ver­go­gna può diven­ta­re intol­le­ra­bi­le. Dovreb­be esse­re allo­ra più com­pren­si­bi­le, di fron­te a que­sta cul­tu­ra dell’haji per­ché, per alcu­ni – che a me sem­bra­no mol­ti – spa­ri­re diven­ta un atto di pro­te­zio­ne: dal­la ver­go­gna e per la ver­go­gna. Un modo radi­ca­le per non dan­neg­gia­re gli altri. Ma anche per sot­trar­si a una rete di con­trol­lo socia­le che non con­tem­pla il fal­li­men­to. È la cul­tu­ra del tate­mae (建前) – il vol­to pub­bli­co – con­trap­po­sta all’hon­ne (本音), il sé inte­rio­re. Quan­do que­sti due livel­li non coin­ci­do­no più, la spa­ri­zio­ne diven­ta l’unico modo per evi­ta­re la frat­tu­ra.

Il Giap­po­ne è una socie­tà fon­da­ta su un dop­pio regi­stro dell’identità: tate­mae (建前) e hon­ne (本音). Il pri­mo è il vol­to pub­bli­co, ciò che ci si aspet­ta da te: la masche­ra socia­le, il com­por­ta­men­to con­for­me, il dove­re. L’hon­ne è inve­ce ciò che sen­ti dav­ve­ro: pen­sie­ri, desi­de­ri, sof­fe­ren­ze, con­trad­di­zio­ni. Que­sta distin­zio­ne è così inte­rio­riz­za­ta che non è con­si­de­ra­ta ipo­cri­sia, ma una neces­si­tà rela­zio­na­le e socia­le. Secon­do l’antropologa Ruth Bene­dict, che nel suo sag­gio The Chry­san­the­mum and the Sword (1947) esplo­ra il con­cet­to di ver­go­gna nel­la cul­tu­ra giap­po­ne­se, la socie­tà nip­po­ni­ca è una sha­me cul­tu­re, dove la mora­li­tà è rego­la­ta dall’immagine pub­bli­ca più che dal­la coscien­za per­so­na­le. In que­sto qua­dro, per­de­re la fac­cia è un trau­ma esi­sten­zia­le. Da qui nasce la neces­si­tà di fuga. Anco­ra, il socio­lo­go Takeo Doi, nel suo libro The Ana­to­my of Depen­den­ce (1971), sug­ge­ri­sce che l’identità giap­po­ne­se è pla­sma­ta da una ten­sio­ne costan­te tra omo­te (表) – il fuo­ri –  e ura (裏) – il den­tro: un dua­li­smo che non cer­ca sin­te­si ma soprav­vi­ve nel dise­qui­li­brio. Quan­do que­sta ten­sio­ne implo­de, e non c’è spa­zio per l’espressione dell’hon­ne, la scel­ta diven­ta bina­ria: resta­re e disin­te­grar­si, o andar­se­ne e dis­sol­ver­si.

Que­sta spa­ri­zio­ne, allo­ra, non è solo fuga, ma anche una for­ma estre­ma di coe­ren­za. Un modo per evi­ta­re la frat­tu­ra insa­na­bi­le tra ciò che si è e ciò che ci si aspet­ta che si sia. Il joha­tsu è la con­se­guen­za silen­zio­sa di una pres­sio­ne iden­ti­ta­ria che non tol­le­ra incon­gruen­ze, devia­zio­ni, esi­ta­zio­ni. Ma non si trat­ta di un gesto impul­si­vo o anar­chi­co: al con­tra­rio, è una fuga rego­la­ta, qua­si ritua­le, che obbe­di­sce a un codi­ce non scrit­to di rispet­to e discre­zio­ne. È un’u­sci­ta silen­zio­sa che, pur negan­do i lega­mi, li ono­ra nel­la for­ma: chi scom­pa­re non infran­ge le rego­le, le aggi­ra con gra­zia. Non lascia scan­da­lo, non impo­ne con­flit­ti. È una sot­tra­zio­ne ordi­na­ta, che si com­pie pro­prio per non vio­la­re l’armonia col­let­ti­va. In un cer­to sen­so, è anche un gesto di cura ver­so gli altri – la fami­glia, i col­le­ghi, la comu­ni­tà – che non ven­go­no tra­sci­na­ti nel discre­di­to o nel­la ver­go­gna. È uno scom­pa­ri­re per non dan­neg­gia­re. Non è una diser­zio­ne sfre­na­ta, ma una for­ma di leal­tà obli­qua. E così, anche chi eva­po­ra resta den­tro le maglie del­la nor­ma: scom­pa­re per non rom­pe­re, per non distur­ba­re. Per pro­teg­ge­re.

In una socie­tà come quel­la giap­po­ne­se, alla luce di quan­to visto fino­ra, la fuga, que­sto tipo di fuga, diven­ta un ser­vi­zio: spa­ri­re non è più una scel­ta soli­ta­ria, ma un’opzione sul mer­ca­to. Esi­sto­no, infat­ti, azien­de che si occu­pa­no, let­te­ral­men­te, di far­ti scom­pa­ri­re. Si chia­ma­no yoni­ge-ya, “agen­zie per la fuga not­tur­na”. Lavo­ra­no in silen­zio, nell’ombra, spes­so su segna­la­zio­ne o con pas­sa­pa­ro­la. Non pub­bli­ciz­za­no i loro ser­vi­zi, non rila­scia­no dichia­ra­zio­ni. Ma per chi vuo­le spa­ri­re, sono una pro­mes­sa di sal­vez­za.

Il ter­mi­ne yoni­ge (夜逃げ) indi­ca pro­prio “la fuga not­tur­na” (Yoni (夜) è la not­te, Ge (逃げ) è la fuga – il ver­bo nige­ru signi­fi­ca fug­gi­re – Ya (屋) indi­ca l’agenzia, il nego­zio; quin­di yonige‑ya signi­fi­ca let­te­ral­men­te “azienda/negozio del­la fuga not­tur­na”), ed è tra­di­zio­nal­men­te lega­to a chi abban­do­na casa e debi­ti sen­za avvi­sa­re nes­su­no. Ma oggi lo sce­na­rio è più com­ples­so. Le agen­zie moder­ne di spa­ri­zio­ne for­ni­sco­no pia­ni det­ta­glia­ti per cam­bia­re cit­tà, tro­va­re un appar­ta­men­to ano­ni­mo, disat­ti­va­re o cam­bia­re il tele­fo­no, lascia­re il lavo­ro sen­za lascia­re trac­ce, in alcu­ni casi per­si­no otte­ne­re una nuo­va iden­ti­tà, seb­be­ne solo uffi­cio­sa­men­te. Tut­to può esse­re orga­niz­za­to in poche ore. Il momen­to pre­fe­ri­to è, come dice il nome, la not­te. Quan­do la cit­tà dor­me, tu smet­ti di esi­ste­re. E io pen­so sem­pre a mia madre che apre la por­ta, in cami­cia da not­te, scal­za, for­se.

«Quan­do la ver­go­gna supe­ra la pau­ra, si spa­ri­sce» dice una ex clien­te inter­vi­sta­ta nel libro The Vani­shed di Léna Mau­ger (Mau­ger & Remael 2016, 77). Ave­va lascia­to un mari­to vio­len­to e due figli. Nes­su­no ha spor­to denun­cia. Nes­su­no l’ha cer­ca­ta dav­ve­ro.

Le yoni­ge-ya più sofi­sti­ca­te offro­no anche sup­por­to psi­co­lo­gi­co, assi­sten­za nel tro­va­re lavo­ro in nero, coper­tu­ra sani­ta­ria tem­po­ra­nea. Alcu­ne col­la­bo­ra­no con ONG, altre ope­ra­no al con­fi­ne con la lega­li­tà. Ma non è ille­ga­le spa­ri­re in Giap­po­ne, a meno che, cer­to, non vi sia­no rea­ti con­nes­si – fro­di, fur­ti, rapi­men­ti. Se un adul­to sce­glie di andar­se­ne e non è in peri­co­lo, la poli­zia non inda­ga. È una zona gri­gia, e for­se pro­prio per que­sto social­men­te accet­ta­ta. Mol­ti paren­ti nem­me­no denun­cia­no la scom­par­sa – e mio padre? e io? Cosa avrem­mo fat­to noi? For­se, alla fine, noi era­va­mo il Giap­po­ne. Il silen­zio, in un con­te­sto come quel­lo giap­po­ne­se, può esse­re let­to come una scel­ta rispet­ta­bi­le: un taci­to rico­no­sci­men­to che qual­co­sa era trop­po, che la per­so­na non pote­va più resta­re.

Un esem­pio rea­le è la Yoni­geya TS Cor­po­ra­tion, atti­va nel­la peri­fe­ria di Tokyo, che secon­do il Time sup­por­ta tra le 100 e le 150 per­so­ne all’anno. I loro pac­chet­ti di fuga costa­no dai 50.000 ai 300.000 yen  – tra i 300 e i 2.000 euro – e com­pren­do­no tut­to: tra­slo­co not­tur­no, tra­spor­to degli effet­ti per­so­na­li, nuo­va siste­ma­zio­ne. Il fon­da­to­re, inter­vi­sta­to sot­to ano­ni­ma­to, rac­con­ta che spes­so i clien­ti non cer­ca­no di spa­ri­re per sem­pre, ma solo per “rico­min­cia­re”. Le yoni­ge-ya sono anche entra­te nel­la cul­tu­ra popo­la­re giap­po­ne­se, tra roman­zi, man­ga e serie TV. In Yoni­geya Hon­po, una fic­tion tele­vi­si­va diven­ta­ta cult negli anni ‘90, un’agenzia fit­ti­zia aiu­ta i clien­ti a sva­ni­re, mostran­do i det­ta­gli ope­ra­ti­vi del­la fuga. È un segna­le: ciò che pri­ma era un tabù ades­so è rico­no­sciu­to, qua­si nor­ma­liz­za­to. La spa­ri­zio­ne è diven­ta­ta par­te dell’immaginario col­let­ti­vo.

Il gior­na­li­sta Jake Adel­stein, nel suo libro Tokyo Vice (2011), rac­con­ta che spes­so la spa­ri­zio­ne è per­si­no più con­ve­nien­te di un divor­zio, di una ban­ca­rot­ta, di uno scan­da­lo pub­bli­co. Spa­ri­re è meno dolo­ro­so che affron­ta­re la ver­go­gna. È una stra­te­gia, non solo una fuga. Come se la socie­tà giap­po­ne­se aves­se, pur non dicen­do­lo, incor­po­ra­to nel suo fun­zio­na­men­to un’u­sci­ta di sicu­rez­za.

Un docu­men­ta­rio recen­te, Joha­tsu: Into Thin Air (2024), esplo­ra que­sto mon­do som­mer­so mostran­do l’operato di alcu­ne di que­ste agen­zie e il pro­fi­lo dei clien­ti. Non sem­pre sono dispe­ra­ti: alcu­ni sono fred­da­men­te razio­na­li. Si sie­do­no a tavo­li­no con i con­su­len­ti per pro­get­ta­re la loro scom­par­sa con la stes­sa logi­ca con cui si pia­ni­fi­che­reb­be una ristrut­tu­ra­zio­ne dome­sti­ca. Una don­na nel docu­men­ta­rio lo dice chia­ra­men­te: «Era l’unico modo che ave­vo per resta­re viva».

Secon­do un’inchiesta di Busi­ness Insi­der del 2017, potreb­be­ro esse­re deci­ne di miglia­ia ogni anno le per­so­ne che scel­go­no que­sta via in Giap­po­ne. Un nume­ro che inclu­de gio­va­ni fal­li­ti agli esa­mi uni­ver­si­ta­ri, mari­ti umi­lia­ti da un licen­zia­men­to, don­ne che sfug­go­no a vio­len­ze dome­sti­che, lavo­ra­to­ri vit­ti­me di mob­bing. Tut­ti acco­mu­na­ti da una sola cosa: non voglio­no affron­ta­re la ver­go­gna in pub­bli­co.

Come nota Indian Express in un suo appro­fon­di­men­to del 2025, il joha­tsu non è solo un feno­me­no socia­le ma un rifles­so cul­tu­ra­le, radi­ca­to nel­la sto­ria del dopo­guer­ra e nel­le aspet­ta­ti­ve di per­fe­zio­ne, ono­re e silen­zio che anco­ra gover­na­no mol­ti aspet­ti del­la vita giap­po­ne­se.

Ma, allo­ra, chi sono i joha­tsu? Mia madre sareb­be sta­ta una di loro se fos­si­mo vis­su­ti in Giap­po­ne? E io, oggi? Potrei esse­re io? La veri­tà è che non esi­ste un iden­ti­kit, non è così faci­le sem­pli­fi­ca­re e trac­cia­re un pro­fi­lo uni­co. C’è l’imprenditore di pro­vin­cia, tra­vol­to dai debi­ti e dal fal­li­men­to del­la sua atti­vi­tà, che sce­glie il silen­zio per non affron­ta­re la ver­go­gna pub­bli­ca. La care­gi­ver fami­lia­re che, dopo anni pas­sa­ti ad assi­ste­re un geni­to­re mala­to, scom­pa­re una mat­ti­na sen­za avvi­sa­re nes­su­no, inca­pa­ce di reg­ge­re anco­ra il peso del dove­re. Oppu­re la ragaz­za pro­mes­sa in un matri­mo­nio com­bi­na­to, che sva­ni­sce pochi gior­ni pri­ma del­le noz­ze: una diser­zio­ne silen­zio­sa, l’unico atto pos­si­bi­le per recla­ma­re liber­tà. La madre sin­gle tra­vol­ta dai debi­ti. Il mari­to che esce per com­pra­re le siga­ret­te e non tor­na mai più. Non si trat­ta neces­sa­ria­men­te di per­so­ne vit­ti­me di abu­si, spes­so, sono sol­tan­to per­so­ne pri­gio­nie­re del pro­prio ruo­lo. In comu­ne, però, han­no una sen­sa­zio­ne: la neces­si­tà di sva­ni­re per poter soprav­vi­ve­re. Alcu­ni si rifan­no una vita altro­ve. Altri vivo­no in quar­tie­ri dove nes­su­no fa doman­de: come San’ya a Tokyo o Kama­ga­sa­ki a Osa­ka, encla­ve invi­si­bi­li ai mar­gi­ni del Giap­po­ne iper­mo­der­no. Luo­ghi che sem­bra­no sospe­si nel tem­po, dove ci si nascon­de più che vive­re. Mol­ti lavo­ra­no in nero, come mano­va­li, custo­di, lava­piat­ti. Alcu­ni dor­mo­no in cap­su­le hotel, altri in dor­mi­to­ri o con­tai­ner. La loro è una vita sot­ti­le, fat­ta di silen­zio e ano­ni­ma­to. Ma, per mol­ti, è anco­ra vita. Più di quel­la di pri­ma.

Eppu­re, più li stu­dio, più ten­to di affer­ra­re que­ste ani­me ridot­te a vapor acqueo, più mi ren­do con­to che il joha­tsu non è poi così lon­ta­no: lo era mia madre. Lo sono io. Ma non sia­mo sole. Come per­so­ne che abi­ta­no la con­tem­po­ra­nei­tà sia­mo osses­sio­na­ti dall’idea di per­de­re noi stes­si, ma, allo stes­so tem­po, desi­de­ria­mo arden­te­men­te far­lo. La nostra è la socie­tà dell’iper-visibilità. Vivia­mo in vetri­na, iper­con­nes­si, iper­pro­dut­ti­vi, iper­pre­sen­ti. Ogni momen­to è, e deve esse­re, con­di­vi­si­bi­le, ogni emo­zio­ne trac­cia­bi­le, ogni suc­ces­so per­for­ma­bi­le. Ma sot­to que­sta sovrae­spo­si­zio­ne si cela una stan­chez­za pro­fon­da.

Su Insta­gram, su Tik­Tok, nel­le chat e nei feed, sia­mo ovun­que. Più spes­so, da nes­su­na par­te dav­ve­ro. È la FOMO – Fear of Mis­sing Out – che ci tie­ne aggan­cia­ti: pau­ra di per­de­re qual­co­sa, di non esser­ci, di spa­ri­re. E se la FOMO ci spin­ge a par­te­ci­pa­re a ogni cosa, il joha­tsu ne rap­pre­sen­ta l’antitesi: non teme di spa­ri­re, lo sce­glie come atto volon­ta­rio, nega ogni par­te­ci­pa­zio­ne. Il silen­zio è la sua ulti­ma fron­tie­ra di liber­tà. Così, men­tre da una par­te costruia­mo iden­ti­tà mul­ti­ple e sem­pre più sfac­cet­ta­te per esi­ste­re – il geni­to­re model­lo, il pro­fes­sio­ni­sta rea­liz­za­to, l’attivista impe­gna­to – dall’altra cre­sce il desi­de­rio di mol­la­re tut­to, di scio­glier­ci nel nul­la. Spa­ri­re non tan­to per mori­re, ma per smet­te­re di rap­pre­sen­ta­re. Come se, tut­to som­ma­to, non ci fos­se scam­po a que­sto dua­li­smo. Come se, dav­ve­ro, quel­la figu­ra di don­na che esce da una por­ta in cami­cia da not­te per non ritor­na­re, fos­se una cosa nor­ma­le come anda­re a una festa.

Tra l’altro, anche nel­la nostra di let­te­ra­tu­ra que­sto desi­de­rio di sot­tra­zio­ne esi­ste ed è rap­pre­sen­ta­to. Dino Buz­za­ti, ne Il deser­to dei Tar­ta­ri (1940), rac­con­ta una vita pas­sa­ta ad aspet­ta­re un sen­so che non arri­va mai. Una spa­ri­zio­ne inte­rio­re, len­ta, buro­cra­ti­ca, per­fet­ta­men­te inte­gra­ta. Oppu­re Anto­nio More­sco, che nei suoi testi visio­na­ri par­la spes­so di una fuga dal mon­do, ver­so l’invisibile: La luci­na (2013) è qua­si un rac­con­to joha­tsu, di un uomo che si riti­ra nel bosco e scom­pa­re agli occhi del mon­do. «Sono venu­to qui per spa­ri­re», così si apre il roman­zo. E anco­ra Pao­lo Cognet­ti che, in Le otto mon­ta­gne (2016), par­la del­la mon­ta­gna come luo­go di diser­zio­ne: sali­re in alto per vede­re meglio, ma anche per scom­pa­ri­re meglio. Una spa­ri­zio­ne con­tem­pla­ti­va, più che dispe­ra­ta. 

E in fon­do anche Aspet­tan­do Godot (1952) di Samuel Bec­kett è una for­ma estre­ma di spa­ri­zio­ne sim­bo­li­ca: due uomi­ni sospe­si in un non-luo­go, in un tem­po inde­ci­fra­bi­le, inchio­da­ti all’attesa di qual­co­sa – o qual­cu­no – che non arri­va mai. Vla­di­mir ed Estra­gon non spa­ri­sco­no fisi­ca­men­te, ma sva­ni­sco­no dal tem­po nar­ra­ti­vo, dal­la fina­li­tà, dal­la socie­tà. Sono già fuo­ri dal mon­do, eppu­re sono lì. Una spa­ri­zio­ne sta­gnan­te, iro­ni­ca, iner­te: ma pur sem­pre una for­ma di rifiu­to. Anche Bec­kett, come Buz­za­ti, ci dice che si può scom­pa­ri­re rima­nen­do fer­mi.

Lo stes­so Vita­lia­no Tre­vi­san, scrit­to­re e outsi­der, figu­ra mar­gi­na­le e cen­tra­le insie­me, nei suoi libri come Works (2022) o I quin­di­ci­mi­la pas­si (2002), rac­con­ta vite stan­che, stor­te, affa­ti­ca­te da un mon­do che chie­de sem­pre più di quel­lo che pos­sia­mo dare. La sua è sta­ta una vita carat­te­riz­za­ta da una lun­ga sot­tra­zio­ne: dal lavo­ro, dal­la let­te­ra­tu­ra uffi­cia­le, dai ruo­li. Fino alla spa­ri­zio­ne defi­ni­ti­va: il sui­ci­dio, nel 2022. Da noi, tut­to som­ma­to, non esi­sto­no i joha­tsu, la nostra socie­tà non ha lascia­to a Tre­vi­san spa­zio al fal­li­men­to né alla fra­gi­li­tà. Tri­ste­men­te, non lo lascia nem­me­no a noi.

Michel Fou­cault ci ha inse­gna­to che dove c’è pote­re, c’è resi­sten­za. Il joha­tsu è que­sto: una resi­sten­za all’obbligo di esse­re qual­cu­no. Un rifiu­to. Al dover ave­re una car­rie­ra, ad una sto­ria coe­ren­te, a un’identità rico­no­sci­bi­le. È un gesto radi­ca­le con­tro la socie­tà del­la per­for­man­ce e il sé per­for­ma­ti­vo.

Il joha­tsu è un fan­ta­sma, non un mostro. È l’immagine estre­ma di qual­co­sa che cono­scia­mo bene: il desi­de­rio di can­cel­lar­si per rico­min­cia­re. Non è solo fuga. È soprat­tut­to for­ma di soprav­vi­ven­za. Una via d’uscita per chi non tro­va posto. È il fal­li­men­to tra­sfor­ma­to in silen­zio, la rinun­cia come for­ma estre­ma di liber­tà.

Mia madre non se n’è anda­ta. Vive, anzi, anco­ra den­tro a quel­la stes­sa casa dove pro­nun­cia­va e, chis­sà, for­se pro­nun­cia anco­ra quel­la fra­se e anche ora, da vec­chia, pen­so e spe­ro la con­so­li come allo­ra. «Te lo imma­gi­ni che esco, un gior­no, e non tor­no più?» Io non lo so. For­se non spa­ri­rò mai dav­ve­ro. For­se quest’anno, quan­do sarò a Osa­ka, tro­ve­rò il corag­gio, o sarà più giu­sto lasciar­lo qui, a Mila­no, e par­ti­re spo­glia e final­men­te libe­ra e rima­ne­re là, sen­za lascia­re trac­ce, inu­ti­le come un gat­to scar­no sul ciglio del­la stra­da, eppu­re, libe­ra. Non lo so, come non lo sape­va mia madre. Ma sape­re anche solo per un momen­to di ave­re que­sta pos­si­bi­li­tà, con­tem­plar­la per un lumi­no­so istan­te, può signi­fi­ca­re mol­to, così come sape­re che qual­cu­no, da qual­che par­te, lo fa ogni gior­no, mi costrin­ge a guar­dar­mi den­tro. A con­ti­nua­re a chie­der­mi: cosa mi trat­tie­ne anco­ra? Soprat­tut­to, te lo imma­gi­ni che esco, un gior­no, e non tor­no più?

Foto­gra­fia di Osa­mu Yoko­na­mi

Biblio­gra­fia

Adel­stein, J. 2011.  Tokyo Vice, Einau­di, Tori­no.

Bec­kett, S. [1952] 1956. Aspet­tan­do Godot, Einau­di, Tori­no. 

Bene­dict, R. 1947. The Chry­san­the­mum and the Sword: Pat­terns of Japa­ne­se Cul­tu­re, Sec­ker & War­burg, Lon­dra.

Buz­za­ti, D. 1940. Il deser­to dei Tar­ta­ri, Riz­zo­li, Mila­no.

Cognet­ti, P. 2016. Le otto mon­ta­gne, Einau­di, Tori­no.

Doi, T. 1971. The Ana­to­my of Depen­den­ce, tr. ing. Bester J.,  Kodan­sha Inter­na­tio­nal, Tokyo.

Fare­se, G. M. 2016. The Cul­tu­ral Seman­tics of the Japa­ne­se Emo­tion Terms ‘Haji’ and ‘Hazu­ka­shii’, New Voi­ces in Japa­ne­se Stu­dies, 8, pp. 32–54,    DOI: https://newvoices.org.au/volume‑8/the-cultural-semantics-of-the-japanese-emotion-terms-haji-and-hazukashii

Hincks, J. 2017, 2 mag­gio. “Do Stres­sed-Out Japa­ne­se Real­ly Sta­ge Ela­bo­ra­te Disap­pea­ran­ces? On the Trail of the Joha­tsu or ‘Eva­po­ra­ted Peo­ple’”, Time https://time.com/4646293/japan-missing-people-johatsu-evaporated

Mau­ger, L. & Remael, S. 2016. The Vani­shed: The “Eva­po­ra­ted Peo­ple” of Japan in Sto­ries and Pho­to­gra­phs, tr. ing. Pha­len, B., Sky­hor­se, Shen­z­hen.

More­sco, A. 2013. La luci­na, Mon­da­do­ri, Mila­no. 

Tre­vi­san, V. 2002. I quin­di­ci­mi­la pas­si, Einau­di, Tori­no.

Tre­vi­san, V. 2022. Works, Einau­di, Tori­no.

Sito­gra­fia

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Wal­ler, C. 2017, 1 mag­gio. “‘Eva­po­ra­ted peo­ple’ could be disap­pea­ring from Japa­ne­se socie­ty by the thou­sands”, Busi­ness Insi­der https://www.businessinsider.com/evaporated-people-disappearing-from-japan-2017–4

Japan Wireless.2021, 31 mar­zo. “Social Rela­tions in Japan: the Con­cep­ts of Hon­ne and Tate­mae”, JW         https://jw-webmagazine.com/tips/honne-and-tatemae

Leven­son E. A., Erlich, S. 2005. “Takeo Doi, MD, 2005”, The Sigour­ney Award   https://www.sigourneyaward.org/recipientlist/2019/1/28/takeo-doi-md-2005

Her­non, M. 2025, 27 mar­zo. “Joha­tsu: A Haun­ting Docu­men­ta­ry About Japan’s Eva­po­ra­ted Peo­ple”, Tokyo Wee­ken­der  https://www.tokyoweekender.com/entertainment/movies-tv/johatsu-a-haunting-documentary-about-japans-evaporated-people/

The Indian Express. 2025, 26 giu­gno. “Know all about this phe­no­me­non from Japan, whe­re peo­ple just ‘eva­po­ra­te’ https://indianexpress.com/article/lifestyle/phenomenon-from-japan-where-people-just-evaporate-johatsu-9960816/ 

Car­li­no, M. ‘Buz­za­ti, Tra­ver­so, Dino’ in Dizio­na­rio Bio­gra­fi­co degli Ita­lia­ni, Enci­clo­pe­dia Trec­ca­ni          https://www.treccani.it/enciclopedia/dino-buzzati-traverso_(Dizionario-Biografico)/

Enci­clo­pe­dia Trec­ca­ni onli­ne. “More­sco Anto­nio”                                                          https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-moresco/

Enci­clo­pe­dia Trec­ca­ni onli­ne. “Cognet­ti, Pao­lo”                                https://www.treccani.it/enciclopedia/paolo-cognetti/

Enci­clo­pe­dia Trec­ca­ni onli­ne. “Bec­kett, Samuel” https://www.treccani.it/enciclopedia/samuel-beckett/

Enci­clo­pe­dia Trec­ca­ni onli­ne. “ Tre­vi­san, Vita­lia­no”https://www.treccani.it/enciclopedia/vitaliano-trevisan/

Iofri­da, M. ‘Michel Fou­cault’ in Eco U.,(a cura di) Sto­ria del­la civil­tà euro­pea (2014)                  https://www.treccani.it/enciclopedia/michel-foucault_(Storia-della-civilt%C3%A0-europea-a-cura-di-Umberto-Eco)/

Yoni­geya TS Cor­po­ra­tion: https://soudan24.info/

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