In Giappone migliaia di persone spariscono ogni anno. Lo fanno per salvarsi.
E, in fondo, forse, lo vorremmo anche noi
Quando lo diceva, mia madre, mi faceva paura. Ero piccola. Lei, giovane. Giovane, credo. Se io ero piccola, lei doveva esserlo per forza. Se ne usciva con la stessa noncuranza con cui si scioglieva la lunga treccia e la riannodava, disinteressata alla tavola davanti a lei, ai piatti, i suoi, che rimanevano sempre in parte pieni, ai segni di stupore – o tristezza? – che tracciava dentro agli occhi scuri di mio padre, alla paura di quella me piccola e bambina che cresceva a dismisura e si manifestava, soprattutto di notte, negli incubi che ancora, spesso, mi accompagnano. Semplicemente, lo diceva.
«Te lo immagini che esco da quella porta, una sera o una mattina, anche così, malvestita, anche in camicia da notte. Te lo immagini che esco da quella porta senza indossare gli abiti adatti o trascinarmi uno zaino o una valigia e, solamente, me ne vado? Te lo immagini che esco, un giorno, e non torno più?»
Lo diceva così. Non come uno scherzo, come una che non ci deve nemmeno pensare, che lo sa che prima o poi capita ed è così e basta, come le cose che nessuno ci ha potuto fare niente, che c’è un momento in cui succedono e, più o meno, lo sapevamo tutti. Ma proprio tutti. In quel caso, non si sarebbe potuto dire che mio padre o io non lo sapessimo, non fossimo preparati. Lei lo diceva così. Non importava il momento. Si vede che lo diceva quando le veniva in mente di poterlo fare. E anche solo quello, forse, le bastava. Anche il solo sapere che c’era un gesto semplice, facile proprio, naturale quasi, che avrebbe potuto salvarla da tutti quanti, soprattutto da noi, da quell’immagine di sé stessa con noi che doveva per forza essere diversa da quello che era stata prima di essere madre, prima di essere moglie, prima di essere grande. Anche se, per forza, se io ero piccola, lei doveva essere ancora giovane.
A me, faceva paura. E ancora più paura il fatto che né io né mio padre le rispondessimo niente.
«Te lo immagini che esco, un giorno, e non torno più?»
E io, sì, me lo immaginavo e mia madre era una donna seria, penso di averla vista ridere poche, pochissime volte, e ci credevo a quelle parole e non potevo dire di ignorare quel suo pensiero o voglia di fare, non potevo dire che no, non ci avevo mai pensato, non me l’aspettavo proprio. E non volevo. Era la mia mamma. Eppure, né mio padre, né io le abbiamo mai risposto niente. Non capivo. Adesso, sì. Ci penso anche io, adesso, che ho, credo, la stessa età, che non ho marito o figli a cui porre quella domanda e a cui, di certo, non credo la porrei. Adesso che la capisco, comprendo anche il coraggio che ci voleva a pronunciare quelle frasi che sembravano sfuggirle con leggerezza dalle labbra screpolate estate e inverno. Perché io, oggi, sparirei e basta. Non un viaggio, non l’estero, non un trasferimento, non un anno sabbatico. E, soprattutto, nessuna avvisaglia, nessun preavviso, nessun recapito. Niente. Evaporare. Lasciare ogni cosa: nome, lavoro, responsabilità, tracce digitali, famiglia – quella che non ho, quella che forse avrò, quella che, di sicuro, dovrei avere o ci si aspetta che io abbia. Dissolversi senza lasciare biglietti, chiudere tutto e non dire niente.
Non è solo un pensiero, luminoso per chi lo pensa, oscuro per chi lo subisce, che affiora nei momenti di stanchezza – o burnout, come ci piace chiamarlo oggi, parola che non si usava troppo ai tempi in cui era giovane mia madre. È una salvezza. È una possibilità. Da quando faccio yoga la mattina, mi stupisce sempre la frase: «Ogni nuovo giorno è una seconda possibilità. Ogni nuova pratica una terza.» A mia madre allora, a me adesso, ne basterebbe una seconda e lo yoga è fin troppo. Basta uscire da una porta, non salutare nessuno: non tornare mai più. In Giappone, decine di migliaia di persone lo fanno ogni anno. Si chiamano johatsu (蒸発): vite che svaniscono, che abbracciano una nuova possibilità. Letteralmente, “persone che evaporano”.
Secondo The Vanished di Léna Mauger e Stéphane Remael (2016), in Giappone si stima che ogni anno tra le 80.000 e le 100.000 persone scompaiano volontariamente.
Il fenomeno non è nuovo, non risponde ai pressanti ritmi di vita a cui ci hanno sottoposto consumismo sfrenato, digitalizzazione o avvento dell’intelligenza artificiale. Nasce, però, in un sostrato non dissimile, negli anni ’60, in pieno boom economico, quando la pressione sociale diventa una forza silenziosa e totalizzante in Giappone. E allora perdere il lavoro, divorziare, fallire, mostrare debolezza, sentire e ammettere di non farcela sono atti che, in una società rigidamente costruita sull’onore e sulla forma, possono diventare insostenibili. E, per molti, lo sono diventati. Invece di affrontare la vergogna pubblicamente, c’è chi ha scelto di scomparire. In silenzio. Evaporare per non esplodere. Anche questa è una forma di salvezza e ognuno si salva come può.
Per comprendere il johatsu bisogna passare da una parola: haji (慚愧). In giapponese indica la vergogna, ma, a differenza di quanto possiamo esperire in Occidente, qui, non è solo un sentimento individuale. È un disonore che coinvolge la comunità, la famiglia, il lavoro, i legami, qualunque emanazione e propagazione dell’individuo. Perché l’errore – se sempre una colpa dobbiamo trovare – non è mai solo tuo, è anche e soprattutto delle persone che ti hanno formato. Ecco come in una società fortemente interdipendente, in cui la reputazione è quasi ontologica, la vergogna può diventare intollerabile. Dovrebbe essere allora più comprensibile, di fronte a questa cultura dell’haji perché, per alcuni – che a me sembrano molti – sparire diventa un atto di protezione: dalla vergogna e per la vergogna. Un modo radicale per non danneggiare gli altri. Ma anche per sottrarsi a una rete di controllo sociale che non contempla il fallimento. È la cultura del tatemae (建前) – il volto pubblico – contrapposta all’honne (本音), il sé interiore. Quando questi due livelli non coincidono più, la sparizione diventa l’unico modo per evitare la frattura.
Il Giappone è una società fondata su un doppio registro dell’identità: tatemae (建前) e honne (本音). Il primo è il volto pubblico, ciò che ci si aspetta da te: la maschera sociale, il comportamento conforme, il dovere. L’honne è invece ciò che senti davvero: pensieri, desideri, sofferenze, contraddizioni. Questa distinzione è così interiorizzata che non è considerata ipocrisia, ma una necessità relazionale e sociale. Secondo l’antropologa Ruth Benedict, che nel suo saggio The Chrysanthemum and the Sword (1947) esplora il concetto di vergogna nella cultura giapponese, la società nipponica è una shame culture, dove la moralità è regolata dall’immagine pubblica più che dalla coscienza personale. In questo quadro, perdere la faccia è un trauma esistenziale. Da qui nasce la necessità di fuga. Ancora, il sociologo Takeo Doi, nel suo libro The Anatomy of Dependence (1971), suggerisce che l’identità giapponese è plasmata da una tensione costante tra omote (表) – il fuori – e ura (裏) – il dentro: un dualismo che non cerca sintesi ma sopravvive nel disequilibrio. Quando questa tensione implode, e non c’è spazio per l’espressione dell’honne, la scelta diventa binaria: restare e disintegrarsi, o andarsene e dissolversi.
Questa sparizione, allora, non è solo fuga, ma anche una forma estrema di coerenza. Un modo per evitare la frattura insanabile tra ciò che si è e ciò che ci si aspetta che si sia. Il johatsu è la conseguenza silenziosa di una pressione identitaria che non tollera incongruenze, deviazioni, esitazioni. Ma non si tratta di un gesto impulsivo o anarchico: al contrario, è una fuga regolata, quasi rituale, che obbedisce a un codice non scritto di rispetto e discrezione. È un’uscita silenziosa che, pur negando i legami, li onora nella forma: chi scompare non infrange le regole, le aggira con grazia. Non lascia scandalo, non impone conflitti. È una sottrazione ordinata, che si compie proprio per non violare l’armonia collettiva. In un certo senso, è anche un gesto di cura verso gli altri – la famiglia, i colleghi, la comunità – che non vengono trascinati nel discredito o nella vergogna. È uno scomparire per non danneggiare. Non è una diserzione sfrenata, ma una forma di lealtà obliqua. E così, anche chi evapora resta dentro le maglie della norma: scompare per non rompere, per non disturbare. Per proteggere.
In una società come quella giapponese, alla luce di quanto visto finora, la fuga, questo tipo di fuga, diventa un servizio: sparire non è più una scelta solitaria, ma un’opzione sul mercato. Esistono, infatti, aziende che si occupano, letteralmente, di farti scomparire. Si chiamano yonige-ya, “agenzie per la fuga notturna”. Lavorano in silenzio, nell’ombra, spesso su segnalazione o con passaparola. Non pubblicizzano i loro servizi, non rilasciano dichiarazioni. Ma per chi vuole sparire, sono una promessa di salvezza.
Il termine yonige (夜逃げ) indica proprio “la fuga notturna” (Yoni (夜) è la notte, Ge (逃げ) è la fuga – il verbo nigeru significa fuggire – Ya (屋) indica l’agenzia, il negozio; quindi yonige‑ya significa letteralmente “azienda/negozio della fuga notturna”), ed è tradizionalmente legato a chi abbandona casa e debiti senza avvisare nessuno. Ma oggi lo scenario è più complesso. Le agenzie moderne di sparizione forniscono piani dettagliati per cambiare città, trovare un appartamento anonimo, disattivare o cambiare il telefono, lasciare il lavoro senza lasciare tracce, in alcuni casi persino ottenere una nuova identità, sebbene solo ufficiosamente. Tutto può essere organizzato in poche ore. Il momento preferito è, come dice il nome, la notte. Quando la città dorme, tu smetti di esistere. E io penso sempre a mia madre che apre la porta, in camicia da notte, scalza, forse.
«Quando la vergogna supera la paura, si sparisce» dice una ex cliente intervistata nel libro The Vanished di Léna Mauger (Mauger & Remael 2016, 77). Aveva lasciato un marito violento e due figli. Nessuno ha sporto denuncia. Nessuno l’ha cercata davvero.
Le yonige-ya più sofisticate offrono anche supporto psicologico, assistenza nel trovare lavoro in nero, copertura sanitaria temporanea. Alcune collaborano con ONG, altre operano al confine con la legalità. Ma non è illegale sparire in Giappone, a meno che, certo, non vi siano reati connessi – frodi, furti, rapimenti. Se un adulto sceglie di andarsene e non è in pericolo, la polizia non indaga. È una zona grigia, e forse proprio per questo socialmente accettata. Molti parenti nemmeno denunciano la scomparsa – e mio padre? e io? Cosa avremmo fatto noi? Forse, alla fine, noi eravamo il Giappone. Il silenzio, in un contesto come quello giapponese, può essere letto come una scelta rispettabile: un tacito riconoscimento che qualcosa era troppo, che la persona non poteva più restare.
Un esempio reale è la Yonigeya TS Corporation, attiva nella periferia di Tokyo, che secondo il Time supporta tra le 100 e le 150 persone all’anno. I loro pacchetti di fuga costano dai 50.000 ai 300.000 yen – tra i 300 e i 2.000 euro – e comprendono tutto: trasloco notturno, trasporto degli effetti personali, nuova sistemazione. Il fondatore, intervistato sotto anonimato, racconta che spesso i clienti non cercano di sparire per sempre, ma solo per “ricominciare”. Le yonige-ya sono anche entrate nella cultura popolare giapponese, tra romanzi, manga e serie TV. In Yonigeya Honpo, una fiction televisiva diventata cult negli anni ‘90, un’agenzia fittizia aiuta i clienti a svanire, mostrando i dettagli operativi della fuga. È un segnale: ciò che prima era un tabù adesso è riconosciuto, quasi normalizzato. La sparizione è diventata parte dell’immaginario collettivo.
Il giornalista Jake Adelstein, nel suo libro Tokyo Vice (2011), racconta che spesso la sparizione è persino più conveniente di un divorzio, di una bancarotta, di uno scandalo pubblico. Sparire è meno doloroso che affrontare la vergogna. È una strategia, non solo una fuga. Come se la società giapponese avesse, pur non dicendolo, incorporato nel suo funzionamento un’uscita di sicurezza.
Un documentario recente, Johatsu: Into Thin Air (2024), esplora questo mondo sommerso mostrando l’operato di alcune di queste agenzie e il profilo dei clienti. Non sempre sono disperati: alcuni sono freddamente razionali. Si siedono a tavolino con i consulenti per progettare la loro scomparsa con la stessa logica con cui si pianificherebbe una ristrutturazione domestica. Una donna nel documentario lo dice chiaramente: «Era l’unico modo che avevo per restare viva».
Secondo un’inchiesta di Business Insider del 2017, potrebbero essere decine di migliaia ogni anno le persone che scelgono questa via in Giappone. Un numero che include giovani falliti agli esami universitari, mariti umiliati da un licenziamento, donne che sfuggono a violenze domestiche, lavoratori vittime di mobbing. Tutti accomunati da una sola cosa: non vogliono affrontare la vergogna in pubblico.
Come nota Indian Express in un suo approfondimento del 2025, il johatsu non è solo un fenomeno sociale ma un riflesso culturale, radicato nella storia del dopoguerra e nelle aspettative di perfezione, onore e silenzio che ancora governano molti aspetti della vita giapponese.
Ma, allora, chi sono i johatsu? Mia madre sarebbe stata una di loro se fossimo vissuti in Giappone? E io, oggi? Potrei essere io? La verità è che non esiste un identikit, non è così facile semplificare e tracciare un profilo unico. C’è l’imprenditore di provincia, travolto dai debiti e dal fallimento della sua attività, che sceglie il silenzio per non affrontare la vergogna pubblica. La caregiver familiare che, dopo anni passati ad assistere un genitore malato, scompare una mattina senza avvisare nessuno, incapace di reggere ancora il peso del dovere. Oppure la ragazza promessa in un matrimonio combinato, che svanisce pochi giorni prima delle nozze: una diserzione silenziosa, l’unico atto possibile per reclamare libertà. La madre single travolta dai debiti. Il marito che esce per comprare le sigarette e non torna mai più. Non si tratta necessariamente di persone vittime di abusi, spesso, sono soltanto persone prigioniere del proprio ruolo. In comune, però, hanno una sensazione: la necessità di svanire per poter sopravvivere. Alcuni si rifanno una vita altrove. Altri vivono in quartieri dove nessuno fa domande: come San’ya a Tokyo o Kamagasaki a Osaka, enclave invisibili ai margini del Giappone ipermoderno. Luoghi che sembrano sospesi nel tempo, dove ci si nasconde più che vivere. Molti lavorano in nero, come manovali, custodi, lavapiatti. Alcuni dormono in capsule hotel, altri in dormitori o container. La loro è una vita sottile, fatta di silenzio e anonimato. Ma, per molti, è ancora vita. Più di quella di prima.
Eppure, più li studio, più tento di afferrare queste anime ridotte a vapor acqueo, più mi rendo conto che il johatsu non è poi così lontano: lo era mia madre. Lo sono io. Ma non siamo sole. Come persone che abitano la contemporaneità siamo ossessionati dall’idea di perdere noi stessi, ma, allo stesso tempo, desideriamo ardentemente farlo. La nostra è la società dell’iper-visibilità. Viviamo in vetrina, iperconnessi, iperproduttivi, iperpresenti. Ogni momento è, e deve essere, condivisibile, ogni emozione tracciabile, ogni successo performabile. Ma sotto questa sovraesposizione si cela una stanchezza profonda.
Su Instagram, su TikTok, nelle chat e nei feed, siamo ovunque. Più spesso, da nessuna parte davvero. È la FOMO – Fear of Missing Out – che ci tiene agganciati: paura di perdere qualcosa, di non esserci, di sparire. E se la FOMO ci spinge a partecipare a ogni cosa, il johatsu ne rappresenta l’antitesi: non teme di sparire, lo sceglie come atto volontario, nega ogni partecipazione. Il silenzio è la sua ultima frontiera di libertà. Così, mentre da una parte costruiamo identità multiple e sempre più sfaccettate per esistere – il genitore modello, il professionista realizzato, l’attivista impegnato – dall’altra cresce il desiderio di mollare tutto, di scioglierci nel nulla. Sparire non tanto per morire, ma per smettere di rappresentare. Come se, tutto sommato, non ci fosse scampo a questo dualismo. Come se, davvero, quella figura di donna che esce da una porta in camicia da notte per non ritornare, fosse una cosa normale come andare a una festa.
Tra l’altro, anche nella nostra di letteratura questo desiderio di sottrazione esiste ed è rappresentato. Dino Buzzati, ne Il deserto dei Tartari (1940), racconta una vita passata ad aspettare un senso che non arriva mai. Una sparizione interiore, lenta, burocratica, perfettamente integrata. Oppure Antonio Moresco, che nei suoi testi visionari parla spesso di una fuga dal mondo, verso l’invisibile: La lucina (2013) è quasi un racconto johatsu, di un uomo che si ritira nel bosco e scompare agli occhi del mondo. «Sono venuto qui per sparire», così si apre il romanzo. E ancora Paolo Cognetti che, in Le otto montagne (2016), parla della montagna come luogo di diserzione: salire in alto per vedere meglio, ma anche per scomparire meglio. Una sparizione contemplativa, più che disperata.
E in fondo anche Aspettando Godot (1952) di Samuel Beckett è una forma estrema di sparizione simbolica: due uomini sospesi in un non-luogo, in un tempo indecifrabile, inchiodati all’attesa di qualcosa – o qualcuno – che non arriva mai. Vladimir ed Estragon non spariscono fisicamente, ma svaniscono dal tempo narrativo, dalla finalità, dalla società. Sono già fuori dal mondo, eppure sono lì. Una sparizione stagnante, ironica, inerte: ma pur sempre una forma di rifiuto. Anche Beckett, come Buzzati, ci dice che si può scomparire rimanendo fermi.
Lo stesso Vitaliano Trevisan, scrittore e outsider, figura marginale e centrale insieme, nei suoi libri come Works (2022) o I quindicimila passi (2002), racconta vite stanche, storte, affaticate da un mondo che chiede sempre più di quello che possiamo dare. La sua è stata una vita caratterizzata da una lunga sottrazione: dal lavoro, dalla letteratura ufficiale, dai ruoli. Fino alla sparizione definitiva: il suicidio, nel 2022. Da noi, tutto sommato, non esistono i johatsu, la nostra società non ha lasciato a Trevisan spazio al fallimento né alla fragilità. Tristemente, non lo lascia nemmeno a noi.
Michel Foucault ci ha insegnato che dove c’è potere, c’è resistenza. Il johatsu è questo: una resistenza all’obbligo di essere qualcuno. Un rifiuto. Al dover avere una carriera, ad una storia coerente, a un’identità riconoscibile. È un gesto radicale contro la società della performance e il sé performativo.
Il johatsu è un fantasma, non un mostro. È l’immagine estrema di qualcosa che conosciamo bene: il desiderio di cancellarsi per ricominciare. Non è solo fuga. È soprattutto forma di sopravvivenza. Una via d’uscita per chi non trova posto. È il fallimento trasformato in silenzio, la rinuncia come forma estrema di libertà.
Mia madre non se n’è andata. Vive, anzi, ancora dentro a quella stessa casa dove pronunciava e, chissà, forse pronuncia ancora quella frase e anche ora, da vecchia, penso e spero la consoli come allora. «Te lo immagini che esco, un giorno, e non torno più?» Io non lo so. Forse non sparirò mai davvero. Forse quest’anno, quando sarò a Osaka, troverò il coraggio, o sarà più giusto lasciarlo qui, a Milano, e partire spoglia e finalmente libera e rimanere là, senza lasciare tracce, inutile come un gatto scarno sul ciglio della strada, eppure, libera. Non lo so, come non lo sapeva mia madre. Ma sapere anche solo per un momento di avere questa possibilità, contemplarla per un luminoso istante, può significare molto, così come sapere che qualcuno, da qualche parte, lo fa ogni giorno, mi costringe a guardarmi dentro. A continuare a chiedermi: cosa mi trattiene ancora? Soprattutto, te lo immagini che esco, un giorno, e non torno più?
Fotografia di Osamu Yokonami
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Yonigeya TS Corporation: https://soudan24.info/