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Settembre
27 Settembre 2024

VIAG­GIO IN ITA­LIA IN MINIA­TU­RA

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Pri­ma di tut­to, biso­gna dire una cosa: l’Italia in Minia­tu­ra è mol­to meglio dell’Italia non in minia­tu­ra, per­ché è per­fet­ta.

È una sin­te­si, accu­ra­ta e arbi­tra­ria, del meglio del nostro pae­se, e que­sto non inclu­de spa­ghet­ti o bra­ci acce­se, ben­sì monu­men­ti, cat­te­dra­li e por­zio­ni di pae­sag­gio incan­ta­to. 

Due­cen­to­set­tan­ta­tré minia­tu­re e model­li­ni rin­no­va­ti, stam­pa­ti a laser e rifi­ni­ti da arti­gia­ni, col­le­ga­ti da tre­cen­to chi­lo­me­tri di cavo elet­tri­co.

Spo­glia­ta dai tavo­li­ni e dai bar nel­le piaz­ze, in quest’Italia pic­ci­na non ci sono né cre­pe né brut­tez­ze archi­tet­to­ni­che, né odo­ri o impal­ca­tu­re. 

Non c’è traf­fi­co e non c’è turi­smo. 

Qui i turi­sti sono così enor­mi che l’Italia non la pos­so­no toc­ca­re. La sor­vo­la­no, si potreb­be dire, ma se voles­se­ro la potreb­be­ro distrug­ge­re in ogni momen­to. Anche solo con un pie­de. 

Nel piaz­za­le di un par­cheg­gio anco­ra vuo­to, in un pome­rig­gio dell’agosto più cal­do del­la sto­ria, una gigan­te­sca figu­ra con gli occhia­li da avia­to­re — è un bam­bi­no? una meta­fo­ra di me? — si sta­glia sul tet­to del­la bigliet­te­ria. 

Un poster mi avvi­sa che oggi ci sarà la penul­ti­ma aper­tu­ra sera­le del­la sta­gio­ne: diver­ten­te di gior­no, magi­ca di not­te!, c’è scrit­to, e sot­to una serie di infor­ma­zio­ni sui truc­ca­bim­bi, i gio­chi di luci, gli show e la chiu­su­ra anti­ci­pa­ta di Pap­pa­Mon­do, che pur­trop­po non reste­rà aper­to que­sta not­te. 

Il prez­zo d’ingresso è simi­le a quel­lo di altri par­chi a tema spar­si sul ter­ri­to­rio roma­gno­lo: ven­ti­quat­tro euro per adul­to. 

E cer­to, cer­to che mi ven­go­no in men­te vali­dis­si­me cose per cui avrei potu­to spen­der­li altri­men­ti, avrei potu­to addi­rit­tu­ra non spen­der­li, pen­so; ma un car­tel­lo­ne poco più avan­ti mi ricor­da che, dal momen­to che sono più alta di 140cm, sono sta­ta bra­va: ho paga­to il mini­mo indi­spen­sa­bi­le.

Sul car­tel­lo­ne ci sono una serie di com­bi­na­zio­ni mate­ma­ti­ca­men­te impec­ca­bi­li (o meglio, dif­fi­ci­li da fare a men­te) per acqui­sta­re il tic­ket uni­ver­sa­le del diver­ti­men­to a prez­zo scon­ta­to. Il più poten­te: un abbo­na­men­to tri­me­stra­le che fiac­che­reb­be per­fi­no la noia — già fiac­ca, s’intende -, a suon di sci­vo­li acqua­ti­ci, del­fi­ni ammae­stra­ti e minu­sco­li colos­sei. 

Ita­lia in Minia­tu­ra + Oltre­ma­re + Acqua­rio di Cat­to­li­ca + Aqua­fan a soli cen­to­cin­quan­ta euro. Non mi lascio amma­lia­re. 

Var­co la soglia con il mio bigliet­to stan­dard e i miei stin­chi si allun­ga­no, le spal­le si apro­no e gli occhi pure, diven­ta­no buchi così pro­fon­di che tut­to ciò che c’è intor­no mi appa­re ridi­co­lo. 

Subi­to, anche lo sto­ma­co si allar­ga. Sono le 15.30 ed entro nel bar. 

A quan­to pare, tut­ti i visi­ta­to­ri, o alme­no la mag­gior par­te di loro, alle 15:30 si tro­va­no al bar che si chia­ma Oste­ria Ita­lia ma è a tut­ti gli effet­ti un auto­grill. 

La came­rie­ra mi chie­de se voglio appro­fit­ta­re dell’offerta bibi­ta + pani­no dato che ho già chie­sto il caf­fè. 

«Così il caf­fè non lo paghi» dice.

Di nuo­vo resi­sto, poi mi vol­to e ordi­no bibi­ta + pani­no, bevo il caf­fè e guar­do il mon­do. 

Cioè l’Italia, in que­sto caso. 

Dal­la vetra­ta del bar si vede la lan­da ver­de pla­sti­ca che è la nostra peni­so­la, dall’inizio alla fine. Qua­si nien­te è più alto di un metro. Qua­si tut­to bril­la. 

Sopra le guglie e le col­li­net­te, sbu­ca­no i busti dei visi­ta­to­ri, si tra­sci­na­no tra i viot­to­li come alie­ni mez­zi chie­se e mez­zi uma­ni; mez­zi tor­ri, sco­glie­re, mez­zi bor­ghi. Sono sire­ne che flut­tua­no, con, al posto del­le pin­ne, fede­li rico­stru­zio­ni del patri­mo­nio ita­li­co. 

Al loro segui­to bal­zel­la­no pic­co­le ver­sio­ni di loro stes­si, ma sono così bas­se che dal­la vetra­ta ne rie­sco a vede­re solo i cap­pel­li­ni. 

Indos­sa­no sem­pre i cap­pel­li­ni que­ste per­so­ne, gio­chic­chia­no con le bot­ti­gliet­te d’acqua e, il più del­le vol­te, ten­go­no appe­si al col­lo del­le bor­rac­ce  tra­spa­ren­ti con can­nuc­ce arzi­go­go­la­te. 

La desi­de­ro, una bor­rac­cet­ta, ma la bari­sta non me l’ha nomi­na­ta nell’offerta e dun­que resta un miste­ro. 

Poi, comin­cio. 

Un bel respi­ro. 

Qual­co­sa non mi tor­na, ma le por­te auto­ma­ti­che si apro­no: via, via!

Per com’è sta­ta pro­get­ta­ta, l’Italia va visi­ta­ta da sud a nord.

Il Medi­ter­ra­neo in minia­tu­ra è il più vici­no all’ingresso, una spe­cie di laghet­to che bril­la e che sgor­ga da una casca­tel­la auto­ma­ti­ca, men­tre le Alpi, o meglio il mon­te Bian­co, s’innalza di due metri lag­giù in fon­do, pri­ma del­la scrit­ta euro­pa in minia­tu­ra su un fin­tis­si­mo por­ta­le.

Ah! Ogni anno il mon­do qui si espan­de.

Una minia­tu­ra che si espan­de, sì, potreb­be sem­bra­re un para­dos­so, ma l’insieme del­le minia­tu­re rie­sco­no a diven­ta­re una cosa dav­ve­ro ingom­bran­te.

Non si som­ma­no ma si mol­ti­pli­ca­no, in un cer­to sen­so, per dir­lo nei ter­mi­ni del­la psi­co­lo­gia del­la Gestalt: «Il tut­to è più del­la som­ma del­le sue par­ti». 

Ma se le par­ti sono chia­ra­men­te pez­zi d’Italia; que­sto tut­to, qui den­tro, cos’è? 

Io non lo so. 

Ma mi è chia­ro che, per capi­re qual­co­sa, biso­gna par­ti­re per for­za dal­la Sici­lia. 

M’immergo. 

Sira­cu­sa, Paler­mo, Mes­si­na, Cata­nia, Agri­gen­to: nel­la real­tà sono sta­ta in tut­ti que­sti posti, ma non ho visto nem­me­no un monu­men­to tra quel­li ripro­po­sti qui, sull’isolotto. Mi ver­go­gno. 

Attra­ver­so il pon­te (il pon­te!) e arri­vo in Cala­bria.

Inve­ce che dagli Appen­ni­ni, la peni­so­la è attra­ver­sa­ta da una stra­di­na di cemen­to che arri­va fino in fon­do. 

In cen­tro Ita­lia, una bam­bi­na sca­val­ca la mini-recin­zio­ne e si sie­de vici­no al Duo­mo di Firen­ze. Dal Friu­li comin­cia a cor­re­re una ragaz­za con la maglia staff ma il padre del­la bim­ba la pre­le­va pri­ma che arri­vi la sen­ten­za. 

È pas­sa­ta solo mezz’ora. Fa cal­dis­si­mo, e io sono già a un pas­so da Mila­no.

Pre­men­do un tasto par­te un tre­no e dall’altoparlante risuo­na una voce mol­to simi­le a quel­la degli avvi­si nel­le sta­zio­ni. Simi­le, non iden­ti­ca. «Il tre­no par­ti­rà tra pochi minu­ti.» dice. Ma dopo un secon­do quel­lo par­te per via di un bim­bo che pigia il bot­to­ne con vio­len­za.

È un model­li­no bel­lis­si­mo.

Tut­ti noi pre­sen­ti lo guar­dia­mo che si sno­da in Lom­bar­dia, in anti­ci­po sul tem­po.

Basta poco per accor­ger­si che, per quan­ti sia­no, ci sono solo due tipi di visi­ta­to­ri: gli stra­nie­ri, che vaga­no; e gli ita­lia­ni, che van­no a cac­cia.

I tede­schi, gli ingle­si, i polac­chi e i cechi guar­da­no le minia­tu­re dell’Italia come un esem­pio dell’Italia stes­sa. Potrei dire addi­rit­tu­ra che sogna­no l’Italia stes­sa guar­dan­do la minu­sco­la, e non so cosa pen­si­no, per­ché io, da ita­lia­na, inve­ce sono a cac­cia. 

Disin­te­res­san­do­mi total­men­te di ciò che non cono­sco, pun­to drit­to ver­so quel­lo che ho già visto anche dal vero; valu­to, com­pa­ro, nume­ro le mete e mi sod­di­sfo. 

Fac­cio tut­to in fret­ta, con le cavi­glie che mi fre­mo­no per­ché io, da ita­lia­na, in veri­tà ho un uni­co obiet­ti­vo: con­trol­la­re se c’è la mia cit­tà. 

Mi diri­go. Acce­le­ro il pas­so. Mi fion­do. 

Sì, la mia cit­tà c’è, ma sono comun­que in disac­cor­do sul­la minia­tu­ra.

«Io c’avrei mes­so le mura, al posto del­la chie­sa.» mi lamen­to. 

Poco più a destra (o devo dire più a est?) anche un bam­bi­no fa una biz­za. La sua For­lì è sta­ta pre­le­va­ta per manu­ten­zio­ne. Rimi­ni lo guar­da da lì accan­to, gli sca­tu­ri­sce una brut­ta invi­dia, poi se ne va.

Al con­tra­rio di tut­te le altre minia­tu­re, Vene­zia ha un inte­ro quar­tie­re. 

Ci sono volu­ti nove anni per rea­liz­zar­la tut­ta, e il cam­pa­ni­le di San Mar­co, alto ven­ti metri, pare l’Empire Sta­te Buil­ding roma­gno­lo.

Il Canal Gran­de non è per­cor­so da pic­co­le bar­che ma da canoe vere e pro­prie — vere ma fin­te, che chia­ma­no Otto­vo­lan­ti Acqua­ti­ci -, e su ogni canoa pos­so­no sali­re una deci­na di per­so­ne per vol­ta. 

La gen­te si sie­de e poi quest’Ottovolante va drit­to, segue un filo sott’acqua e attra­ver­sa una Vene­zia in minia­tu­ra ma non trop­po, la sca­la è 1:5. 

Ovvia­men­te, s’incontrano anche gon­do­li­ne, del­la lun­ghez­za di un brac­cio, che sono fis­sa­te al fon­da­le e degli omi­ni con le maglie a righe le navi­ga­no immo­bi­li; ma il pon­te di Rial­to è gran­de, gran­de abba­stan­za da poter­ci pas­sa­re sot­to e far­si fare una foto. 

Per la foto c’è una vec­chiet­ta in minia­tu­ra, for­se è tra­ve­sti­ta, gri­da una cosa come: «Brut­ti!» oppu­re «Sie­te brut­ti!», io e i miei com­pa­gni di tra­ver­sa­ta ci giria­mo e scat­ta il flash.   

Nel­lo spa­zio-Vene­zia c’è addi­rit­tu­ra una piaz­za. Dal­la fine­stra di una casa sbu­ca l’ennesima vec­chiet­ta-mario­net­ta che lan­cia sec­chia­te d’acqua a chi le suo­na il cam­pa­nel­lo. 

I bam­bi­ni ci si met­to­no sot­to e atten­do­no con­ten­ti qual­che schiz­zo. 

Gli adul­ti indu­gia­no ma poi fan­no lo stes­so. 

Gri­do­li­ni spar­si, maglie zup­pe. 

«Brut­ti!»

Me ne vado a com­pra­re la foto del mio giro sull’Ottovolante. 

Dopo aver paga­to tan­tis­si­mo (per for­tu­na ho can­cel­la­to il prez­zo dal­la memo­ria), le mani che strin­go­no l’immagine sem­bra­no enor­mi, come se anche la foto fos­se una foti­na. La met­to in bor­sa. Essen­do mia, quel­la alme­no è rima­sta la stes­sa.

Poi pro­se­guo il tour.

Quan­do lo vedo, il Pap­pa­mon­do è già chiu­so. Pen­sa­vo fos­se un posto per man­gia­re (vedi il riman­do alla pap­pa) ma, una vol­ta davan­ti, sco­pro che il Pap­pa­mon­do non è che una gab­bia per pap­pa­gal­li veri, e vivi. 

Sul volan­ti­no è descrit­to come: ser­ra lus­su­reg­gian­te ma anche iso­la tro­pi­ca­le.

Men­tre ci accal­chia­mo sul­le tran­sen­ne per vede­re le ali colo­ra­te di que­sti uccel­li intel­li­gen­ti, capi­sco di desi­de­ra­re un maxi­bon. 

D’altronde, la scrit­ta maxi­bon è ovun­que. 

Sui vago­ni, c’è il maxi­bon. Sui dépliant, c’è il maxi­bon. Su ogni free­zer, vici­no a ogni attra­zio­ne, che sia il muro par­lan­te o la tor­re pano­ra­mi­ca o Pinoc­chio, ci sono le otto let­te­re che mi ripor­ta­no ai pome­rig­gi del­la mia ado­le­scen­za. 

Entro in un bar ‑ce ne sono sei, di bar — e ordi­no un gela­to. 

Non dico: «Che gela­to c’è?» e il bari­sta non chie­de «Che gela­to vuoi», io dico «un gela­to» e lui mi pas­sa la con­fe­zio­ne blu con la scrit­ta ros­sa di sem­pre. 

Lo pago. Un sen­so di alle­gro riem­pi­men­to mi assa­le, mi guar­do i pie­di che, for­se, sono un po’ più lun­ghi. Mi stan­no stret­ti nel­le scar­pe. Ma è ovvio che è per il cal­do, è ovvio che il cal­do fa così.

Pri­ma o poi, tut­ti fini­sco­no in un tun­nel ter­ri­bi­le: quel­lo per la mono­ro­ta­ia. 

È un pas­sag­gio natu­ra­le, l’animo ormai è pre­di­spo­sto, dopo un’ora a vaga­re tra le minia­tu­re, la mono­ro­ta­ia soprae­le­va­ta sem­bra esse­re l’ultima espe­rien­za bel­lis­si­ma.

Pri­ma di tut­to: ci si met­te in fila. Che per la mag­gior par­te del tem­po è al sole. 

I bibe­ron sono qua­si tut­ti vuo­ti e le per­so­ne, quan­do rag­giun­go­no l’ombra, tor­na­no a par­la­re tra di loro. 

Quan­do arri­va il momen­to di sali­re sui vago­ni, tut­ti si lan­cia­no e un signo­re cer­ca di fer­mar­li inva­no. 

Ho sco­per­to che la mono­ro­ta­ia è sta­ta costrui­ta nel ’98, è costa­ta 4.500.000.000 di lire. Mi dico che il ’98 è un bel po’ di tem­po fa e che potrem­mo cade­re tut­ti, ma poi sal­go lo stes­so. Pri­ma del­la par­ten­za restia­mo tut­ti chiu­si per un po’, la fami­glia con cui sono fini­ta ha por­ta­to ben tre ven­ta­gli, il bab­bo boc­cheg­gia, la figlia foto­gra­fa, la madre spor­ge il men­to fuo­ri dal fine­stri­no.

Il 21 d’Agosto la mono­ro­ta­ia non è un gio­co, è una sfi­da.

Poi, men­tre sono sul­la mono­ro­ta­ia e una voce elet­tro­ni­ca spie­ga cosa vedia­mo alla nostra destra e alla nostra sini­stra, acca­de una cosa impre­vi­sta: il tre­no si fer­ma. 

S’inchioda, las­sù, e l’Italia è così pic­ci­na che fa impres­sio­ne, la gen­te la cal­pe­sta e mi fa un po’ pena. L’Italia mi fa pena.

E non è mica tan­to diver­so dal­la real­tà, pen­so. 

Anzi, per la secon­da vol­ta, dico: è meglio. 

Qui, alme­no il fetic­cio è spiat­tel­la­to e il simu­la­cro è prez­za­to in quan­to simu­la­cro, dal­la defi­ni­zio­ne, che ades­so cer­co e tra­scri­vo, ecco cosa inten­do: SIMU­LA­CRO: 1. Sta­tua, imma­gi­ne, spec. di divi­ni­tà. 2. estens. e fig. a. Par­ven­za; imma­gi­ne, rap­pre­sen­ta­zio­ne este­rio­re, non rispon­den­te alla real­tà. b. ant. Ombra, fan­ta­sma di per­so­na mor­ta, di esse­re non rea­le.

Ma anche l’Italia non in minia­tu­ra si è fat­ta model­li­no di sé stes­sa. 

L’autentico è ripro­dot­to, e in mas­sa, sen­za pos­si­bi­li­tà di veri­fi­ca alcu­na. D’altronde anche la veri­fi­ca è assog­get­ta­ta alla nar­ra­zio­ne turi­sti­ca, una nar­ra­zio­ne che luci­da ma can­cel­la al con­tem­po alcu­ne memo­rie.

Lo sap­pia­mo, non sia­mo stu­pi­da gen­te che vaga e che paga bigliet­ti; lo sap­pia­mo che sia­mo turi­sti e, se potes­si­mo, farem­mo sicu­ra­men­te a meno di que­sto, ma è più for­te di noi. 

Il viag­gio. L’altrove, anche se fal­so. La vacan­za come atte­sta­to. Lo stac­co. Il ripo­so. 

Se il vero divie­ne ogget­to di cul­to, se la fati­scen­za e la brut­tez­za, se anche i pan­ni sco­lo­ri­ti e le cre­pe e il dia­let­to e l’ignoranza, se tut­to divie­ne rap­pre­sen­ta­zio­ne di sé, cos’è che può dir­si incon­ta­mi­na­to? ?

Cosa si può sco­pri­re di diver­so da quel­lo che c’è già qui?

Il tre­no si fer­ma e i gigan­ti che cam­mi­na­no lun­go l’Appennino asfal­ta­to stan­no diven­tan­do sem­pre più alti. 

Anche noi, nel­la mono­ro­ta­ia, ci stia­mo allar­gan­do. 

La bim­ba, ad esem­pio, ha il culo sem­pre più gros­so e sua madre cur­va la schie­na per non bat­te­re il capo con­tro il sof­fit­to. 

Han­no paga­to due bigliet­ti, due bibi­te, due gela­ti e que­sto è il prez­zo. 

Allar­go il mio gomi­to che ormai pre­me sul­lo spor­tel­lo; lo tiro fuo­ri dal fine­stri­no, allun­go la mano ed è così lun­go, il mio brac­cio, che pos­so toc­ca­re i visi­ta­to­ri giù in bas­so, anche loro stan­no cre­scen­do.

Quan­do fug­go lon­ta­no e rag­giun­go il par­cheg­gio, si è fat­ta ormai sera. 

Ho spe­so i miei ulti­mi sol­di in una cala­mi­ta. 

I gio­chi di luce comin­cia­no e la gen­te ormai è alta sei o set­te metri. Fa atten­zio­ne a dove cam­mi­na per non schiac­cia­re l’‘Italia. 

E ogni vol­ta che paga­no, ogni vol­ta che com­pra­no, lei si fa più pic­ci­na. 

Una minu­sco­la minia­tu­ra per­fet­ta.

Un gio­cat­to­li­no per noi.

Testo e foto­gra­fie di Bea­tri­ce Benic­chi

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