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Novembre
14 Novembre 2024

RAC­CON­TI E RIFLES­SIO­NI DI UN LAVO­RA­TO­RE UMA­NI­TA­RIO: INTER­VI­STA A DAVI­DE COL­TRI

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Davi­de Col­tri è un ope­ra­to­re uma­ni­ta­rio, che dal 2013 ha lavo­ra­to come Edu­ca­tion Spe­cia­li­st in Siria, Iraq, Kenya, Tan­za­nia, Nepal e Sier­ra Leo­ne. Nel 2019 ha pub­bli­ca­to la rac­col­ta Dov’è casa mia, uno spac­ca­to nar­ra­ti­vo, sce­vro da ogni pie­ti­smo e pater­na­li­smo, dei con­te­sti, del­le dif­fi­col­tà e del­le per­so­ne incon­tra­te negli anni di mis­sio­ne in giro per il mon­do. Il prin­ci­pa­le pre­gio del libro è l’onestà con cui, nel­la sezio­ne fina­le, sono mostra­te le “sutu­re”, per usa­re le paro­le dell’autore, ovve­ro “le tec­ni­che adot­ta­te nel­la resa este­ti­ca dei fat­ti”. In que­sto modo, il let­to­re è mes­so al cor­ren­te di cosa è ripor­ta­to fedel­men­te dall’esperienza e cosa inve­ce è sta­to rie­la­bo­ra­to. Come appas­sio­na­to di let­te­ra­tu­ra e aspi­ran­te lavo­ra­to­re del mon­do del­la coo­pe­ra­zio­ne allo svi­lup­po, ho inter­vi­sta­to Davi­de per far­gli alcu­ne doman­de sul suo lavo­ro e sui rac­con­ti che com­pon­go­no la rac­col­ta.

In cosa con­si­ste il tuo lavo­ro nel set­to­re uma­ni­ta­rio come Edu­ca­tion Spe­cia­li­st?

In pra­ti­ca, mi occu­po di ela­bo­ra­re e gesti­re pro­gram­mi edu­ca­ti­vi in con­te­sti di cri­si. Ini­zial­men­te, si fa una sti­ma di qua­li sono sta­ti i dan­ni subi­ti dal siste­ma edu­ca­ti­vo. In base a que­sta sti­ma, cer­co di scri­ve­re una stra­te­gia che rispon­da ai biso­gni edu­ca­ti­vi del­la popo­la­zio­ne. Dopo­di­ché par­te la ricer­ca dei dona­to­ri, a cui sot­to­po­nia­mo un pro­get­to in base alle risor­se mes­se a dispo­si­zio­ne. Mi devo poi occu­pa­re del­la par­te tec­ni­ca, i manua­li e le for­ma­zio­ni da svi­lup­pa­re per far anda­re avan­ti il tut­to. Ad esem­pio, se voglia­mo rea­liz­za­re un pro­get­to di avvia­men­to al lavo­ro in Siria per ragaz­zi fra i 15 e i 24 anni, potreb­be­ro man­ca­re i libri con cui inse­gna­re ai ragaz­zi a, per esem­pio, ripa­ra­re i tele­fo­ni: io devo pre­mu­rar­mi che il testo segua cri­te­ri peda­go­gi­ci ade­gua­ti. Devo col­la­bo­ra­re anche con i col­le­ghi degli altri set­to­ri affin­ché le scuo­le sia­no un posto sicu­ro, gli inse­gnan­ti pre­pa­ra­ti a sup­por­ta­re i bam­bi­ni anche a livel­lo psi­co­lo­gi­co, le strut­tu­re suf­fi­cien­ti e ade­gua­te a livel­lo sani­ta­rio… Chia­ra­men­te il lavo­ro è mol­to meno linea­re di come te l’ho pre­sen­ta­to ades­so, con vari pro­get­ti in fasi diver­se che devo­no esse­re gesti­ti nel­lo stes­so momen­to.

Per­ché duran­te un’emergenza è impor­tan­te occu­par­si del­la scuo­la?

Le ragio­ni sono varie. Dato che alcu­ne emer­gen­ze dura­no anni, se non ini­zi a occu­par­ti del­la scuo­la per­ché aspet­ti che la cri­si fini­sca, potre­sti non far­lo mai. Il rischio è di per­de­re un’opportunità che poi è sem­pre più dif­fi­ci­le recu­pe­ra­re in futu­ro e che va col­ta nel momen­to più appro­pria­to, quan­do sei più pre­di­spo­sto e, banal­men­te, non hai vin­co­li come la cura dei tuoi figli. La scuo­la costi­tui­sce poi uno spa­zio sicu­ro in un con­te­sto di cri­si e disor­di­ne, sen­za il qua­le bam­bi­ni e ragaz­zi diven­ta­no gran­di trop­po pre­sto, rischian­do di fini­re in situa­zio­ni di sfrut­ta­men­to lavo­ra­ti­vo, matri­mo­ni pre­co­ci e altre stra­te­gie di adat­ta­men­to con­tro­pro­du­cen­ti, come l’affiliazione a gang e ban­de arma­te. C’è anche un discor­so di sup­por­to alle fami­glie, poi­ché la scuo­la for­ni­sce uno spa­zio in cui i geni­to­ri pos­sa­no fidar­si a lascia­re i bam­bi­ni, per ave­re il tem­po di anda­re a pro­cu­rar­si il neces­sa­rio per arri­va­re a fine gior­na­ta o di occu­par­si un po’ di sé stes­si. Alla fine, sono tut­te fun­zio­ni che la scuo­la assol­ve anche in con­te­sti paci­fi­ci e che diven­ta­no cru­cia­li per argi­na­re le con­se­guen­ze a lun­go e medio ter­mi­ne di un’emergenza in cor­so.  

Pas­san­do al libro, vor­rei par­ti­re da Cos’è impor­tan­te per Anne­ke, in cui rac­con­ti di una tua col­le­ga che, in Sudan, vie­ne mole­sta­ta sul lavo­ro dal capo­mis­sio­ne, con la com­pli­ci­tà dei col­le­ghi. Que­sto è un pro­ble­ma strut­tu­ra­le del set­to­re uma­ni­ta­rio?

Il set­to­re uma­ni­ta­rio, come tut­ti gli altri set­to­ri, sta viven­do l’aumento di sen­si­bi­li­tà che sta facen­do emer­ge­re un po’ ovun­que casi di mole­stie sul lavo­ro, pas­sa­ti fino­ra sot­to­trac­cia. Nel con­te­sto del rac­con­to, quan­do il capo­mis­sio­ne pal­peg­gia in bagno Anne­ke e la rea­zio­ne dei col­le­ghi con­si­ste in un riso­li­no di scher­no, ciò con cui si scon­tra la pro­ta­go­ni­sta è essen­zial­men­te una diver­sa sen­si­bi­li­tà. Nel Sudan in pie­na guer­ra civi­le lo stu­pro era diven­ta­ta una vera e pro­pria arma di guer­ra. Io sono sta­to lì nel 2016 e ricor­do un dipen­den­te suda­ne­se di un’altra orga­niz­za­zio­ne qua­si infa­sti­di­to dal­le per­so­ne vit­ti­me di vio­len­za che atti­ra­va­no l’attenzione sul tema. “Di cosa si lamen­ta­no? Sia­mo in guer­ra!”. Un’idea abba­stan­za agghiac­cian­te di per sé, anco­ra di più se vie­ne da un ope­ra­to­re uma­ni­ta­rio. Ma que­sta cosa per lui non era tan­to gra­ve quan­to inve­ce lo era per me. Più in pic­co­lo, Anne­ke subi­sce sul­la sua pel­le esat­ta­men­te que­sto mec­ca­ni­smo. Que­sta cosa crea diver­si dilem­mi inte­rio­ri in noi lavo­ra­to­ri uma­ni­ta­ri, che con i nostri valo­ri ci ritro­via­mo in con­te­sti in cui que­sti non pos­so­no esse­re dati per scon­ta­ti. 

In que­sto rac­con­to c’è, pen­so, un’ammissione di vul­ne­ra­bi­li­tà anche da par­te tua. In uno scam­bio tu scri­vi ad Anne­ke: “sen­to una voce male­det­ta che mi fa ver­go­gna­re ogni vol­ta che pen­so a quel­lo che fareb­be bene a me, per­ché sono qui per aiu­ta­re gli altri”. Anne­ke, inte­rio­riz­zan­do que­sto mes­sag­gio, rinun­cia a fare i con­ti con la mole­stia che ha subi­to. In que­sti con­te­sti, come si aiu­ta il col­le­ga? E come si gesti­sce que­sto sen­so di col­pa?

In quel caso, per­so­nal­men­te non ebbi la pron­tez­za di capi­re e il sen­so di col­pa è for­te in con­te­sti in cui la vio­len­za di gene­re è tol­le­ra­ta. Ti sen­ti in col­pa quan­do intor­no a te stan­no suc­ce­den­do cose mol­to più gra­vi, stan­no venen­do bom­bar­da­ti vil­lag­gi inte­ri, men­tre tu sei sta­ta ‘solo’ pal­peg­gia­ta in uffi­cio. Lo scom­pen­so è vera­men­te gran­de e diven­ta dif­fi­ci­le riba­di­re che anche que­sta cosa non è giu­sta. Il disa­stro fuo­ri non dovreb­be diven­ta­re un moti­vo per but­ta­re giù le mole­stie subi­te per­so­nal­men­te. Tut­ta­via supe­ra­re que­sta lace­ra­zio­ne richie­de una luci­di­tà mol­to dif­fi­ci­le da man­te­ne­re, per­ché o diven­ti cini­co o ti fai tra­vol­ge­re. È un dilem­ma dif­fi­ci­le da risol­ve­re. Nel momen­to in cui scri­ve­vo il libro era una del­le cose che mi met­te­va più in dif­fi­col­tà. 

È una lace­ra­zio­ne che poi pro­iet­ti anche quan­do tor­ni a casa, sul­le per­so­ne che ti rac­con­ta­no pro­ble­mi come uno stop che è diven­ta­to una roton­da. Mi sem­bra a vol­ta di vive­re fra due mon­di che non pos­so­no com­ba­cia­re, una cosa che però può anche far sor­ri­de­re. Ad esem­pio, quan­do i miei col­le­ghi siria­ni mi dice­va­no di sta­re atten­to ad anda­re in Polo­nia, dove ho lavo­ra­to con i pro­fu­ghi scap­pa­ti dall’Ucraina all’inizio del­la guer­ra. La distan­za può crea­re cor­to­cir­cui­ti diver­ten­ti, per­ché da un lato i mon­di ti sem­bra­no incom­pa­ti­bi­li, dall’altro i siria­ni che sono in guer­ra da tre­di­ci anni mi fan­no le stes­se rac­co­man­da­zio­ni di mia madre ma da con­te­sti mol­to dif­fe­ren­ti. Ti direi che ci sono del­le cose comu­ni che emer­go­no, altre su cui è più fati­co­so con­ver­ge­re.

In Solo Atten­ta­ti rac­con­ti di uno scam­bio fra te e tre medi­ci tur­chi che lavo­ra­no in Siria, ripa­ra­ti in casa tua subi­to dopo l’esplosione di una bom­ba. Quan­do i medi­ci lascia­no casa tua, dici “Qua la guer­ra non c’è, sono solo atten­ta­ti” e uno di loro ti rispon­de “Con­ti­nua pure a chia­mar­li solo atten­ta­ti”.  In que­sta con­ver­sa­zio­ne si intui­sce la lace­ra­zio­ne fra te e il con­te­sto. In tut­to que­sto, una signo­ra se la pren­de con un ven­di­to­re ambu­lan­te in stra­da, un pre­zio­so segna­le di nor­ma­li­tà per te, ma una peri­co­lo­sa illu­sio­ne per lei. Come spie­ghi que­sta sfa­sa­tu­ra fra te e la real­tà intor­no?

Nel rac­con­to, la sfa­sa­tu­ra è in real­tà l’incapacità di capi­re che cosa è appro­pria­to in una cer­ta situa­zio­ne. La nor­ma­li­tà in un con­te­sto di emer­gen­za diven­ta pro­ble­ma­ti­ca, soprat­tut­to per lo spet­ta­to­re ester­no: uno non può esse­re un medi­co di guer­ra e far­si una par­ti­ta di pal­lo­ne, come i medi­ci del rac­con­to, o vive­re in pover­tà asso­lu­ta e voler fare una festa. Ma quan­do allar­ghi il cam­po, ti ren­di con­to che allo­ra dovrem­mo sem­pre esse­re fer­mi. Secon­do que­sta pro­spet­ti­va nei cam­pi pro­fu­ghi non ci si dovreb­be spo­sa­re, le per­so­ne non dovreb­be­ro fare figli o feste. Anche io pri­ma di ini­zia­re a lavo­ra­re ero con­vin­to che la vita del­le per­so­ne nei cam­pi pro­fu­ghi fos­se sospe­sa. Quan­do però sono anda­to nel cam­po pro­fu­ghi di Domiz (Ndr in Iraq), una del­le pri­me cose che vidi fu un nego­zio di vesti­ti da spo­sa. Con il tem­po ho rea­liz­za­to che in que­sti con­te­sti cer­ca­re di man­te­ne­re la nor­ma­li­tà e di pro­va­re a diver­tir­si ha un valo­re intrin­se­co. For­se ne ero meno con­vin­to quan­do ho scrit­to il libro e, se ades­so riscri­ves­si il rac­con­to, la signo­ra al bal­co­ne, che è l’unico per­so­nag­gio di fan­ta­sia, sareb­be con­ten­ta di vede­re il ven­di­to­re ambu­lan­te per stra­da anche se c’è appe­na sta­to un atten­ta­to: un pic­co­lo gesto di resi­sten­za che non cam­bia nul­la, ma è comun­que pre­zio­so. 

Nel rac­con­to Barac­che, ambien­ta­to nel­lo slum di Kibe­ra a Nai­ro­bi, il pro­ta­go­ni­sta è Nje­ni, il padre di una ragaz­za diver­sa­men­te abi­le che vie­ne cac­cia­ta da scuo­la per­ché rima­sta incin­ta a segui­to di uno stu­pro. Di nuo­vo assi­stia­mo a un ribal­ta­men­to di pro­spet­ti­va: Nje­ni vor­reb­be con­so­la­re l’operatrice uma­ni­ta­ria deso­la­ta dal­la situa­zio­ne, poi cede a un’al­tra fami­glia il posto a scuo­la del­la figlia. Un cli­ché dell’aiuto allo svi­lup­po è che il bene­fi­cia­rio deve esse­re ed è atti­vo, un aspet­to che però non sem­pre si avver­te nel­la pra­ti­ca, dove ci si può scon­tra­re con comu­ni­tà in peren­ne atte­sa dell’aiuto ester­no e pro­get­ti che ali­men­ta­no la dipen­den­za del­le comu­ni­tà dall’intervento uma­ni­ta­rio. Qual è sta­ta la tua espe­rien­za in pro­po­si­to?

Il gesto del rac­con­to è sta­to rie­la­bo­ra­to, ma Nje­ni è basa­to su una per­so­na cono­sciu­ta a Kibe­ra, dove sta­vo lavo­ran­do a un pro­get­to di inclu­sio­ne di ragaz­zi disa­bi­li a scuo­la. In Kenya, la disa­bi­li­tà si por­ta die­tro anco­ra mol­to stig­ma socia­le, e ten­den­zial­men­te i padri abban­do­na­no le fami­glie in que­sti casi. Lì, a Kibe­ra, ave­vo inve­ce incon­tra­to un grup­po di padri con una gran­de for­za d’animo rispet­to alle aspet­ta­ti­ve che ave­vo io, a ciò che cre­de­vo di tro­va­re fra per­so­ne che oltre a vive­re in una barac­co­po­li dove­va­no anche occu­par­si di figli con disa­bi­li­tà. Ave­va­no una for­za d’animo capa­ce di gesti vera­men­te incre­di­bi­li. Nje­ni era sta­to abban­do­na­to dal­la moglie, e la sua posi­ti­vi­tà non era inge­nua ma con­sa­pe­vo­le dei pro­ble­mi,  un aspet­to che mi ha fat­to fare un pas­so indie­tro. Ho rea­liz­za­to che in que­sti pro­get­ti come nel­la vita incon­tri per­so­ne, e fra que­ste può esser­ci chi lot­ta e non si lascia tra­vol­ge­re dal­le cir­co­stan­ze e chi inve­ce aspet­ta pas­si­va­men­te l’assistenza ester­na. Il rac­con­to vuo­le mostra­re che non esi­sto­no bene­fi­cia­ri, esi­sto­no per­so­ne e il ran­ge quin­di è vario tan­to quan­to lo è nel­la real­tà di tut­ti i gior­ni. 

Il tema del­le ONG che inve­ce di pun­ta­re sull’empo­wer­ment [Ndr. sull’acquisizione di con­sa­pe­vo­lez­za del pro­prio poten­zia­le] del bene­fi­cia­rio lo con­fi­na­no a una posi­zio­ne pas­si­va io lo vedo in due ter­mi­ni. Da un lato sicu­ra­men­te ci sono comu­ni­tà in cui l’abitudine a rice­ve­re aiu­ti sof­fo­ca l’iniziativa, o l’agen­cy [Ndr. la capa­ci­tà di agi­re in modo indi­pen­den­te e auto­no­mo] dei suoi mem­bri. È anche vero che l’importanza di que­sto mec­ca­ni­smo, pur per­ver­so, non va esa­ge­ra­ta. Ho con­dot­to pro­get­ti d’emergenza in Ita­lia in con­te­sti dove di nor­ma lo spi­ri­to d’iniziativa c’è e dove ho comun­que tro­va­to mol­ta pas­si­vi­tà, addi­rit­tu­ra nel mio stes­so comu­ne. Non biso­gna esa­ge­ra­re in nes­su­na del­le due visio­ni, da un lato sicu­ra­men­te c’è un pro­ble­ma di dipen­den­za dall’aiuto uma­ni­ta­rio, dall’altro però non biso­gna dare per scon­ta­to che tut­te le comu­ni­tà e tut­ti gli indi­vi­dui pos­sie­da­no gran­de spi­ri­to d’iniziativa.

Su Ātman Jour­nal è usci­to un pod­ca­st sul­la comu­ni­ca­zio­ne uti­liz­za­ta dal­le orga­niz­za­zio­ni uma­ni­ta­rie nel­le cam­pa­gne di fun­drai­sing. Ammes­so e non con­ces­so che da un lato si deb­ba­no toc­ca­re le cor­de che spin­go­no le per­so­ne a dona­re, lo sti­le di comu­ni­ca­zio­ne inci­de for­te­men­te sul­la per­ce­zio­ne com­ples­si­va dei con­te­sti nar­ra­ti, una respon­sa­bi­li­tà di cui rara­men­te que­ste cam­pa­gne sem­bra­no far­si cari­co. Pren­den­do come esem­pio il tuo libro, la let­te­ra­tu­ra può gio­ca­re un ruo­lo nel­la comu­ni­ca­zio­ne del­le ONG e del mon­do del­la coo­pe­ra­zio­ne allo svi­lup­po?

Temo che fra le due cose ci sia poca con­ta­mi­na­zio­ne, tut­ta­via sono d’accordo che nel fun­drai­sing sia­mo mol­to lega­ti a imma­gi­ni pie­ti­sti­che e ste­reo­ti­pa­te, che rac­con­ta­no il con­te­sto a cui ven­go­no desti­na­ti i fon­di in modo mol­to super­fi­cia­le. Allo stes­so tem­po però sia­mo in pre­sen­za di una cri­si del fun­drai­sing, e le ONG scon­ta­no un po’ di osti­li­tà nei loro con­fron­ti. Il pool di per­so­ne che si fan­no smuo­ve­re in quei modi si sta restrin­gen­do ed è urgen­te secon­do me tro­va­re altre stra­te­gie. Ammi­ro mol­to i ten­ta­ti­vi di ini­zia­ti­ve come RadiAid, che cer­ca­no di valo­riz­za­re sti­li di comu­ni­ca­zio­ne più inno­va­ti­vi. In gene­ra­le, con il libro ho cer­ca­to di pre­sen­ta­re le per­so­ne nel­la loro com­ples­si­tà e pro­ble­ma­ti­ci­tà. Mi sem­bra che sia­mo fer­mi anche nel­la nar­ra­ti­va a rap­pre­sen­ta­zio­ni mol­to vec­chie. I libri che par­la­no di assi­sten­za uma­ni­ta­ria ten­do­no a pre­sen­ta­re solo disgra­zia­ti e pove­ret­ti che devo­no esse­re sal­va­ti e non per­so­ne a tut­to ton­do, come se la neces­si­tà di assi­sten­za fos­se il loro uni­co trat­to distin­ti­vo. Quan­do nel­la real­tà tro­vi poi per­so­ne diver­se e i con­ti non tor­na­no, que­sto è un pro­ble­ma secon­do me. Se il rifu­gia­to che tro­vo in Ita­lia non cor­ri­spon­de alla mia imma­gi­ne del­la pove­ra vit­ti­ma indi­fe­sa, sono più vul­ne­ra­bi­le a nar­ra­zio­ni per cui se non rien­tri in quei cano­ni, allo­ra sei pro­ble­ma­ti­co, maga­ri un cri­mi­na­le. 

Par­lan­do sem­pre di comu­ni­ca­zio­ne, nel­la sezio­ne fina­le del libro difen­di la tua scel­ta di nar­ra­re in pri­ma per­so­na le sto­rie di per­so­nag­gi diver­si da te per gene­re, età, reli­gio­ne o nazio­na­li­tà. Scri­vi: “riten­go illu­so­ria  la spe­ran­za di annul­la­re la distan­za fra indi­vi­dui con­cen­tran­do­si solo sul­le iden­ti­tà — per mez­zo cioè di una let­te­ra­tu­ra iden­ti­ta­ria, dove solo i mem­bri di un cer­to grup­po sono auto­riz­za­ti a scri­ver­ne. Tale approc­cio  […] rischia di pre­clu­de­re la pos­si­bi­li­tà di una comu­ni­ca­zio­ne auten­ti­ca”. In che modo la comu­ni­ca­zio­ne si fa inve­ce più auten­ti­ca se ti pren­di la liber­tà di imper­so­na­re una don­na cur­da in fuga dal­la guer­ra o in un bam­bi­no siria­no bom­bar­da­to da Assad?

È giu­sto dare voce a chi fino­ra è sta­to oppres­so e non ha avu­to pos­si­bi­li­tà di espri­mer­si, ma se le iden­ti­tà diven­ta­no com­par­ti­men­ti sta­gni rinun­cia­mo a par­lar­ci aper­ta­men­te fra tut­ti. Par­ti­rei dal lato oppo­sto, ossia che secon­do me è inau­ten­ti­ca una comu­ni­ca­zio­ne basa­ta esclu­si­va­men­te sull’identità. Diven­ta una spe­cie di neo-tri­ba­li­smo in cui solo chi ha deter­mi­na­te carat­te­ri­sti­che può par­la­re del grup­po a cui appar­tie­ne, ma quel par­lar­ne rima­ne il suo par­lar­ne, non lo ren­de più auten­ti­co per­ché di quel grup­po ne fa par­te, secon­do me. Poi a me pia­ce scri­ve­re sto­rie uni­ver­sa­li, che mi per­met­ta­no di met­ter­mi nei pan­ni degli altri. 

Un altro aspet­to è l’affidabilità del cri­te­rio dell’identità. Quan­do sono anda­to in Iraq la pri­ma vol­ta ho dovu­to fare la resi­den­za e mi han­no chie­sto la reli­gio­ne. Io sono ateo e sbat­tez­za­to. Ma quan­do sta­vo per dir­gli “Non ce l’ho”, loro subi­to han­no det­to “Chri­stian, chri­stian”. Ne rica­vo che spes­so la nostra iden­ti­tà è un con­cet­to costrui­to a par­ti­re da ele­men­ti non scel­ti libe­ra­men­te, ma ere­di­ta­ti, impo­sti e immu­ta­bi­li: il colo­re del­la pel­le, la reli­gio­ne, la nazio­na­li­tà, il ses­so bio­lo­gi­co… Se quin­di ini­zia­mo a scam­biar­ci opi­nio­ni sola­men­te sul­la base di que­sta appar­te­nen­za e non su come ci sen­tia­mo come indi­vi­dui, la comu­ni­ca­zio­ne diven­ta inau­ten­ti­ca per­ché è una comu­ni­ca­zio­ne basa­ta su iden­ti­tà costrui­te, che non ren­de giu­sti­zia alla flui­di­tà del­la real­tà. È ovvio che ognu­no ha il suo back­ground, ma non dovreb­be esse­re quel­lo a deter­mi­nar­ci.

Nel rac­con­to Sco­ra­men­ti però par­li anche un po’ di te. È un pez­zo mol­to poe­ti­co, che sem­bra descri­ve­re un per­cor­so spi­ri­tua­le fat­to di “sfa­sa­tu­re”, fughe, “sco­ra­men­ti” e cul­mi­nan­te nell’accettazione del limi­te. A quat­tro anni dal­la pub­bli­ca­zio­ne del rac­con­to come ti poni di fron­te a que­sto per­cor­so?

Guar­da, me lo fai nota­re tu, ma secon­do me hai col­to il pun­to. Mi ci ritro­vo tan­tis­si­mo, mi risuo­na.  Io cre­do che se una per­so­na ha una curio­si­tà del mon­do, al di là del set­to­re uma­ni­ta­rio, e ha a che fare soprat­tut­to con situa­zio­ni pro­ble­ma­ti­che, que­sti sono dei pas­si ine­vi­ta­bi­li da fare. Maga­ri ser­ve dell’ingenuità, dell’entusiasmo e del­la curio­si­tà ini­zia­le, che ti por­ta­no poi all’accettazione del limi­te indi­spen­sa­bi­le per rigua­da­gna­re la capa­ci­tà di anda­re avan­ti. Ci sono sem­pre dei momen­ti pro­ble­ma­ti­ci, con cui è impor­tan­te riu­sci­re a fare i con­ti per poter ini­zia­re anco­ra il pro­ces­so, all’infinito. 

Qua­li sono sta­te le dif­fi­col­tà prin­ci­pa­li che hai dovu­to affron­ta­re nel­la tua car­rie­ra? 

Pri­ma di tut­to, il diva­rio fra ciò che vole­vo fare e ciò che poi effet­ti­va­men­te otte­ne­vo, pur sfor­zan­do­mi al mas­si­mo. È un po’ il pro­ble­ma del “limi­te”. Si par­te con tan­to idea­li­smo e mol­ta arro­gan­za e per sba­raz­zar­me­ne ci ho mes­so tan­to tem­po. È sta­ta sicu­ra­men­te una cau­sa di sof­fe­ren­za, anche in Sco­ra­men­ti a un cer­to pun­to risuo­na que­sta ango­scia: “e poi arri­vi tu, e sal­vi il mon­do? Aspet­ta­va­no tut­ti te, per­chè gli sal­vas­si il mon­do?”. Ma anche se un po’ di disin­can­to fa bene, è chia­ro che non biso­gna asso­lu­ta­men­te ras­se­gnar­si all’idea che non si avrà mai alcun impat­to, non biso­gna diven­ta­re cini­ci. 

Più in gene­ra­le, rispet­to al mon­do del­le ONG e degli aiu­ti uma­ni­ta­ri, la cosa che mi ha fat­to e tutt’ora mi fa dispe­ra­re è che, rispet­to ad altre for­ze (poli­ti­che, eco­no­mi­che, mili­ta­ri), il mon­do uma­ni­ta­rio ha vera­men­te le “armi” spun­ta­te e una cer­ta ten­den­za all’au­to­sa­bo­tag­gio. Per auto­sa­bo­tag­gio inten­do il non voler mai impor­re una pro­pria visio­ne, la deter­mi­na­zio­ne a rima­ne­re neu­tra­li anche di fron­te a situa­zio­ni evi­den­te­men­te poco vir­tuo­se. Pen­so che ciò deri­vi da un trau­ma post-colo­nia­le che invi­ta l’operatore uma­ni­ta­rio a rap­por­tar­si con estre­ma cau­te­la ai siste­mi cul­tu­ra­li loca­li e da un’egemonia di pen­sie­ro post­mo­der­ni­sta per cui qua­lun­que discor­so “deci­so” vie­ne sem­pre guar­da­to con un po’ di sospet­to. Io sen­to la neces­si­tà di ana­li­si più pro­fon­de di così. Alla fine è anche il sen­so del set­to­re in cui lavo­ro, quel­lo edu­ca­ti­vo, cer­ca­re di met­te­re in discus­sio­ne alcu­ne dina­mi­che di con­te­sto disfun­zio­na­li, per por­vi rime­dio o alme­no miti­gar­ne gli effet­ti. Ad esem­pio, tan­te vol­te non si met­te in discus­sio­ne il pro­gram­ma sco­la­sti­co di un cer­to pae­se, anche se è il pri­mo ele­men­to di segre­ga­zio­ne di gene­re per­ché pre­ve­de per­cor­si sepa­ra­ti per uomi­ni e don­ne. La stes­sa cosa che in Ita­lia ver­reb­be vista come pro­ble­ma­ti­ca qui non vie­ne nem­me­no per­ce­pi­ta, un po’ per­ché è dif­fi­ci­le da cam­bia­re, un po’ per­ché com­por­ta tan­ti rischi, un po’ per­ché “ma chi sia­mo noi”…io su que­sta cosa però ho del­le riser­ve. 

Che stra­te­gie hai tro­va­to per pren­der­ti cura di te nei momen­ti di sof­fe­ren­za?

Capi­re il limi­te di ciò che pos­so fare sicu­ra­men­te mi ha aiu­ta­to in gene­ra­le, a dimi­nui­re la sof­fe­ren­za di fon­do. Poi, per quan­to pos­sa esse­re disil­lu­so cir­ca l’universo del­le ONG, ridi­men­sio­na­re il con­tri­bu­to che per­so­nal­men­te pos­so dare mi ha fat­to rea­liz­za­re che sul mio lavo­ro sono bra­vo a fare alcu­ne cose, e che sono con­ten­to quan­do ho la pos­si­bi­li­tà di far­le. Ad esem­pio, al momen­to sono in Mozam­bi­co. Mi pia­ce lavo­ra­re per chia­ri­re sco­po, stru­men­ti e moda­li­tà del pro­get­to a tut­ti i livel­li del­la gerar­chia, affin­ché non vada tut­to a roto­li per­ché non ci sia­mo pre­oc­cu­pa­ti di coin­vol­ge­re chi sareb­be anda­to a lavo­ra­re sul cam­po. Sul ver­san­te pra­ti­co, cer­co di non viag­gia­re tan­to come face­vo pri­ma, di non lavo­ra­re trop­pe ore e di fare atti­vi­tà fisi­ca, ad esem­pio qui mi sono iscrit­to in una pale­stra. Cer­co di sta­re con per­so­ne posi­ti­ve, di evi­ta­re quel­le che non lo sono o che non per­ce­pi­sco come tali: alla fine non sono cose poi mol­to diver­se da quel­le che farei a casa mia, per tor­na­re al tito­lo del libro. 

Ma a pro­po­si­to, quin­di? Hai tro­va­to casa tua?

Quel­lo è un tema che con il tem­po si è un po’ atte­nua­to, l’incapacità di tro­var­la in un posto solo è diven­ta­ta la capa­ci­tà di tro­var­la in tan­ti posti. Poi, allo stes­so tem­po, è suc­ces­sa se vuoi una cosa mol­to bana­le: quat­tro anni fa con mia moglie abbia­mo com­pra­to casa e que­sto, anche se non ci sto tan­to, mi ha per­mes­so di ave­re alme­no un posto dove tor­na­re. Que­sta cosa mi ha dato modo di apprez­za­re anche le altre case che ho, non par­lo neces­sa­ria­men­te di case fisi­che. Rispet­to agli anni del libro, quan­do pra­ti­ca­men­te ogni due mesi cam­bia­vo posto, viag­gio mol­to meno, ma la casa è diven­ta­ta una dimen­sio­ne, una rete fat­ta di ami­ci­zie e di rela­zio­ni, alcu­ni posti che mi sono rima­sti nel cuo­re, il nord dell’Iraq, Bei­rut… Ave­re un pun­to fer­mo però mi ha per­mes­so di goder­mi di più anche le altre case. 

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