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Novembre
10 Novembre 2025

OTTO E MEZ­ZO DI FEL­LI­NI, LA VITA COME LEE­LA

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Se doves­si cede­re allo scioc­co quan­to diver­ten­te pas­sa­tem­po di sti­la­re una mia per­so­na­le clas­si­fi­ca dei film ‘più bel­li di tut­ti i tem­pi’ asse­gne­rei la pal­ma secon­do diver­si para­me­tri: Quar­to Pote­re di Orson Wel­les (1941) avreb­be uno scran­no sul podio come, pro­ba­bil­men­te, film più impor­tan­te come impat­to inno­va­ti­vo; Il Colo­re del Melo­gra­no di Ser­gej Para­ja­nov (1969) come ope­ra este­ti­ca­men­te più vici­na al con­cet­to di incan­to supre­mo; 2001 Odis­sea nel­lo spa­zio di Stan­ley Kubrick (1968) come ver­ti­ce dell’ardimento filo­so­fi­co; Andrej Rublëv di Andrej Tar­ko­v­skij (1966) come abis­sa­le pro­fon­di­tà spi­ri­tua­le; Mulhol­land Dri­ve (2001) e l’ottava pun­ta­ta, qua­le gio­iel­lo a sé stan­te, di Twin Peaks The Return (2017) di David Lynch come visio­ne miste­ri­ca.

Ma se doves­si sce­glie­re il film più signi­fi­ca­ti­vo del­la set­ti­ma arte, il più semi­na­le, il più gra­vi­do di rifles­sio­ni filo­so­fi­che sul­lo stes­so medium cine­ma­to­gra­fi­co, non avrei dub­bio alcu­no: Otto e mez­zo di Fede­ri­co Fel­li­ni (1963).

Se ‘fel­li­nia­no’ è diven­ta­to un agget­ti­vo, Otto e mez­zo è diven­ta­to di per sé una cate­go­ria cri­ti­ca, qua­si un gene­re a par­te. Quan­te vol­te si è det­to di un regi­sta, ‘ha fat­to il suo Otto e mez­zo’, rife­ren­do­si a un ten­ta­ti­vo di sum­ma dei pro­pri temi e di rifles­sio­ne meta­ci­ne­ma­to­gra­fi­ca sul sen­so del­la pro­pria arte e dell’arte in asso­lu­to?

Sen­za cita­re le ope­re che han­no dichia­ra­ta­men­te ripre­so tito­lo e tra­ma dell’opus magnum fel­li­nia­no: pen­sia­mo al tema ana­lo­go di Effet­to not­te di Truf­faut del ‘73, al rife­ri­men­to dichia­ra­to di Star­du­st Memo­ries di Woo­dy Allen (1980), al cer­vel­lo­ti­co gio­co di sca­to­le cine­si di Syne­do­che, New York di Char­lie Kau­f­man (2008), fino al più recen­te Un film fat­to per Bene di Fran­co Mare­sco (2025).

“Crea­re un luo­go comu­ne è genio” scri­ve­va nei suoi ulti­mi appun­ti Bau­de­lai­re (1861), sov­ver­ten­do, appun­to, il luo­go comu­ne sul genio.

Il poe­ta fran­ce­se ave­va intui­to quel­lo che poi il suo ere­de ere­ti­co T.S. Eliot (1919) chia­me­rà “cor­re­la­ti­vo ogget­ti­vo”, il pote­re evo­ca­ti­vo dell’immaginazione arche­ti­pi­ca dell’immagine poe­ti­ca.

Ecco ciò che è dive­nu­to il film di Fel­li­ni, ope­ra pro­ver­bia­le non nel sen­so mon­da­no de La Dol­ce Vita, ma come cate­go­ria intel­let­tua­le di un regi­sta popo­la­ris­si­mo, fino a diven­ta­re egli stes­so una voce del dizio­na­rio.

In bre­ve, è dif­fi­ci­le rac­con­ta­re la tra­ma del film, dac­ché lo smar­ri­men­to del­la tra­ma nar­ra­ti­va, arti­sti­ca, fil­mi­ca, esi­sten­zia­le è il tema stes­so dell’opera.

Rias­su­men­do bru­tal­men­te, il film rac­con­ta l’incapacità di Fel­li­ni di rea­liz­za­re il film stes­so.

Gui­do Ansel­mi, un famo­so regi­sta ita­lia­no in cri­si d’ispirazione, non rie­sce a por­ta­re avan­ti, per la dispe­ra­zio­ne del pro­dut­to­re, un ambi­zio­sis­si­mo e costo­sis­si­mo film di fan­ta­scien­za. Si riti­ra in un cen­tro ter­ma­le, per cer­ca­re quie­te men­ta­le, ma vie­ne pre­sto risuc­chia­to nel vor­ti­ce d’impegni mon­da­ni, curio­si inva­den­ti, ami­ci e aman­ti… Soprat­tut­to, è tor­men­ta­to dai fan­ta­smi del­la sua infan­zia, sim­bo­li dei nodi irri­sol­ti nel­le sue rela­zio­ni con il sacro, con le don­ne e con se stes­so.

Così, in un gio­co tra real­tà e fin­zio­ne che va oltre Piran­del­lo e Kuro­sa­wa, Fel­li­ni met­te in sce­na se stes­so attra­ver­so il fede­le alter ego di Mar­cel­lo Mastro­ian­ni, la pro­pria vita, i pro­pri tra­di­men­ti, le pro­prie debo­lez­ze, il pro­prio fal­li­men­to. 

E così, para­dos­sal­men­te, rea­liz­za il suo capo­la­vo­ro.

E in que­sto ver­ti­gi­no­so gio­co di spec­chi, nel para­dos­so, di scon­ta­re lo iato tra rap­pre­sen­ta­zio­ne e real­tà, tra men­zo­gna e veri­tà, Fel­li­ni ope­ra una catar­si tra­gi­ca e gio­io­sa del­la pro­pria mise­ria uma­na.

Sup­por­ta­to da sce­neg­gia­to­ri d’eccezione come Ennio Fla­ia­no, Tul­lio Pinel­li e Bru­nel­lo Ron­di, il regi­sta ci rega­la una serie di visio­ni appa­ren­te­men­te discon­nes­se, tra fram­men­ti oni­ri­ci, pro­ie­zio­ni psi­chi­che, memo­rie tra­so­gna­te e tra­sfi­gu­ra­zio­ni grot­te­sche.

Eppu­re, chec­ché ne dica­no regi­sti talen­tuo­si ma mol­to lon­ta­ni dal­la poten­za poe­ti­ca fel­li­nia­na come Luca Gua­da­gni­no, nes­su­na sce­na è gra­tui­ta o ridon­dan­te.

Chiun­que abbia mes­so pie­de su un set cine­ma­to­gra­fi­co, può rico­no­sce­re nel­la rap­pre­sen­ta­zio­ne grot­te­sca del film, impre­zio­si­ta dal­lo sguar­do umo­ri­sti­co del­lo ‘spet­ta­to­re addor­men­ta­to Fla­ia­no’, tut­ti i per­so­nag­gi ricor­ren­ti del­la gran­de Comé­die humai­ne di Cine­cit­tà: il pro­dut­to­re napo­le­ta­no con aman­te scioc­chi­na al segui­to a metà tra il gagà e il gang­ster, le mae­stran­ze roma­ne decli­na­te tra stan­chez­za seni­le, astu­zie impic­cio­ne e gla­cia­le effi­ca­cia, i gior­na­li­sti pedan­ti, i papa­raz­zi asse­dian­ti, la Cor­te dei Mira­co­li di figu­ran­ti, fasci­no­si o ridi­co­li.

Ma oltre a que­sto sfon­do grot­te­sco amo­re­vol­men­te immor­ta­la­to, il genio roma­gno­lo met­te in sce­na una vera e pro­pria ghir­lan­da di per­so­nag­gi indi­men­ti­ca­bi­li, alcu­ni memo­ra­bi­li nel­la loro paro­dia ste­reo­ti­pa­ta, altri lumi­no­si nel loro nito­re arche­ti­pi­co.

Nel­la rap­pre­sen­ta­zio­ne del Fem­mi­ni­le, Fel­li­ni com­po­ne la sua sin­fo­nia memo­ra­bi­le, la sua più ful­gi­da costel­la­zio­ne di arche­ti­pi.

Nel­la fami­ge­ra­ta sce­na dell’harem imma­gi­na­rio, ogni aspet­to dell’Eterno Fem­mi­ni­no è pre­sen­te: la moglie Lui­sa, inter­pre­ta­ta da Anouk Aimée, fede­le e ser­vil­men­te obbe­dien­te, è il rove­scio del­la nevro­si nel­la ‘real­tà’ che va d’amore e d’accordo con Car­la, l’amante fatua e pro­ca­ce nel­le fat­tez­ze di San­dra Milo pro­prio su quel set nac­que la rela­zio­ne adul­te­ri­na col regi­sta, a sug­gel­la­re anco­ra una vol­ta l’intreccio ine­stri­ca­bi­le tra vita e ope­ra; la sco­per­ta proi­bi­ta del­la sen­sua­li­tà feri­na e malin­co­ni­ca del­la Sara­ghi­na (Eddra Gale) e la gra­zia deca­den­te del­la diva sul via­le del tra­mon­to (Made­lei­ne LeBaeu), la dol­ce distan­za del­la figu­ra mater­na e le memo­rie infan­ti­li del­le balie e del­le loro gio­co­se nenie in dia­let­to; tut­to ciò col sot­to­fon­do ghi­gnan­te dell’amica, con­fi­den­te e stre­ghet­ta Ros­sel­la Falk a testi­mo­nia­re diver­ti­ta il via­vai di aman­ti rea­li o imma­gi­na­rie dall’algida hostess sve­de­se alla pro­ca­ce dan­za­tri­ce afri­ca­na nel­la mes­sin­sce­na men­ta­le del pro­ta­go­ni­sta.

Otto e mez­zo è la testi­mo­nian­za di uno stal­lo, crea­ti­vo ed esi­sten­zia­le.

Alla cri­si esi­sten­zia­le del pro­ta­go­ni­sta non pos­so­no dare rispo­ste né il dog­ma reli­gio­so rap­pre­sen­ta­to, in una per­fet­ta rap­pre­sen­ta­zio­ne del­la iera­ti­ci­tà sor­da al dia­lo­go, dal Car­di­na­le che si limi­ta a cita­re Ori­ge­ne “extra eccle­siam nul­la salus” né il nichi­li­smo post­mo­der­no diver­ten­tis­si­ma la sce­na in cui, duran­te i pro­vi­ni, Gui­do imma­gi­na di far impic­ca­re Dau­mier, il borio­so e incon­ten­ta­bi­le cri­ti­co intel­let­tua­le inter­pre­ta­to da Jean Rou­geul.

Ecco, dun­que, nel fina­le, uni­ca figu­ra fem­mi­ni­le di pura reden­zio­ne, Clau­dia, ovve­ro la Car­di­na­le in un gio­co di paro­le for­se invo­lon­ta­ria­men­te iro­ni­co con la ste­ri­le distan­za spi­ri­tua­le del cor­ri­spet­ti­vo maschi­le: un omag­gio qua­si stil­no­vi­sti­co alla bel­lez­za fem­mi­ni­le, nel­la sua mani­fe­sta­zio­ne più uni­ver­sal­men­te rico­no­sciu­ta.

Già ne La Dol­ce Vita, nell’iconica sce­na den­tro la Fon­ta­na di Tre­vi, lo stes­so Mar­cel­lo Mastro­ian­ni si rife­ri­va ad Ani­ta Ekberg in ter­mi­ni squi­si­ta­men­te arche­ti­pi­ci, come in una lita­nia alla Dea Isi­de: «Tu sei la pri­ma don­na del pri­mo gior­no del­la crea­zio­ne. Sei la madre, la sorel­la, l’a­man­te, l’a­mi­ca, l’an­ge­lo, il dia­vo­lo, la ter­ra, la casa…».

Ancor più nel caso di Clau­dia Car­di­na­le, il ruo­lo sim­bo­li­co è dichia­ra­to il per­so­nag­gio che avreb­be dovu­to inter­pre­ta­re nel film è La Ragaz­za del­la Fon­te. E anche qui il col­le­ga­men­to all’acqua come ele­men­to di rige­ne­ra­zio­ne spi­ri­tua­le non fa pen­sa­re solo a Vene­re, ma al suo pre­ce­den­te arche­ti­po india­no, la dea Laksh­mi: «Sono venu­ta per far ordi­ne, sono venu­ta per far puli­zia», ripe­te nel­la visio­ne oni­ri­ca Clau­dia. Non solo dea del foco­la­re, ma, appun­to, Colei che sma­sche­ra ogni fal­si­tà. In cin­que minu­ti di dia­lo­go memo­ra­bi­le, solo davan­ti alla bel­lez­za pura di Clau­dia, che smon­ta ogni sua scu­sa il famo­so «per­ché non sa voler bene» ripe­tu­to tre vol­te per inchio­da­re al pro­prio egoi­smo il pro­ta­go­ni­sta il cini­smo di Gui­do fa cade­re la masche­ra e con­fes­sa il suo ingan­no: «Non c’è la par­te nel film. Non c’è nean­che il film. Non c’è nien­te di nien­te da nes­su­na par­te».

La figu­ra di Clau­dia, nel­la luce rive­la­ti­va del­la sua acce­can­te bel­lez­za, intro­du­ce allo scio­gli­men­to del­la vicen­da, il famo­sis­si­mo fina­le, per capi­re il qua­le cre­do sia neces­sa­rio intro­dur­re un con­cet­to car­di­ne del­la filo­so­fia orien­ta­le, di cui secon­do me il film è la per­fet­ta rap­pre­sen­ta­zio­ne nel­la cul­tu­ra occi­den­ta­le moder­na.

Nell’induismo, l’intera crea­zio­ne è vista come una mani­fe­sta­zio­ne ludi­ca del Divi­no, sca­tu­ri­ta da pura liber­tà, gio­ia e crea­ti­vi­tà: Lee­la (o Lila), il gio­co cosmi­co.

Vedre­mo, alla luce di que­sta visio­ne, come nell’incapacità di crea­zio­ne indi­vi­dua­le uma­na, il pro­ta­go­ni­sta tro­ve­rà sen­so solo nel dis­sol­ver­si nel gran­de gio­co del­la crea­zio­ne divi­na.

Inten­do chia­ri­re che que­sta non è solo una for­za­tu­ra ese­ge­ti­ca di uno spet­ta­to­re fis­sa­to con l’Oriente che vuo­le pie­ga­re le visio­ni fel­li­nia­ne alle pro­prie osses­sio­ni filo­so­fi­che.

Il rap­por­to fecon­do di sug­ge­stio­ne ed esplo­ra­zio­ne di Fel­li­ni con le filo­so­fie orien­ta­li, come in più lar­go sen­so dell’esoterismo e del para­nor­ma­le, è noto.

Ricor­do una con­ver­sa­zio­ne a not­te fon­da, nei vico­li roma­ni die­tro Piaz­za Vesco­vio, con Mar­co Lodo­li pro­prio lui, l’unico a coglie­re e a ricor­da­re gar­ba­ta­men­te a Car­me­lo Bene come la sua ricer­ca misti­ca fos­se già risol­ta nel­la Bha­ga­vad Gita il qua­le mi con­fer­mò come, spes­so, par­la­va con Fel­li­ni di guru orien­ta­li e di testi sacri indui­sti.

Fel­li­ni leg­ge­va Jung e con­sul­ta­va spes­so l’IChing, ora­co­lo cer­to non india­no ma per­fet­ta sin­te­si del­la visio­ne orien­ta­le del dive­ni­re nel tem­po cicli­co.

L’idea del­la real­tà come sogno di Brah­ma, dei­tà dal­la fun­zio­ne crea­tri­ce nel­la Tri­mur­ti indui­sta, non pote­va che esse­re di gran­de sug­ge­stio­ne per un auto­re che ha fat­to del­la visio­ne oni­ri­ca la sostan­za stes­sa del­la sua poe­ti­ca.

Nel film la moglie del Mago figu­ra chia­ve, come vedre­mo e dota­ta di pote­ri tele­pa­ti­ci, si chia­ma pro­prio Maya: ovve­ro la dea indui­sta che rap­pre­sen­ta il con­cet­to, poi ripre­so da Scho­pe­n­hauer in altra acce­zio­ne, di divi­na illu­sio­ne con­nes­sa alla crea­zio­ne.

Al di là, dun­que, di un mani­fe­sto col­le­ga­men­to con l’Inconscio Col­let­ti­vo, non è pere­gri­no acco­sta­re con­cet­ti del­la tra­di­zio­ne spi­ri­tua­le india­na alla welt­an­schaaung fel­li­nia­na.

Nel mera­vi­glio­so pan­theon del­le dei­tà indù, la figu­ra pro­ba­bil­men­te più sim­bo­li­ca­men­te avvin­ta al con­cet­to di Lee­la è Bala Kri­sh­na, il Kri­sh­na bam­bi­no, divi­na­men­te biri­chi­no.

Nel­la let­te­ra­tu­ra sacra, ad esem­pio nel Bha­ga­va­ta Pura­na o Śrī­mad Bhā­ga­va­tam del IX‑X sec. d.C., poi rie­la­bo­ra­ta nel­le con­ti­nue varia­zio­ni mito­lo­gi­che e fia­be­sche del­lo ster­mi­na­to sin­cre­ti­smo popo­la­re india­no, ci sono innu­me­re­vo­li aned­do­ti che testi­mo­nia­no l’aspetto ludi­co del dio bim­bo: le mara­chel­le come ruba­re il bur­ro sim­bo­lo di mad­hu­rya, la dol­cez­za divi­na o il pro­teg­ge­re i devo­ti sol­le­van­do con un dito il mon­te Govar­d­ha­na.

Uno degli attri­bu­ti di Kri­sh­na è il flau­to, con cui incan­ta le pasto­rel­le gopi in una dan­za det­ta pro­prio Rasa Lee­la, che potrem­mo tra­dur­re “gio­co dell’estasi” evi­den­te invi­to meta­fo­ri­co a unir­si al gio­co cosmi­co.

La divi­na gio­co­si­tà infan­ti­le del dio ispi­ra il gran­de mes­sag­gio misti­co del­la Bha­ga­vad Gita: testi­mo­nia­re l’intero dram­ma dell’esistenza come un gio­co, una com­me­dia divi­na.

L’invito a una cono­scen­za peren­ne, a uno sguar­do sub spe­cie aeter­ni­ta­tis non può che con­dur­re a una visio­ne di sere­no e gio­co­so distac­co.

In Occi­den­te, tale con­sa­pe­vo­lez­za eso­te­ri­ca affon­da le sue radi­ci in uno dei più cele­bri fram­men­ti di Era­cli­to (1980): Aion il Tem­po Eter­no è un fan­ciul­lo che gio­ca con le sue pedi­ne.

Tor­nia­mo ora a Otto e mez­zo.

Nel fina­le del film, dopo una disa­stro­sa e umi­lian­te con­fe­ren­za stam­pa in cui Gui­do ha come via d’uscita ono­re­vo­le solo un sim­bo­li­co sui­ci­dio, ovve­ro la rinun­cia al film, il regi­sta si ritro­va in una mac­chi­na fer­ma come nel clau­stro­fo­bi­co sogno ini­zia­le con l’intellettuale Dau­mier, assi­sten­do allo sman­tel­la­men­to dell’astronave desti­na­ta alla sce­na madre del film, sim­bo­lo del fal­li­men­to del pro­prio ego iper­tro­fi­co.

Gui­do ascol­ta il mono­lo­go nichi­li­sta dell’intellettuale che sen­ten­zia spie­ta­to: «Ci sono già trop­pe cose super­flue al mon­do, non è il caso di aggiun­ge­re altro disor­di­ne al disor­di­ne… Distrug­ge­re è meglio che crea­re quan­do non si crea­no le poche cose neces­sa­rie».

E qui, nel silen­zio, nel fal­li­men­to del­la razio­na­li­tà, acca­de il mira­co­lo.

Davan­ti alle cene­ri del­la pro­pria vani­tà, nel­la nigre­do del pro­prio sen­so, ecco subi­ta­neo, come il risve­glio del­la Kun­da­li­ni, un sato­ri poe­ti­co e com­mo­ven­te: nel vuo­to del pro­prio ego ritrat­to, nel vilam­ba lo spa­zio tra i due pen­sie­ri espe­ri­to dal medi­tan­te ‘sahaj’, ovve­ro pra­ti­can­te del­lo yoga ‘spon­ta­neo’ fio­ri­sce l’irrazionale, soa­ve leg­ge­rez­za del­la gio­ia di vive­re.

Pro­prio duran­te la spie­ta­ta cri­ti­ca nichi­li­sta del cri­ti­co sor­go­no, come con­tro­can­to, le imma­gi­ni poe­ti­che dell’infanzia, la cal­ma com­po­stez­za dei geni­to­ri, la cura e il tepo­re del­le balie, il sor­ri­so subli­me del­la purez­za di Clau­dia Car­di­na­le.

Il fina­le di Otto e mez­zo è la mas­si­ma espres­sio­ne fil­mi­ca del post-moder­no, ma anche la sua con­dan­na e il supe­ra­men­to misti­co del­la sua mise­ria nichi­li­sti­ca.

Ne La ter­ra deso­la­ta del cita­to Eliot, dopo la deco­stru­zio­ne tota­le rima­ne il mosai­co di rife­ri­men­ti poe­ti­ci a redi­me­re lo smar­ri­men­to esi­sten­zia­le — «con que­sti fram­men­ti ho pun­tel­la­to le mie rovi­ne» — fino a far risuo­na­re il peren­ne rin­toc­co del man­tra indui­sta sul­la pace uni­ver­sa­le: Om Shan­ti Shan­ti Shan­ti.

Allo stes­so modo, il mono­lo­go fina­le inte­rio­re del pro­ta­go­ni­sta di Otto e mez­zo è vet­ta e supe­ra­men­to dell’esistenzialismo, del­lo Zeit­gei­st nove­cen­te­sco, un’epifania joy­cia­na che supe­ra la memo­ria del tem­po per­du­to prou­stia­na in un atti­mo d’illuminazione improv­vi­sa: 

«Ma che cos’è que­sto lam­po di feli­ci­tà che mi fa tre­ma­re e mi ridà for­za, vita? Vi doman­do scu­sa dol­cis­si­me crea­tu­re, non ave­vo capi­to, non sape­vo… com’è giu­sto accet­tar­vi, amar­vi… E com’è sem­pli­ce. Lui­sa, mi sen­to come libe­ra­to: tut­to mi sem­bra buo­no, tut­to ha un sen­so, tut­to è vero…»

Come in ogni espe­rien­za misti­ca, il pro­ta­go­ni­sta si scon­tra con l’ineffabile: «Ah, come vor­rei saper­mi spie­ga­re… ma non so dire.».

Ed è in quel momen­to che il bene­vo­lo trick­ster magi­co, l’amico Mago che per tut­to il film è sta­to figu­ra di sup­por­to poe­ti­co sap­pia­mo quan­to Fel­li­ni fos­se ami­co e ammi­ra­to­re di Gusta­vo Rol apre le por­te dell’’intuizione supre­ma, la più com­mo­ven­te rap­pre­sen­ta­zio­ne dell’amor fati del­la sto­ria del cine­ma: tut­ti i per­so­nag­gi del film/mondo fel­li­nia­no sal­go­no insie­me su una pas­se­rel­la, in un giro­ton­do gio­co­so.

Una sce­na che met­te­reb­be d’accordo Bud­d­ha, Sene­ca e Nie­tzsche.

Fel­li­ni rap­pre­sen­ta mira­bil­men­te l’accettazione del pro­prio desti­no, la rein­te­gra­zio­ne dell’Ombra, la fusio­ne col dai­mon, il dis­sol­vi­men­to del­le pro­prie masche­re nel pro­prio Sé, in un abbrac­cio col­let­ti­vo e car­na­scia­le­sco.

Il giro­ton­do fina­le non è solo un’immediata e anti­ca alle­go­ria cir­cen­se dell’esistenza, ma è la vit­to­ria del tem­po cicli­co, del­la coscien­za peren­ne sul­le mise­rie del­la ‘sto­ria’, per­so­na­le e col­let­ti­va.

Una mera­vi­glio­sa dan­za in cui alla fine anche Guido/Fellini sale, mano nel­la mano con sua moglie, in un ricon­giun­gi­men­to sim­bo­li­co con la sua Shak­ti, dive­nen­do così, come da det­ta­to del­la Bha­ga­vad Gita, regi­sta e pro­ta­go­ni­sta, atto­re e testi­mo­ne del­la sua stes­sa ope­ra.

Una dan­za chiu­sa, con poe­ti­ca com­mo­zio­ne, dal Gui­do bim­bo, dan­zan­te col flau­to, esat­ta­men­te come Bala Kri­sh­na, che gui­da fuo­ri sce­na i musi­ci giul­la­ri, a ricor­dar­ci come un coman­da­men­to poe­ti­co il mes­sag­gio defi­ni­ti­vo e comu­ne di ogni gran­de tra­di­zio­ne, il lam­po sapien­zia­le che illu­mi­na la coscien­za: «È una festa la vita, vivia­mo­la insie­me».

Foto­gra­fia di Alfre­do Tes­sie­ri

Biblio­gra­fia

Bau­de­lai­re, Char­les. [1861] 2016. Fusées. Mon coueur mis à nu et autres frag­men­ts posthu­me, Gal­li­mard, Paris.

Eliot, T. S. [1919] 1967. Il bosco sacro. Sag­gi sul­la poe­sia e la cri­ti­ca, trad. di Rober­to Sane­si, Bom­pia­ni, Mila­no. 

Era­cli­to. 1980. I fram­men­ti, a cura di Gior­gio Col­li, Adel­phi, Mila­no, fr. 52.

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