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Novembre
24 Novembre 2025

LE VIE DEL­LA SETA SONO INFI­NI­TE

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Repor­ta­ge sul Gan­su e la fron­tie­ra cine­se

秦時明月漢時關
La luna chia­ra dei Qin bril­la anco­ra sui vali­chi degli Han

萬里長征人未還
Dal­le spe­di­zio­ni remo­te, in pochi han­no fat­to ritor­no.

Wang Chan­gling 王昌龄

 

Il  deser­to
La sta­zio­ne di Dun­huang è un lun­go paral­le­le­pi­pe­do color sab­bia com­po­sto da ampi bloc­chi squa­dra­ti, alcu­ni deco­ra­ti da rilie­vi kitsch di apsa­ra che dan­za­no. Davan­ti al piaz­za­le vuo­to il sole del mat­ti­no, già alto ben­ché sia­no sol­tan­to le sei, scal­da la ter­ra bru­cia­ta e pochi euca­lip­ti soli­ta­ri. Ine­vi­ta­bil­men­te stan­chi e con­fu­si dopo undi­ci ore di tre­no, respi­ria­mo l’a­ria cal­da e pol­ve­ro­sa del­la fron­tie­ra dai fine­stri­ni abbas­sa­ti del taxi.

Glo­ria, Atus e io sia­mo gli uni­ci tre occi­den­ta­li, fis­sa­ti con curio­si­tà dai nume­ro­si viag­gia­to­ri che scen­do­no sul­la ban­chi­na. Tre ricer­ca­to­ri, due filo­so­fi e un’an­tro­po­lo­ga, zero doman­de su cosa sia­mo venu­ti a fare in que­sta remo­ta par­te del Gan­su, ma sia­mo cir­con­da­ti da una curio­si­tà avvol­gen­te come l’a­fa che sale pia­no pia­no. Tra gli sguar­di curio­si salia­mo su un taxi, lascian­do una scia di sin­to­ma­ti­co miste­ro.

Dun­huang è una cit­ta­di­na con più hotel che turi­sti, fat­ta di lar­ghi via­li sgom­bri che muo­io­no tut­ti nel deser­to che la cir­con­da. «Si muo­ve» insi­ste Gen­ghis, il nostro tas­si­sta, che come sug­ge­ri­sce il nome è di ori­gi­ne mon­go­la, «A vol­te vie­ne den­tro la cit­tà, a vol­te si allon­ta­na. Le dune non stan­no mai fer­me. Par­la­no, anche»

Sul­la stra­da dob­bia­mo fer­mar­ci, dice Gen­ghis, a fare cola­zio­ne nel loca­le di suo cugi­no. Noi non sia­mo d’ac­cor­do, ma è lui che gui­da. Die­ci minu­ti dopo sia­mo sedu­ti davan­ti a una zup­pa di mon­to­ne e lat­te di giu­men­ta fer­men­ta­to. Atus è vega­no, Glo­ria non man­gia car­ne ros­sa, toc­ca fini­re tut­to a me. Non è un cap­puc­ci­no ma meglio di nien­te, dico, men­tre Erdem, il cugi­no di Gen­ghis, suo­na alla chi­tar­ra una vec­chia bal­la­ta che ripro­du­ce il rumo­re dei caval­li al galop­po.

Una del­le pos­si­bi­li tra­du­zio­ni di Dun­huang è “muc­chio (dun ) lumi­no­so (huang )”, ma il nome potreb­be esse­re di deri­va­zio­ne farsi: dru­va­na signi­fi­ca “for­tez­za per rac­co­glie­re tri­bu­ti”. Sco­no­sciu­ta ai più, eppu­re nota in Occi­den­te fin dai pri­mi seco­li del­la cri­stia­ni­tà, tan­to che vie­ne cita­ta dal geo­gra­fo Tolo­meo, Dun­huang è sem­pre sta­ta una cit­tà di fron­tie­ra. Sospe­sa come un mirag­gio tra i deser­ti occi­den­ta­li e le ulti­me pro­pag­gi­ni del­l’im­pe­ro Han, costi­tui­va un avam­po­sto arma­to in gra­do di avvi­sa­re le pro­vin­ce inter­ne del­le incur­sio­ni noma­di tra­mi­te un gran­de “fuo­co di segna­la­zio­ne” – altra pos­si­bi­le tra­du­zio­ne. Con il con­so­li­da­men­to del­lo sta­to e l’in­ten­si­fi­ca­zio­ne del­le rot­te caro­va­nie­re, Dun­huang diventò uno sno­do cru­cia­le del­la Via del­la Seta. Ai pel­le­gri­ni e ai mer­can­ti che arri­va­va­no dopo aver vali­ca­to le mon­ta­gne e attra­ver­sa­to i deser­ti, le lun­ghe mura del­la cit­tà appa­ri­va­no come brac­cia aper­te.

Mura non ce ne sono più. Solo mura­glie di risto­ran­ti e bou­ti­que. Attra­ver­sia­mo un quar­tie­re turi­sti­co che potreb­be esse­re ovun­que, un duty free a cie­lo aper­to. E inve­ce, gira­to l’an­go­lo, in fon­do allo stra­do­ne vedia­mo un immen­so muc­chio lumi­no­so. Sono le dune bacia­te dal sole del­l’oa­si di Ming­sha Shan (鳴沙山), “il mon­te del­le sab­bie che can­ta­no”. Incom­bo­no sul­la cit­tà come gob­be di un enor­me ani­ma­le addor­men­ta­to, come un’on­da immen­sa con­ge­la­ta, tra­sfor­ma­ta in sili­ce. Dico­no che nel­le gior­na­te di ven­to leg­ge­ro da nord, le dune can­ti­no. Le vibra­zio­ni del­la sab­bia che cade emet­to­no un suo­no bas­so, come un mor­mo­rio, che si dif­fon­de per chi­lo­me­tri nel deser­to e si sen­te in tut­ta la cit­tà.

Per noi le dune non can­ta­no. I suo­ni che sen­tia­mo più spes­so entran­do nel­l’oa­si sono gli scat­ti degli smart­pho­ne e le istru­zio­ni dei foto­gra­fi che met­to­no in posa ragaz­ze e ragaz­zi vesti­ti in abi­ti tra­di­zio­na­li (han­fu 漢服). In Cina sono di moda gli shoo­ting in han­fu. Ogni zona turi­sti­ca è pie­na di bou­ti­que che li noleg­gia. Il gover­no inco­rag­gia il recu­pe­ro e la ripro­du­zio­ne del­le tra­di­zio­ni sot­to ogni pro­fi­lo, cul­tu­ra­le, eti­co e, ovvia­men­te, este­ti­co. Tale ripro­du­zio­ne è, non di rado, piut­to­sto una pro­du­zio­ne; una mani­fat­tu­ra di pro­dot­ti e abi­tu­di­ni in linea con valo­ri pro­mos­si dal gover­no.

Alla stes­sa logi­ca rispon­de la disney­fi­ca­zio­ne dei siti sto­ri­ci e archeo­lo­gi­ci del­la Repub­bli­ca Popo­la­re Cine­se (RPC). I siti ven­go­no sani­fi­ca­ti, omo­ge­neiz­za­ti a livel­lo di sti­le e archi­tet­tu­ra, riem­pi­ti di ser­vi­zi e atti­vi­tà com­mer­cia­li, mesco­la­ti a diver­se atti­vi­tà di con­su­mo – risto­ran­ti, sou­ve­nir, hotel, tea­tri o gli stes­si shoo­ting. Qual­co­sa che acca­de anche in Occi­den­te, ma in misu­ra mino­re o for­se solo meno sfac­cia­ta. Eppu­re i turi­sti accor­ro­no, il model­lo fun­zio­na bene. Tal­men­te bene che per­si­no qui, tra le file di cam­mel­li che si avvia­no pigra­men­te ver­so le dune, si vede qual­che sema­fo­ro. 

Per ave­re un po’ di tran­quil­li­tà biso­gna anda­re in cima. Nep­pu­re le cas­se degli ambu­lan­ti che ven­do­no bibi­te fre­sche, dal­le qua­li pom­pa musi­ca hou­se a volu­mi scon­cer­tan­ti, tol­go­no poe­sia al pano­ra­ma. Die­tro di noi si esten­de un mare di dune che don­do­la, per metà in luce per metà in ombra. Devo­no esse­re sta­ti miglia­ia, nei seco­li, i pel­le­gri­ni e i mer­can­ti che dopo set­ti­ma­ne di ari­do deser­to han­no sca­la­to una cre­sta di sab­bia per osser­va­re con la mia stes­sa mera­vi­glia l’oa­si di Yueya Quan 月牙泉  (“fon­te del­la luna cre­scen­te”), un lago a for­ma di luna cre­scen­te che si apre nel pia­no­ro come una feri­ta pro­fon­da, e che inve­ce del san­gue ram­pol­la acqua sor­gi­va. Ha il blu inten­so del­la sera che cale­rà tra poco, del­l’e­sta­te che si sti­rac­chia all’o­riz­zon­te come un gat­to stan­co, e ci spia con discre­zio­ne men­tre sci­vo­lia­mo dal­le dune con del­le slit­te di legno scar­cas­sa­te, a una velo­ci­tà inde­cen­te.

La fron­tie­ra

Il cie­lo è anco­ra buio quan­do uscia­mo per rag­giun­ge­re le grot­te di Mogao. Dun­huang cit­tà è una gri­glia di via­li lar­ghi e alber­ghi. Una vol­ta si ani­ma­va con i pel­le­gri­ni, ora si direb­be in atte­sa dei turi­sti, che in que­sta sta­gio­ne sten­ta­no ad arri­va­re. D’al­tra par­te pro­prio noi turi­sti sia­mo i pel­le­gri­ni del XXI seco­lo: gli hotel le nostre chie­se, i sou­ve­nir le nostre reli­quie, e abbia­mo anche i nostri assur­di ritua­li come i luc­chet­ti su Pon­te Mil­vio e i sel­fie davan­ti ai monu­men­ti. I pel­le­gri­ni di una vol­ta, quel­li veri, visi­ta­va­no pro­prio le grot­te di Mogao, ora cer­ti­fi­ca­te e san­ti­fi­ca­te da una lapi­de UNE­SCO.

Anche qui, il sito è un luo­go vasto, nuo­vis­si­mo, pie­no di nego­zi e vaga­men­te sper­so­na­liz­zan­te. Deci­ne di per­so­ne alli­nea­te come alle gio­stre, cate­ne di fast food, vetri­ne pie­ne di fir­me, altre per­so­ne in fila per le vetri­ne vir­tua­li dei sel­fie nei pun­ti pano­ra­mi­ci. Un incro­cio tra Capo­cot­ta e Har­rods. Non so se mi pia­ce, ma quan­do pen­so alle cen­ti­na­ia di ope­re umi­lia­te e offe­se che abbia­mo in Ita­lia, da Pom­pei che cade a pez­zi alla Sca­la dei Tur­chi imbrat­ta­ta di ros­so, le cri­ti­che si per­do­no come gli sguar­di nel deser­to che abbia­mo di fron­te. Ci fan­no sede­re in un cine­ma e pro­iet­ta­no a tut­ta pare­te un fil­ma­to che rac­con­ta la sto­ria di Mogao, poi ci met­to­no in coda e ci infi­la­no in pull­man azzur­ri a due pia­ni che imboc­ca­no l’u­ni­ca sot­ti­le stri­scia di asfal­to tra due oriz­zon­ti spe­cu­la­ri di deser­to, pal­li­do e roc­cio­so. Sem­bra di cor­re­re in bili­co sul­l’or­lo di uno spec­chio. Le grot­te, oltre set­te­cen­to, sono sca­va­te in una cre­sta di roc­cia lun­ga e bas­sa che mate­ria­liz­za il con­cet­to stes­so di fron­tie­ra.

Per seco­li Mogao ha segna­to la fron­tie­ra. Sta­bi­li­ta nel II seco­lo EC dal­l’im­pe­ro Han come guar­ni­gio­ne con­tro le orde unne, ha visto spun­ta­re dal­le dune silen­zio­se, pri­ma di noi, mona­ci india­ni, mer­can­ti vene­zia­ni, guer­rie­ri tibe­ta­ni, cava­lie­ri cosac­chi e mis­sio­na­rie ingle­si. Nel 366 arri­vò qui un mona­co di nome Yue­zun. Destan­do­si di col­po nel­la not­te buia e geli­da del deser­to, ebbe la visio­ne di miglia­ia di Bud­d­ha cir­con­fu­si di luce dora­ta e deci­se di sta­bi­lir­si qui come ere­mi­ta, in una pic­co­la grot­ta. Pochi seco­li dopo il nume­ro del­le grot­te supe­ra­va il miglia­io. Non solo ere­mi­ti: le grot­te, come le cap­pel­le e le tor­ri comu­na­li in Occi­den­te, veni­va­no com­mis­sio­na­te da alti espo­nen­ti del cle­ro, del­le clas­si diri­gen­ti, del­l’e­ser­ci­to o da ric­chi mer­can­ti e veni­va­no deco­ra­te con affre­schi, sta­tue e mano­scrit­ti.

Dopo esse­re cadu­ta in mano tibe­ta­na e ave­re quin­di sfug­gi­to la per­se­cu­zio­ne cine­se dell’845, la fama di Mogao decli­nò gra­dual­men­te con l’in­ter­rom­per­si del­le rot­te com­mer­cia­li, le scor­ri­ban­de di Ara­bi, Mon­go­li e Tur­chi, poi l’a­per­tu­ra del­le rot­te marit­ti­me. La ritro­via­mo sui gior­na­li di tut­to il mon­do dopo il 25 giu­gno 1900, data in cui Wang Yuan­lu, un mona­co daoi­sta auto­pro­cla­ma­to­si custo­de di Mogao, inse­guen­do il fumo di siga­ret­ta risuc­chia­to da una fes­su­ra tra le roc­ce sco­prì una libre­ria enor­me desti­na­ta a cam­bia­re per sem­pre la sto­ria del­la sino­lo­gia. Mano­scrit­ti ori­gi­na­li di testi anti­chis­si­mi come il Dao­de­jing, insie­me a sutra, manua­li di medi­ci­na, testi alche­mi­ci e reli­gio­si han­no retro­da­ta­to e riscrit­to mol­te del­le ipo­te­si filo­lo­gi­che domi­nan­ti. Sco­per­to ad aver ven­du­to alcu­ni di quei manu­fat­ti e mano­scrit­ti vec­chi di seco­li, Wang fu poi allon­ta­na­to dal gover­no, che ne col­ti­va tut­to­ra un’im­ma­gi­ne opa­ca.

Sono inve­ce niti­de le pit­tu­re mura­li, cen­ti­na­ia di pic­co­le cap­pel­le Sisti­ne dise­gna­te fino al sof­fit­to di sce­ne vario­pin­te, epi­so­di sto­ri­ci, reli­gio­si, mili­ta­ri, ritrat­ti, moti­vi flo­rea­li e geo­me­tri­ci. Entran­do nel­le grot­te, subi­to dopo l’o­do­re del­la roc­cia e del­l’om­bra, a scar­di­na­re le por­te del­la per­ce­zio­ne sono le imma­gi­ni del para­di­so del Bud­d­ha Ami­tha­ba, la divi­ni­tà som­ma nel bud­d­hi­smo del­la “ter­ra pura” (Jing­tu 净土), che acco­glie i cre­den­ti nel­la luce eter­na del suo para­di­so col­lo­ca­to oltre la fron­tie­ra, oltre l’Oc­ci­den­te, oltre i con­fi­ni del mon­do. Le pit­tu­re sono pie­ne di apsa­ra volan­ti, dan­zan­ti: sim­bo­lo di Dun­huang, ormai qua­si del­le mascot­te, le apsa­ra sono esse­ri divi­ni o semi­di­vi­ni, soli­ta­men­te di ses­so fem­mi­ni­le, ori­gi­na­rie del pan­theon Indù. Come le nin­fe del­la mito­lo­gia gre­ca han­no caro un cor­so d’ac­qua o un luo­go sil­ve­stre, e come le muse sono patro­ne del­le arti.

Insie­me allo sti­le domi­nan­te del­la scuo­la impe­ria­le di Chan­g’an – ora Xi’an –, nel­la penom­bra si rico­no­sco­no le linee geo­me­tri­che del­la pit­tu­ra isla­mi­ca, i pig­men­ti azzur­ri deri­va­ti dal lapi­slaz­zu­lo afga­no, i cor­pi rigon­fi e defor­mi dei demo­ni tibe­ta­ni, quel­li chia­ro­scu­ra­ti e sen­sua­li del­la peni­so­la india­na, spes­so nudi o semi­nu­di – un’ec­ce­zio­na­li­tà nel­la sto­ria del­l’ar­te cine­se. 

È qui che la fron­tie­ra, sot­to la scor­za dura e pal­li­da del deser­to, nel­la penom­bra pol­ve­ru­len­ta del­le grot­te di Mogao, mostra i suoi colo­ri, sco­pre le sue for­me, levi­ga­te dal­la marea del tem­po e dal­le onde degli anni e dei popo­li, for­me che sono sta­te roc­cia, ven­to, pig­men­to, visio­ni not­tur­ne di mona­ci vaga­bon­di, mano di arti­sti ano­ni­mi, glo­ria di sovra­ni scon­fit­ti, for­me mute e miste­rio­se come il deser­to che le nascon­de.

Mina­re­ti e mona­ste­ri

Il Gan­su è unenor­me regio­ne a for­ma di osso che si allun­ga come un’ar­ti­co­la­zio­ne tra le diste­se ari­de di Xin­jiang e Mon­go­lia a nord, i rino­ma­ti vigne­ti del Nin­g­xia – capa­ci di bat­te­re i Bor­deaux fran­ce­si in gare di blind tasting –  a est, le pro­pag­gi­ni del­la Cina cen­tra­le a sud, e ter­re tibe­ta­ne a ove­st. Andan­do a est, il pae­sag­gio si pro­du­ce in muta­zio­ni fan­ta­sti­che. Le dune del Kum­tag lascia­no il posto alle cre­ste mon­ta­ne che annun­cia­no l’al­to­pia­no tibe­ta­no, poi arri­va­no le fer­ti­li pia­ne allu­vio­na­li col­ti­va­te a gra­no e sor­go, le cimi­nie­re del­le indu­strie petrol­chi­mi­che che fuma­no come vul­ca­ni di metal­lo, infi­ne l’al­to­pia­no del Loess, con i suoi spet­ta­co­la­ri canyon ros­so-aran­cio­ni o mar­ro­ni-dora­ti che dan­no al Fiu­me Gial­lo il carat­te­ri­sti­co colo­re.

Segui­re­mo la via del­la seta fino al mona­ste­ro tibe­ta­no di Labrang, il più popo­la­to fuo­ri dal­la regio­ne auto­no­ma del Tibet. Il tre­no scan­di­sce le tap­pe come un cine­ma, fin­ché il sipa­rio del­la not­te cala sul pae­sag­gio. Da osser­va­re riman­go­no sol­tan­to le scac­chie­re elet­tri­che dei grat­ta­cie­li, fine­stre buie e illu­mi­na­te, tor­ri in vetro e accia­io inco­ro­na­te di neon. Il sipa­rio si alza su Lan­z­hou, capi­ta­le del Gan­su, cen­tro geo­gra­fi­co del­la Repub­bli­ca Popo­la­re. Ulti­ma tap­pa pri­ma di Labrang, Lan­z­hou acco­glie i visi­ta­to­ri come tan­te altre cit­tà cine­si viste dal­la sta­zio­ne. File ordi­na­te di grat­ta­cie­li e con­do­mi­ni sot­ti­li che ricor­da­no gigan­te­sche pedi­ne del mah­jong, o file ordi­na­te di sol­da­ti diret­ti alla fron­tie­ra. 

Lan­z­hou cre­sce allun­ga­ta sul­le due spon­de del Fiu­me Gial­lo, che l’at­tra­ver­sa per deci­ne di chi­lo­me­tri. È una cit­tà oriz­zon­ta­le. Le due spon­de qua­si si bacia­no. La riva occi­den­ta­le è sovra­sta­ta da una cre­sta di loess ros­so fuo­co che bril­la come un enor­me paio di lab­bra. Mar­co Polo è sta­to qui. La Via del­la Seta qui si dira­ma­va in tan­te vie del­la seta diret­te ai vari mer­ca­ti del Catai. Le zone più visi­ta­te sono un pon­te di fer­ro che mi fa veni­re in men­te il fiu­me Kwai, e il museo archeo­lo­gi­co del Gan­su con le sue miglia­ia di magni­fi­ci arte­fat­ti, fra i qua­li un piat­to di cera­mi­ca cela­don risa­len­te alla dina­stia Tang (618–907 EC) con in rilie­vo grap­po­li d’u­va, foglie di vite e quel­lo che sem­bra un gio­va­ne Erco­le accan­to a un leo­ne. Trac­ce nem­me­no trop­po segre­te di reci­pro­che influen­ze e fasci­na­zio­ni tra Roma e la Cina. 

Un’in­fluen­za più pro­fon­da va cer­ca­ta nel­l’I­slam, tut­to­ra pra­ti­ca­to dal­la mino­ran­za etni­ca Hui in gran par­te del Gan­su. La moschea di Lan­z­hou, costrui­ta nel­l’e­ra Ming e rico­strui­ta nel 1990, è una splen­di­da fusio­ne tra gli sti­li ara­bo e sini­ti­co, cir­con­da­ta da mean­dri di ban­ca­rel­le col­me di frut­ta, pani, frit­ti, spe­zie, tes­su­ti, padel­le che sfri­go­la­no. Sem­bra il momen­to giu­sto per i niu­rou mian, imi­ta­ti in tut­ta la Cina: finis­si­mi taglio­li­ni di riso tira­ti a mano cot­ti in bro­do di man­zo con ger­mo­gli di soia, erba cipol­li­na, pepe­ron­ci­no e corian­do­lo. Anco­ra una vol­ta Atus è vega­no e Glo­ria non man­gia car­ne ros­sa, quin­di sono l’u­ni­co a poter­li assag­gia­re, ulti­ma esplo­ra­zio­ne di gior­na­ta pri­ma di lasciar­ci mori­re al cre­pu­sco­lo sul­la sdra­io di un bar del lun­go­fiu­me. 

Bevia­mo bir­ra e tiria­mo a ter­ra i gusci d’a­ra­chi­de men­tre gli ulti­mi rag­gi infiam­ma­no le col­li­ne ros­se oltre il fiu­me. Con­ti­nuia­mo a bere bir­ra e a tira­re gusci d’a­ra­chi­de anche nel blu del­la sera, quan­do Lan­z­hou sem­bra spro­fon­da­re nel fiu­me che l’at­tra­ver­sa, e i neon del­le bar­che, dei taxi e degli alber­ghi gal­leg­gia­no come tan­ti pic­co­li Bud­d­ha nel pae­sag­gio elet­tri­co del­la metro­po­li.

Abbia­mo pre­no­ta­to l’au­to al mat­ti­no pre­sto tra­mi­te un’app popo­la­ris­si­ma, DiDi, un misto tra Uber e Bla­Bla­Car che con­sen­te a chiun­que di appro­fit­ta­re di un pas­sag­gio da un tas­si­sta improv­vi­sa­to oppu­re di improv­vi­sar­si tas­si­sta, alla biso­gna. Fun­zio­na sia nel­le reti urba­ne che inter­re­gio­na­li, e il risul­ta­to è che attra­ver­se­re­mo 200 chi­lo­me­tri di canyon con auti­sta per una cifra irri­so­ria. Tut­to sicu­ro e con­trol­la­to tra­mi­te web e GPS. Curio­so che un pae­se socia­li­sta come la Cina libe­ra­liz­zi que­sto tipo di ser­vi­zi men­tre in Ita­lia, pae­se in teo­ria libe­ra­le, le inno­va­zio­ni che favo­ri­sco­no mec­ca­ni­smi di sha­ring e soli­da­rie­tà socia­le ven­go­no pre­clu­se per favo­ri­re lob­by e cor­po­ra­zio­ni come quel­la dei tas­si­sti. Con la stes­sa logi­ca dovreb­be­ro oscu­ra­re i siti di tra­vel plan­ning per pro­teg­ge­re le agen­zie di viag­gio.

I 240 chi­lo­me­tri che ci divi­do­no dal mona­ste­ro di Labrang si sno­da­no tra le col­li­ne ros­se del­l’al­to­pia­no del loess, un sali­scen­di di sta­ta­li e via­dot­ti tra vil­lag­gi e cor­si d’ac­qua. Nel­le pro­pag­gi­ni di Lan­z­hou svet­ta­no anco­ra i mina­re­ti e i cor­pi sago­ma­ti e scin­til­lan­ti del­le moschee, bian­che con le cupo­le dora­te, simi­li a gros­si sca­ra­bei. Per gra­di lascia­no il posto agli inse­dia­men­ti tibe­ta­ni, si capi­sce per­ché si mol­ti­pli­ca­no gli stu­pa, anch’es­si bian­chi e dora­ti, la guglia pun­ta­ta al cie­lo come una spa­da. I pra­ti rigo­glio­si, le col­li­ne ros­se e il cie­lo azzur­ro fan­no asso­mi­glia­re il pano­ra­ma a una ban­die­ra. Eppu­re, per quan­to sia sem­pre RPC, la ter­ra a cui andia­mo incon­tro sem­bra voler­si scrol­la­re di dos­so le ban­die­re. Le pra­te­rie del San­g­ke alter­na­no yur­te noma­di e greg­gi spar­se a man­drie di pan­nel­li sola­ri alli­nea­ti in immen­se cen­tra­li foto­vol­tai­che, un ine­di­to acco­sta­men­to di anti­co e avve­ni­ri­sti­co, che in Cina non è poi così inso­li­to.

Xia­he è una cit­ta­di­na inca­sto­na­ta tra i mon­ti, costrui­ta lun­go un tor­ren­te per accu­mu­lo pro­gres­si­vo. Ci sono la cit­tà vec­chia, la cit­tà nuo­va, il quar­tie­re isla­mi­co e il mona­ste­ro, che è l’o­ri­gi­ne di tut­to ma che anco­ra non vedia­mo da qui. Il nostro allog­gio è un gra­zio­so hotel in legno scu­ro che asso­mi­glia un po’ a una bai­ta, arre­da­to con manu­fat­ti etni­ci pro­ve­nien­ti da tut­ti i con­ti­nen­ti. In menù ci sono anche gli “spa­ghet­ti bolo­gne­se”, ma non è il caso di rischia­re. La pri­ma cono­scen­za che fac­cia­mo è una muc­ca che pas­seg­gia per le vie del cen­tro. Tra le vie di Xia­he, oltre alla muc­ca vaga­bon­da, ci sono gio­va­ni mona­ci che stu­dia­no, labo­ra­to­ri dove si dipin­go­no a mano i than­g­ka, le pit­tu­re sacre.

Gira­to l’an­go­lo arri­va un po’ a sor­pre­sa il mona­ste­ro di Labrang, non un edi­fi­cio ma un com­ples­so di edi­fi­ci, un vil­lag­gio inte­ro che occu­pa lo spa­zio ver­de tra le mon­ta­gne come un enor­me pla­sti­co di bloc­chi squa­dra­ti, colo­ran­do­la di mar­ro­ne, bian­co, ros­so e gial­lo-oro. Il colo­re che rima­ne impres­so negli occhi come un tim­bro è il ros­so tibe­ta­no, quel ros­so bor­go­gna che ricor­da la buc­cia del­le casta­gne, le more di gel­so, i vini fran­ce­si o anche il pas­sa­por­to ita­lia­no, un ros­so scu­ro, cre­mi­si, pasto­so, fred­do. Ci adden­tria­mo per le vie del mona­ste­ro men­tre i pel­le­gri­ni ese­guo­no la kora, la cir­cum­am­bu­la­zio­ne sacra intor­no agli stu­pa, intor­no ai tem­pli, per­si­no intor­no all’in­te­ra Labrang. Alcu­ni pel­le­gri­ni ci urla­no con­tro, si sbrac­cia­no, pun­ta­no le dita: stia­mo sba­glian­do, andia­mo in dire­zio­ne osti­na­ta e con­tra­ria, dovrem­mo segui­re il sen­so ora­rio. Ras­se­gna­ti, tor­nia­mo indie­tro facen­do zig­zag tra i vico­li. Ci per­dia­mo. Quan­do il sole è appe­na sci­vo­la­to die­tro le col­li­ne, e la luce si riti­ra come la marea, sbu­chia­mo in una piaz­za dove una tren­ti­na di mona­ci sono ingi­noc­chia­ti in pre­ghie­ra. L’e­co del loro can­to cupo, gra­ve, gut­tu­ra­le riem­pie la piaz­za, rim­bal­za sui muri e si per­de nel cre­pu­sco­lo, spe­gnen­do­si alla distan­za come il gior­no.

La gui­da di un mona­co è obbli­ga­to­ria per visi­ta­re il cuo­re di Labrang. È mat­ti­no pre­sto quan­do un ragaz­zo ci accom­pa­gna dal mona­co, e nel tra­git­to ci spie­ga come ven­go­no costrui­te le impo­nen­ti strut­tu­re tra­pe­zoi­da­li che di soli­to indi­ca­no i luo­ghi più impor­tan­ti del mona­ste­ro. Argil­la, loess e cre­ta del­le col­li­ne, ghia­ia di fiu­me, legno di coni­fe­ra, erba di val­le pres­sa­ta e bur­ro di yak. Mate­ria­li eco­lo­gi­ci, arran­gia­ti in modo da acco­glie­re un ulte­rio­re ingre­dien­te essen­zia­le in que­ste fred­de val­li: la luce, con l’in­gres­so e le vaste fine­stre ret­tan­go­la­ri rivol­te a sud. Una lezio­ne anti­ca, per il futu­ro. Anzi, per il pre­sen­te, che sareb­be anche meglio.

Il ragaz­zo rac­con­ta che il mona­ste­ro risa­le a ini­zio Set­te­cen­to, e nel­la sua età d’o­ro era quat­tro vol­te più gran­de. Ora il gover­no ha impo­sto un limi­te al nume­ro di ordi­na­zio­ni, e ogni quar­tie­re abba­zia­le deve espor­re la ban­die­ra del­la RPC e il ritrat­to del suo lea­der, Xi Jin­ping. Sono le infor­ma­zio­ni più inte­res­san­ti che avre­mo in tut­ta la gior­na­ta, per­ché la visi­ta gui­da­ta si rive­la poco più di una lezio­ne di cate­chi­smo. Il mona­co ripe­te per un’o­ra e mez­za le stes­se fra­si fat­te, lascia cade­re le nostre doman­de nel vuo­to, con­clu­de magi­stral­men­te affer­man­do che l’uo­mo ha tan­te vie per vive­re, men­tre la don­na deve pro­crea­re. Le ses­san­ten­ni di Bolo­gna, Mila­no e din­tor­ni che sono nel nostro stes­so grup­po di visi­ta­to­ri si guar­da­no cir­co­spet­te, pen­sa­no di aver capi­to male, cer­ca­no di giu­sti­fi­car­lo: «Non par­la bene l’in­gle­se, pove­ri­no»

Eppu­re le fra­si suc­ces­si­ve lascia­no anco­ra meno dub­bi.

Il mona­co ripe­te: «Mea­ning of woman, is chil­dren. Mea­ning of man, is myste­rious »

«Ma è più arre­tra­to del papa » dice una signo­ra.

«Il papa sta in cen­tro a Roma» le rispon­do, «Qui sia­mo in una val­le iso­la­ta nel­la pro­vin­cia peri­fe­ri­ca di una regio­ne di fron­tie­ra».

Fron­tie­ra, appun­to. Dove i costu­mi e le lin­gue si con­fon­do­no, i pae­sag­gi si alter­na­no più in fret­ta del­le sta­gio­ni. Dove alcu­ni cam­bia­men­ti arri­va­no pri­ma e altri luo­ghi non cam­bia­no mai, custo­di­ti dal­l’i­so­la­men­to e dal­la mise­ria. La fron­tie­ra è quel luo­go dove a vol­te il tem­po si fer­ma, si addor­men­ta, e si lascia osser­va­re in tut­ta la sua smi­su­ra­ta esten­sio­ne. Il tem­po è una vista che susci­ta nostal­gia e ter­ro­re. For­se gli stes­si sen­ti­men­ti che espri­me­va il poe­ta Li Bai (701–762) nel suo Lamen­to di una guar­dia di fron­tie­ra, osser­van­do le stes­se dune, gli stes­si deser­ti che abbia­mo attra­ver­sa­to:

Dal­la por­ta del nord spi­ra un ven­to sab­bio­so,
soli­ta­rio dal­l’i­ni­zio dei tem­pi fino a qui.
Gli albe­ri cado­no, l’er­ba ingial­li­sce con l’au­tun­no
Sal­go tor­ri su tor­ri
per osser­va­re le ter­re bar­ba­re.

Testo e foto­gra­fie di Rudi Capra

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