Per chi ama leggere, quando il presente è complesso e il futuro indecifrabile, è comune cercare rifugio nei libri e nei grandi narratori. E Sandro Veronesi, due volte Premio Strega, prima con Caos Calmo (2005) e poi con Il Colibrì (2019), da molti riconosciuto come il più grande romanziere italiano vivente, per me è sempre stato il più importante dei maestri fin dai tempi in cui insegnava alla Scuola Holden e io ero un suo allievo. L’intervista nasce da questa mia necessità di trovare un porto sicuro.
Vorrei partire da un brano di Caos Calmo (2005) in cui il protagonista e la figlia giocano a “Purtroppo” in macchina. Quando il navigatore dice: «Svolta a destra ORA!», il protagonista risponde: «Purtroppo non mi va» e gira a sinistra e il programma è costretto a ricalcolare il percorso mentre la bambina ride.
Riletto ora che l’intelligenza artificiale sembra limitare le nostre scelte e alimentare la nostra pigrizia, può essere un monito per ricordare alla figlia che è ancora possibile fare di testa propria?
Sì, l’idea era quella, anche se il meccanismo è divertente di per sé con il navigatore che viene sbugiardato, ricalcola e poi inascoltato di nuovo; fa ridere quell’ottusa pazienza digitale che noi non avremmo, perché noi manderemmo al diavolo uno che sistematicamente fa l’opposto delle nostre indicazioni.
Hai detto bene: la nostra pigrizia sta facendo dell’intelligenza artificiale un feticcio. Ed è la pigrizia di non voler scrivere di tuo pugno una lettera di invito o di rifiuto o, peggio, la sinossi di un libro o una recensione. Insomma, se vieni pagato per recensire libri — o anche no, magari hai aperto un blog — per quale ragione dovresti farla fare a un algoritmo? Allora non hai davvero voglia di esprimere il tuo punto di vista. Io non credo che l’intelligenza artificiale stia facendo nulla da sola per assoggettarci. Siamo noi che ci stiamo assoggettando, non parliamo d’altro. È diventata una specie di optional che mettono pure nella pizza e se c’è l’intelligenza artificiale quella pizza costa un euro di più. È un isterismo che diventa pericoloso perché è chiaro che quella è roba che più prende piede e più potrebbe tendere a soppiantare l’attività umana. C’è proprio bisogno di tutta questa intelligenza artificiale? A me sembra che la gente che usa l’intelligenza artificiale fatichi a rendersi conto di che cosa sia. Anche chi l’ha inventata. C’è, infatti, la raccomandazione di usarla poco da parte di chi te la vende. A me sembra francamente una follia questa foga. È un pericolo che ovviamente denunciano in molti, semina il terrore sul web, però poi si continua a venerarla.
Per scrivere, per disegnare o per girare scene di film io francamente non ne vedo il bisogno. Facciamo degli spazi nei quali non è necessaria e quindi non si usa. In una casa editrice non dovrebbe essere accettata la possibilità che un redattore utilizzi l’intelligenza artificiale per fare la scheda di un libro, solo perché ti fa risparmiare tempo. Ma poi quanto tempo? Cinque minuti? E cosa dovresti fare con quei cinque minuti risparmiati? È il tuo lavoro: che c’è di più importante? È il tuo interesse, e tu quella cosa la fai fare a una macchina.
Tiriamo una riga e diciamo: c’è davvero bisogno dell’intelligenza artificiale per scrivere, per esempio, una lettera di condoglianze? Ciò che deve esprimere pensiero o sentimento non può passare attraverso un algoritmo. È ovvio, perché l’algoritmo rappresenta un’entità che non prova né sentimento né pensiero, cioè non elabora, è generativa perché combina insieme le cose, ma non è generativa perché si inventa un cavallo a pois. Poi, siccome in pancia avrà anche Pippi Calzelunghe, ti tirerà fuori un cavallo a pois, e tanta gente penserà che è originale. Con un po’ di attenzione, potremmo tenerla entro i limiti che ci fanno comodo e non dire ‘adesso dominerà il mondo’. Dominerà il mondo perché ti fai scrivere la lista della spesa da ChatGPT. Questa rinuncia a fare cose da sé è folle. Se almeno fosse un mondo di persone che vanno a pescare mentre l’intelligenza artificiale sgobba per loro, ma invece no, stanno lì a cazzeggiare su TikTok e questo, non c’è bisogno che lo dica io, è una cosa che si autodenuncia: vuol dire fine della civiltà. Se noi rinunciamo alle parti succose del nostro dovere sulla terra, le facciamo fare a una macchina per stare dietro alle stronzate, è chiaro che è finita.
Nel tuo ultimo romanzo Settembre Nero (2024), il ragazzino protagonista ha davvero pochi stimoli negli anni ’70 — la rivista Linus, i primi dischi, lo sport in televisione — ma ne ricava enormi spinte formative. Una volta ero a parlare in un liceo e durante la discussione una ragazza paragona la sua generazione a un cliente che andando al ristorante riceve un menù grande come un’enciclopedia, con un elenco infinito di scelte, e alla fine non ordina niente perché sovrastato dalle possibilità.
Il pericolo che dice questa ragazza si chiama entropia. Quando io ero all’università di Architettura, quarant’anni fa, già si parlava del pericolo entropico. Ci mettevano in guardia nei confronti dell’entropia e tutto ciò che aveva una carica entropica lo dovevamo scansare, evitare o trattare coi guanti. Adesso siamo in piena entropia nel suo significato di morte termica, di fine delle differenze, della fine di un sistema. E il pericolo è che la gente non lo sappia. È come nella storiella che raccontava David Foster Wallace, quella con il pesce vecchio che dice ai pesci giovani: “Com’è l’acqua oggi?”. E loro: “Che cazzo è l’acqua?”. Questa ragazza se n’è accorta. Eravamo stati messi in guardia, quindi siamo ancora più colpevoli di avere creato un sistema tale e per non aver voluto determinare noi le nostre scelte. Il web è il luogo dell’entropia per eccellenza, è uno stagno dove la scarpa marcia che io ci ho buttato vent’anni fa sta sempre là, non sparirà mai e si confonde con le altre, diventa un’opzione. Almeno ce ne rendessimo conto, provassimo a mettere in campo una serie di precauzioni, altrimenti sarà come dice quella ragazza lì: a un certo punto tutto si equivale e io che faccio? Io non faccio niente.
Il racconto di Wallace mi fa venire in mente un’altra metafora, che hai utilizzato anche tu nello scorso Salone del Libro presentando Il giorno dell’ape (2025) di Paul Murray, ovvero quella della rana dentro un pentolone sul fuoco che non si rende conto che l’acqua sta per bollire se non quando è ormai troppo tardi. Secondo te, a che punto è la cottura?
Il problema è che fino a che non sei cotto, non ti senti nemmeno in pericolo, perché l’acqua alla fine protegge, riscalda, sembra quasi di stare meglio, perché prima faceva freddo e adesso non fa più freddo, perché prima il mondo pesava e adesso galleggi e non pesa più. Noi dobbiamo credere al nostro pensiero, perché se crediamo solo ai nostri sensi il riscaldamento globale può essere anche un bene perché c’è più caldino, basta scansare i luoghi torridi o sfogarsi con l’aria condizionata. Non è che la gente sta peggio, è il sistema che sta peggio e che trasuda sintomi, uno dei quali è il riscaldamento globale. Ma se noi siamo la causa, è chiaro che quando sentiremo l’impulso di fuggire sarà troppo tardi. Non ti so dire a che punto stiamo ma bisogna concepire un modello diverso; e nel mondo stanno facendo uscire fuori tutto tranne questo. Stanno pensando a tutto quello che riempie i titoli dei telegiornali, ma non stanno pensando a cambiare il sistema. Il sistema adesso è un pentolone sopra il fuoco con dell’acqua e noi siamo la rana dentro. È un notevole passo indietro rispetto a quello che abbiamo immaginato e sognato cinquant’anni fa, ed è anche un passo indietro rispetto a quello che eravamo arrivati a essere alla fine del secolo scorso. Se gli Stati Uniti d’America sono diventati in poco tempo un luogo dove io non metterei piede, manco se mi pagano, può darsi che la rana ci metta poco per arrivare a cottura; la direzione è quella, stiamo perdendo una serie di conquiste occidentali. Se non ci sembra grave, è inutile prevedere quando sarà troppo calda l’acqua. Per me lo è già adesso, ma non vedo nessuno che stia facendo qualcosa di concreto, anche solo dirlo, a prescindere dalle notizie del giorno, perché si parla solo di quelle. Non si parla della necessità di un cambiamento del sistema al quale chiamare a contribuire le giovani generazioni. Ed è una colpa terribile perché chi adesso sta ballando sul ponte della nave che affonda, non sta decidendo solo per sé, ma anche per le generazioni che verranno. Allora è inutile che mi veniate a dire che qualcuno è un bravo padre se tratta bene i suoi due figli e poi contribuisce a desertificare, a sovrappopolare, a togliere diritti, prosperità o distribuzione della ricchezza a tutti i milioni, i miliardi di ragazzi e ragazze come i suoi figli, come tutti i figli che ci sono al mondo. E contribuisce al solidificarsi di questa situazione entropica al punto da far sentire una ragazza incapace di allungare una mano e prendere un libro e leggerlo perché sono troppi e perché prendere una decisione all’interno di un sistema così aperto diventa difficile.
Tu, che sei sempre stato un narratore del tuo presente, con Settembre Nero hai guardato al passato. Cosa sei riuscito a capire del presente?
Io sono andato nel passato a cercare futuro. È il futuro quello che mi manca adesso e che manca non a me personalmente, ma nell’aria che respiro, nelle cose che leggo, in quello che vedo succedere nel mondo. Non se ne parla più, non esistono più gli strumenti. Ti faccio un esempio: l’urbanistica, che determina delle prospettive, che necessita di un’idea di futuro, non c’è più. A Milano c’è un’indagine in corso e, anche se non sembra siano stati commessi dei reati, il vero reato è che non c’è più l’urbanistica. E, allora, tu puoi far crescere un grattacielo dove cazzo ti pare. E però quello non è costruire una capanna, quello condiziona il futuro. Hai deciso prima che doveva essere condizionato in quella direzione? Puoi pure sbagliare, ma almeno l’hai fatto con una visione? No. È solo un’occasione che hai voluto cogliere. Quello che non sopporto di questo tempo è il presente in funzione dell’assenza di futuro, la gente non pensa di essere passeggera, transitante, parte di un ciclo che ha un grande passato, e dovrebbe avere un altrettanto grande futuro. Abbiamo tolto di mezzo l’idea del futuro. E a me questo, francamente, non piace raccontarlo. Già non mi piace viverlo e doverlo vivere. Se mi metto a tavolino a scrivere, con tutto l’impegno che mi ci vuole, io non voglio rinunciare al futuro, anche quando scrivo, e quindi per la prima volta sono andato nel passato perché là il futuro c’era. Poi che nel passato ci fosse un futuro ideale che non si è avverato non ha nessuna importanza. È che lo sviluppo del pensiero c’è quando c’è un ingombro dietro, un’urgenza nel presente e anche, però, un ingombro davanti con il quale devi fare i conti. Non vedere il futuro e pensare soltanto a questa striscia di tempo che è l’oggi, nel quale fai fatica anche soltanto a contare i morti, perché è ovvio che se riduci il tuo pensiero a ottimizzare il presente, tu non fai neanche prigionieri, fai direttamente morti. Il futuro non è contemplato. Non è contemplato il futuro nell’idea di patria che ha il governo israeliano che, pensando di averne il diritto per via dell’ingombro del proprio passato, vuole sbarazzarsi di tutti i palestinesi che ci sono lì. Ora, a un orrore del genere, prova a poggiarci un’idea di futuro che non sia militarizzato. Se uccidi o deporti due milioni e mezzo di persone e poi a Gaza ci fai i resort con i surfisti come la gestisci? Perché basta uno che si fa saltare in aria per rendere un inferno quella vita che volevi finalmente tranquilla. E non ci vuole tanto a farsi saltare in aria.
Che tipo di eredità — mi verrebbe da dire che tipo di patrimonio, pensando a Philip Roth per il quale era rappresentato dalla merda da pulire del padre malato — stiamo lasciando alle nuove generazioni?
Non lo so. Quello che io cerco di fare con i miei figli è di vigilare e assisterli affinché possano diventare se stessi in maniera autonoma. Non voglio lasciargli troppo. Primo, perché non ho molto da lasciargli, in tutti i sensi: sono cinque e quindi tanto da lasciare, diviso per cinque, non ce l’ho. Secondo, perché devono completarsi da soli. Faccio un lavoro per cui lascio anche troppo, lascio i miei libri, poi ne faranno quello che vogliono, magari ci pareggeranno le gambe a un tavolino. Ma non cerco l’illusione che la mia vita si prolungherà anche dopo la morte perché ho inculcato qualcosa nei miei figli. Il problema è che i figli, nel loro essere figli, sono pieni di futuro. Magari confuso e pericoloso, ma nessuno si tira indietro dai propri vent’anni perché ne ha altri sessanta da campare. I padri e le madri invece non sono pieni di futuro, sono pieni di passato o di presente, ma il futuro, anche quando c’era, anche quando circolava nella società, non li riguarda più se non attraverso i figli. Quel tipo di genitore che si sente di fare il bene dei figli inculcando ciò che vorrebbe loro facessero quando non ci sarà più — ed è un tipo di genitore molto frequente — fa la fortuna dei romanzieri. Puoi solo cercare di metterli in sicurezza in quello che loro decidono di fare. Non parlo di messa in sicurezza economica, non c’è bisogno di soldi per dialogare con i propri figli e cercare di fargli capire che l’intelligenza artificiale sul telefonino, al livello al quale si trovano loro, è più una perdita che un guadagno. Questa è una messa in sicurezza della loro creatività, della loro voglia di esprimersi singolarmente e in maniera originale. Non può farlo la scuola, perché lo fa passare per un dovere. Tu hai la possibilità di mettere in allerta i tuoi figlioli proprio per quel futuro che loro andranno a costruire e a vivere e che non ti riguarda. Noi assistiamo alla famiglia come zona di guerra così ben raccontata da capolavori della letteratura solo per il rifiuto di padri e madri di ricordare di quando sono stati figli. È molto più semplice replicare il modello che li aveva oppressi quando erano ragazzi. Questo cortocircuito genera la grande letteratura, almeno la grande letteratura borghese che parla di famiglia. È anche la ragione per cui io nel mio piccolo parlo di famiglia.
Ho l’impressione che sia in atto una rivalutazione critica della letteratura fantascientifica. Un piccolo evento rivoluzionario è stato l’uscita di un Meridiano (2025) dedicato a Philip Dick, curato da Emanuele Trevi. Un tributo non così scontato che tu hai salutato con una lunga recensione sul Corriere della Sera dove parlavi del cortometraggio premio Oscar I’m not a robot, in cui una ragazza è alle prese con un test CAPTCHA, quelle schermate in cui ti viene chiesto, per dimostrare di non essere un robot, semplicemente di indicare le foto con strisce pedonali…
Cosa che a me non riesce mai.
…e ti è mai venuto il dubbio, come nel finale di quel corto, che magari non sei un umano?
C’è già un’umanizzazione dei bot che sta avendo luogo, fino a quando sapranno distinguere le strisce pedonali. Siamo sicuri che vada bene? Sono gli stessi che producono queste cose, ci dicono “occhio: qua non sappiamo neanche noi come va a finire”. Ma continuiamo lo stesso. Se io investo tanti soldi nell’intelligenza artificiale e questi soldi mi producono subito altri soldi, prima ancora che io abbia capito bene cosa sto facendo, è chiaro che c’è qualcosa di sbagliato nel sistema, ed è esattamente quello che succede quando ti becchi un cancro: la riproduzione delle cellule del tuo corpo viene rivoluzionata da un nucleo di cellule che fanno quel cazzo che gli pare. E questi invasori non te li hanno inoculati, li hai prodotti tu. Solo che tu non hai uno strumento per impedirti di produrre cellule tumorali, mentre dovresti avere gli strumenti per impedirti di produrre un’intelligenza artificiale che serve ai cazzoni per scrivere le lettere, i curricula e può essere utilizzata per fare tutti i fake del mondo. Tutto ciò che prima si diceva “l’ho visto coi miei occhi”, adesso non vale più. Adesso se lo vedi coi tuoi occhi è probabilmente falso.
In Colibrì c’è una riflessione proprio sullo scontro tra verità e libertà. Un fenomeno che in Occidente ha portato Donald Trump ed Elon Musk, che tu una volta hai paragonato a Penguin e Joker in un’America ridotta a un’enorme Gotham City senza Batman. Sembriamo finiti in un racconto di David Foster Wallace o in un film di David Lynch. Tu sei un raffinato studioso della cultura americana, hai curato una raccolta di romanzi monumentale, Americana, riprendendo il lavoro di Vittorini. C’era consapevolezza in questi libri che l’America si sarebbe potuta ridurre così?
Certo, c’era consapevolezza di quello che stava succedendo, di questa avidità insulsa con cui le persone a milioni si consegnano alle stronzate di TikTok ingerendo tutto quello che quelle stronzate portano e quindi paralizzandosi. Stiamo sempre parlando di entropia. Se prendi Infinite Jest (1996), quel libro è stato scritto prima di internet o almeno prima dell’uso che c’è adesso di internet. E, infatti, lui si deve inventare una specie di internet parlando di gente che mette una videocassetta e non riesce a smettere di guardarla e muore perché non riesce nemmeno a mangiare. Se non è un monito questo! Che potessero esistere Penguin e Joker lo sappiamo da sessant’anni, è paradossale che gli americani si dicano le cose e poi non si ascoltino. Perché quella roba ha avuto successo, l’hanno vista tutti, l’hanno sentita tutti; Infinite Jest è un libro che ha avuto tantissimi lettori. Davanti alla storia di gente che sta seduta sui binari e poi viene falciata senza accorgersene non ti passa per la mente che forse anche tu non stai vedendo arrivare il treno? E questi autori dal successo sono stati accarezzati, premiati; questo vuol dire che il loro pensiero, le loro opere, si sono diffuse. Per tutto il ‘900, dopo Freud, ci siamo deliziati con una serie di romanzi che non prefiguravano pericoli per tutti, ma per ognuno a modo suo. Si sono raccontate cose soprattutto nella sfera sessuale, legate all’individuo, egoriferite. David Foster Wallace ci parla della società, ci parla di un corpo che è composto da tanti esseri che generano molti più problemi stando insieme di quelli che generano a se stessi stando da soli. Wallace nel suo tempo è stato uno dei primi, ma poi ci sono stati molti altri che sono andati in quella direzione affrontando il mondo così come stava diventando, molto diverso da com’era nel secolo scorso. Adesso il baricentro, spiace dirlo, si è spostato troppo verso, chiamiamola così, un’interruzione brusca perché se a questa società tu togli improvvisamente qualcosa, non funziona più niente. È evidente che questo è un periodo di transizione. Non c’è possibilità che questa roba duri. Io credo che si stia andando nella direzione in cui improvvisamente quello che oggi diamo per scontato non ci sarà più. E, quindi, saranno premiati quelli che ne avranno fatto a meno e saranno in grado di sopperire, avranno alternative.
Fotografia di Giacomo Bianco