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IL CONCETTO DI VENDETTA. DA OMERO A PLATONE

Da spettatore cinematografico, mi sono sempre stupito di come i coreani diano maggiore spazio alla rappresentazione del fenomeno della vendetta rispetto a noi occidentali. Guardando film come The Chaser (Na Hong-jin, 2008), I saw the devil (Kim Jee-woon, 2010) o ancora la trilogia della vendetta di Park Chan-wook (Sympathy for Mr. Vengeance, 2002; Oldboy, 2003; Lady Vengeance, 2005), lo spettatore occidentale sente come una fascinazione esotica per questo tema che ritorna come un refrain: capisce la dinamica che muove i personaggi, s’immedesima in essi, ma allo stesso tempo sente che dietro le azioni di questi si cela uno sfondo metafisico diverso dal suo, difficile da cogliere. E sebbene esistano anche in Occidente dei film interessanti sulla vendetta (vd. Blue Ruin, di Jeremy Saulnier, 2013), ho sempre percepito questa tematica come straniera, come se noi potessimo rappresentarla soltanto nelle sue manifestazioni esteriori, senza coglierne e dipingerne il nucleo essenziale. 

Questo stupore mi ha portato a interrogarmi sulla storia di questo concetto in Occidente: la nostra concezione della giustizia è sempre stata dissociata dalla vendetta? E se no, quando e come si è operata questa dissociazione? 

Non è purtroppo possibile, in questa sede, tracciare la storia esaustiva del concetto di vendetta, studiando come esso si sia evoluto nel corso di tre millenni; ho pertanto deciso di restringere la mia ricerca ad un periodo limitato – ma essenziale – della storia dei valori occidentali: ovvero quello che noi consideriamo la culla dell’Occidente, la Grecia antica, in particolar modo arcaica e classica. Ma quella che noi consideriamo come la radice prima del nostro Spirito, ben lungi dall’offrire una risposta unica e univoca, ci si offre come un agone, un campo di battaglia, in cui posizioni divergenti si affrontano: e come le statue o i templi ellenici non erano monocromatiche, ma arricchite dei colori più vari, così la visione del mondo che quel popolo ha manifestato è anch’essa variegatissima e irriducibile ad un’unica formula, ad un unico canone. Anzi, spesso appare confusa nella sua molteplicità: è pertanto importante, per comprendere noi stessi, non solo volgerci verso gli antichi ma anche farvi ordine. 

Questo breve articolo tenta di fare proprio questo: comprendere come il concetto di vendetta si sia evoluto in un periodo, VIII sec. a. C. – IV sec. a. C., e in una regione, la Grecia, determinati. Questa comprensione passa certo attraverso l’interrogazione delle nostre origini, ma questo interrogare è già anche un chiarificare: non dobbiamo dunque soltanto chiederci cosa pensassero i Greci sulla vendetta – perché “i Greci” è una categoria che non esiste, perché la cultura Greca si sviluppa dall’VIII° sec. a. C. fino all’epoca bizantina, e va dalle coste occidentali dell’Asia minore fino ai confini occidentali del mar Mediterraneo. Dobbiamo innanzitutto chiederci cosa pensassero certi greci illustri, e cosa altri – altrettanto illustri. La vendetta ha mai avuto un ruolo centrale nella caratterizzazione dell’etica e della giustizia? Se sì, con chi e in che modo? E questo ruolo è sempre stato il medesimo, oppure è mutato nel tempo? E, infine, quand’è che è definitivamente tramontato? Quand’è che è stato messo al bando? 

Ovviamente, a causa dei limiti formali imposti dal presente articolo, non ci è stato possibile analizzare tutte le fonti. Ci siamo pertanto limitati ad analizzarne alcune – poche ma essenziali – tali da permetterci di tracciare un percorso evolutivo di questa nozione. 

L’Iliade: poema della vendetta?

La causa stessa dell’assedio decennale alla rocca di Ilio è identificabile nella vendetta: gli achei vogliono infatti vendicare il rapimento della sposa di Menelao da parte di Paride. L’ira e la vendetta gettano dunque la loro ombra sul poema già dall’antefatto. 

Se poi il proemio dell’Iliade si apre con la celebre ira di Achille, è da notare che questa è preparata e prodotta da un’ira e una vendetta precedenti, quelle del sacerdote Crise e del dio da lui servito, Apollo. Il rifiuto da parte di Agamennone dei doni offerti dal padre di Criseide per riscattare quest’ultima sono infatti all’origine dell’ira vendicatrice di Apollo, che scaglia sull’esercito acheo una pestilenza che lo decima. Per stornare la pestilenza, al re degli Achei non resta che una soluzione: rendere Criseide al padre. Agamennone accetta, ma in cambio esige – in guisa di riparazione – la schiava di Achille, Briseide. Ancora una volta, si procede attraverso una vendetta: Agamennone si vendica del torto subito – seppure inevitabile e non voluto da nessuno – arrecandone uno analogo al migliore degli Achei. Tale danno non è soltanto materiale: la società greca arcaica è stata definita una società della vergogna (Dodds, 1951), ovvero una società in cui “il pubblico riconoscimento stabilisce il valore reale di un guerriero in un mondo in cui le intenzioni contano meno dei risultati, i fatti meno delle apparenze” (Ciani, 2016, 14); Briseide non è tanto una prigioniera di guerra, quanto piuttosto “un simbolo, è la prova pubblica del valore di Achille” (Ciani, 2016, 14). Togliergliela significa disconoscere il valore dell’eroe, disonorarlo. È da notare come niente riesca a riparare l’offesa arrecata ad Achille se non un’offesa maggiore, che produce in lui la volontà di una vendetta maggiore, la morte di Patroclo: “dal dolore per la morte di Patroclo nasce un’ira nuova, non meno violenta ma diversa, non più divina e sacrale ma peculiare alla sfera umana […] è sempre l’ira il motivo conduttore delle due storie” (Ciani, 2016, 17-18). A tale proposito, è interessante notare che Aristotele definisce dialetticamente la collera come desiderio di vendetta (cfr. Aristotele, De anima, I, 1, 403a). 

Esiodo: la vendetta divina

Con Esiodo, e in particolare nel suo poema Opere e giorni, vi è la volontà di sorpassare la morale aristocratica ed eroica che permea l’Iliade e ridefinire un nuovo, universale concetto di giustizia. La centralità di questo concetto è sottolineata dallo spunto che dà avvio al poema, ovvero un processo giudiziario. Il giusto cessa con Esiododi essere umano, e dunque sottomesso alla logica della forza, ma viene universalizzato e naturalizzato nel concetto di Dikê, i cui garanti diventano gli dèi; come ha spiegato egregiamente Mauro Bonazzi, in “Esiodo si trova […] l’idea di una giustizia divina, e dunque assoluta, non vincolata ma vincolante le decisioni umane […] Giustizia divina e giustizia umana sono ormai saldamente legate insieme, e la seconda non può più fare a meno della prima, non ne è che un’applicazione particolare” (Bonazzi 2017, 31). 

Una tale determinazione della giustizia pare contraddire dunque la visione omerica in cui la giustizia umana si declina sotto il segno della vendetta: se infatti la giustizia umana deve adeguarsi e rendere conto a quella divina, non vi è più spazio per l’arbitrio del più forte, ovvero del più capace di vendicarsi. Ma è così? Un autore come Esiodo riesce veramente a dissociare giustizia e vendetta oppure continua in un certo modo a concepire la giustizia nei termini della vendetta? Per rispondere, è necessario vedere come egli concepisca la punizione

Per capire la visione di Esiodo relativamente alla punizione, è necessario leggere il destino della città ingiusta descritto nell’Opere e i giorni (vv. 238-47): 

A chi stanno a cuore malvagia prepotenza e opere prave,

a costoro il Cronide Zeus dalla voce che ampia risuona il fio fa pagare.

Spesso anche una città tutta intera ha pagato per un sol uomo

Che commettesse colpa e macchinasse azioni sconsiderate

A costoro dal cielo grande sciagura ha mandato il Cronide:

[…] il Cronide piglia vendetta di loro.

Non è ovviamente possibile dare un’interpretazione univoca di questi versi, infatti “non è chiaro se Zeus intervenga direttamente o indirettamente a sanzionare i comportamenti umani” (Bonazzi 2017, 39). Nel primo caso, però, non saremmo lontani dalla prospettiva della forza vendicatrice tipica dell’Iliade, dove però il vendicatore non è più l’aristos, bensì il dio: il Cronide piglia vendetta di loro

Se Esiodo rende gli dèi garanti della giusta punizione del colpevole, non per questo egli elimina il concetto di vendetta: al contrario, Esiodo lo preserva ad un livello superiore, quello divino. Non si tratta più di ristabilire il giusto ordine delle cose attraverso una vendetta privata, umana, perché a ristabilire la giustizia ci penseranno gli dèi attraverso una vendetta divina, una némesis. Il termine greco némesis ha la radice nem-/nom- il cui senso è distribuire (nemô: distribuire, dividere, amministrare…) e che ha dato non solo il sostantivo némesis ma anche nòmos, che vale legge, uso, convenzione, e si rifà dunque al concetto di giustizia: la némesis dunque, prima d’essere una vendetta divina, è innanzitutto una ripartizione, e più in particolare la ripartizione del giusto sdegno che il reo si merita (cfr. Ugolini 2018)

L’agente umano è certo sostituito con quello divino, ma la struttura sostanziale di una giustizia intesa come vendetta resta la stessa. E una tale concezione della giustizia intesa come giustizia divina resterà una costante di tutto il paganesimo, com’è possibile appurare da un dialogo di Plutarco intitolato De sera numinis vindicta, ovvero Sulla vendetta tardiva del dio, in cui si cerca di giustificare i ritardi che possono intercorrere tra la punizione divina e la colpa. 

La parola di Anassimandro: la vendetta metafisica

Il più antico testo filosofico occidentale pervenutoci è di Anassimandro (B1) e recita: 

Dice che principio non è né l’acqua né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui divengono tutti gli universi e le regioni cosmiche che sono in essi: dalle cose che sono, li è anche la distruzione secondo il dovuto: essi scontano infatti reciprocamente la pena [allêlois didonai dikên] e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

Le cose che sono, per essere tali, devono necessariamente prevaricare su altre, che non sono. Così, il verde prevarica sul non-verde per essere il colore della sedia, il bagnato sul secco per essere la qualità dell’acqua… La struttura metafisica dell’universo è tale per cui gli enti finiti sono in continua opposizione gli uni con gli altri e, per venire ad essere, essi devono prevaricare gli uni sugli altri. Questa provvisoria ingiustizia, tuttavia, sarà pagata a tempo debito attraverso il divenire, che fa scomparire l’ente che si era precedentemente imposto, lasciando spazio al suo opposto: così la sedia si scolora con il tempo, e il verde viene soppresso, pagando il fio della precedente prevaricazione al non-verde che a questo punto si impone. 

Il proposito di Anassimandro non è né politico né etico: 

“Bensì la descrizione dei processi che regolano la vita dell’universo: l’incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde, dei cicli astronomici; un equilibrio dinamico, immanente, garantito dai rapporti tra gli elementi costituenti. La nozione di giustizia serve a descrivere questo processo ordinato […] un universo che proprio perché spazialmente e temporalmente ordinato può essere detto kosmos” (Bonazzi 2017, 51-2).

Tuttavia, anche trattandosi di un discorso cosmologico e metafisico è interessante notare come il tema della giustizia resti ancorato ad un fio da pagare. L’ingiustizia derivante da una certa colpa dev’essere pagata affinché l’ordine cosmico venga ristabilito: anzi, quest’ordine si intesse proprio delle colpe e delle successive punizioni, e in questa catena ininterrotta trova il suo equilibrio. 

Se in Esiodo, dunque, la giustizia restava ancorata al concetto di vendetta, che si configurava come vendetta divina, in Anassimandro abbiamo quella che possiamo definire una vendetta cosmica. 

Reazione a catena: l’Orestea di Eschilo 

Se si parla di vendetta, non è possibile non citare la vicenda di Oreste, eroe vendicatore per eccellenza. Nell’Odissea di Omero, Oreste è presentato come modello di virtù proprio in quanto vendicatore del padre: Atena, infatti, lo propone come modello da seguire a Telemaco, dicendogli:

Non senti che gloria s’è fatta Oreste divino

Fra gli uomini tutti, uccidendo l’assassino del padre,

Egisto ingannatore, che il nobile padre gli uccise?

Questa rappresentazione di Oreste è resa possibile da quella morale omerica che abbiamo sopra delineato, la quale fonda la giustizia sul concetto di vendetta.

Questa visione viene problematizzata nella trasposizione drammatica di Eschilo, la cui trilogia dell’Orestea Agamennone, Coefore e Eumenidi – mette in scena la vicenda degli Atridi, che altro non è se non una vicenda di vendetta: Clitemnestra uccide Agamennone per vendicare la figlia Ifigenia, coadiuvata dal cugino di Agamennone, Egisto. Ma non solo Clitemnestra a volersi vendicare di Agamennone, ma anche Egisto: quest’ultimo infatti deve riparare una colpa più antica, non direttamente imputabile ad Agamennone, bensì al padre Atreo, il quale aveva massacrato i figli di Tieste, padre di Egisto. Questi ha agito secondo una: 

“Convinzione radicata nella mentalità greca: il delitto travalica la responsabilità dell’individuo, proiettando la sua contaminazione sull’intera stirpe. Il destino colpisce il discendente [qui Agamennone] del colpevole [Atreo] incatenando pure lui al male” (Del Corno 1995, 196). 

Perciò, Oreste uccide Clitemnestra ed Egisto per vendicare il padre e deve poi difendersi dalle Erinni vendicatrici per aver versato il sangue materno.

Ancora una volta i concetti di giustizia e di vendetta sono interconnessi, come possiamo leggere nelle parole di Clitemnestra che, dopo aver ucciso il marito e vendicato la figlia, dice:

Sì, questo è Agamennone, mio sposo; per questa mia mano è qui cadavere; e fu giustizia. Così è (Agamennone, 1404-6).

Nella seconda tragedia della trilogia, le Coefore, viene attivata quella reazione a catena tipica della giustizia come vendetta ovvero una reazione a catena che costituisce il punto critico di una tale concezione della giustizia, com’è egregiamente messo in evidenza nel film Sympathy for Mr. Vengeange, 2002 di Park Chan-wook, come si evince dal dialogo tra Clitemestra ed il figlio Oreste:

C.: Figlio, vuoi proprio uccidere tua madre?

O.: Io? Sarai tu che uccidi te stessa.

Oreste afferma che è la madre che uccide se stessa perché, uccidendo il padre, ha azionato la dinamica autonoma propria di una giustizia vendicativa, per la quale il torto subito può essere riparato soltanto con un nuovo torto che, essendo tale, richiede esso stesso una nuova riparazione.

Tale rappresentazione di dike da parte di Eschilo sembra allora restare ancorato ad una visione della giustizia come vendetta: “all’inizio c’è una concezione della giustizia che, sotto la minacciosa protezione delle Erinni, relega il diritto nella dimensione privata della vendetta (cfr. Ag. 1560-64; Co. 119-23). È ad essa che si appellano espressamente prima Clitemnestra (Ag. 1406, 1432: “per Dike vendicatrice della figlia mia”) e poi Oreste (Co. 909-14), in una sequenza inesorabile di uccisioni da cui sembra impossibile uscire: “sono i morti che uccidono i vivi”, come un servo dice a Clitemnestra mentre Oreste avanza brandendo una scure (Co. 886)” (Bonazzi 2017, 109).

La novità di Eschilo risiede tuttavia nella problematizzazione di questa concezione della giustizia, che finisce per divorare se stessa: “Ares combatte con Ares, Giustizia con Giustizia” (Coefore, 461). Partendo dalla visione tradizionale della giustizia come vendetta, Eschilo, nel corso della trilogia, inaugura il cammino che farà uscire la Grecia da una tale concezione: 

“Promuovendo un’altra idea di giustizia. Dike deve diventare un fatto politico: è ciò che produce ordine, sono le decisioni che vengono prese nei tribunali sotto la vigile protezione divina, con l’obiettivo di interrompere il ciclo senza fine delle violenze reciproche (Eu. 973). Il vincolo politico, protetto dalla tutela dei nuovi dèi olimpici, si sostituisce così al legame di sangue; e ognuno, ogni individuo, diventa membro responsabile della comunità, in cui le decisioni collettive prendono il posto delle faide tra famiglie (Eu. 690-705) […] La difesa di una giustizia politica segna un distacco dal mondo dell’Iliade, in cui il predominio dei singoli e delle casate rendeva difficile se non impossibile la risoluzione dei conflitti” (Bonazzi 2017, 109-10).

Così una giustizia di tipo privato viene criticata e sostituita ad una di tipo politico, anche simbolicamente, dato che la vicenda tragica viene sciolta nell’Areopago, tribunale aristocratico adibito alla vigilanza delle leggi e alla giurisdizione sui delitti di sangue. È interessante notare che questa antinomia tra giustizia politica e giustizia vendicativa individuale è spesso espressa anche nei film sudcoreani sopracitati, dove spesso i rappresentanti della legge, dunque di questa giustizia politica che abbiamo detto, vengono mostrati come del tutto inetti: è dove la legge è inefficiente che la vendetta trova un terreno fertile dove crescere.   

Se con Eschilo viene egregiamente rappresentato il limite intrinseco alla mentalità vendicativa arcaica, e gli può essere concesso il merito di averne decostruito le fondamenta, mettendo in evidenza come una tale concezione della giustizia distrugga la giustizia stessa, scatenando una reazione a catena senza fine, la sua proposta di una giustizia alternativa, fondata sulle leggi della comunità resta vaga e filosoficamente infondata. Qual è la vera alternativa a questa concezione arcaica della giustizia come vendetta?  

Il concetto di vendetta dunque, a differenza di quello che potremmo pensare in un primo momento, non è affatto alieno alla mentalità occidentale, la cui concezione originaria di giustizia si fondava esattamente su di esso. Bisogna sottolineare tuttavia che da un punto di vista legislativo, la vendetta privata diventa illegale già negli ultimi decenni del VII secolo, con le leggi draconiane, che puniscono severamente chiunque si faccia giustizia da sé, eccetto per un caso… l’adulterio! Tuttavia quello che ci interessa mostrare è che, al di là del concetto stretto di vendetta inteso come farsi giustizia da sé, persiste un concetto più largo di vendetta secondo cui la punizione del reo è intesa come riparatrice di una colpa che può anche essere un miasma, una contaminazione, per i familiari ma anche per la città.

È nostro compito, pertanto, cogliere quel momento nella storia del pensiero in cui l’Occidente ha virato verso una concezione diversa di giustizia svalutando eo ipso la nozione di vendetta stessa. Quando e come tramonta, allora, il valore della vendetta? 

Socrate-Platone: la giustizia come terapia dell’anima

La delegittimazione del concetto di vendetta passa attraverso la celebre tesi socratico-platonica secondo cui è preferibile subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla: 

Socrate: […] il più grande dei mali è il commettere ingiustizia.

Polo: E questo sarebbe il più grande? Non è maggiore il subire ingiustizia? 

Socrate: No, nel modo più assoluto.

Polo: Tu vorresti quindi subire ingiustizia piuttosto che commetterla?

Socrate: In realtà io non vorrei nessuna delle due; se però fosse necessario commettere ingiustizia o subirla sceglierei di gran lunga subire ingiustizia piuttosto che commetterla. 

[Platone, Gorgia, 469b8-c3, a cura di A. Taglia, note e trad. di F. M. Petrucci, Torino: Einaudi, 2014].

Questa tesi implica l’impossibilità di vendicarsi, poiché la vendetta presuppone la legittimità di commettere un’ingiustizia verso qualcuno che ci ha precedentemente offesi attraverso un’altra ingiustizia. E infatti la medesima tesi socratica la ritroviamo nel Critone, dove però essa viene messa più esplicitamente in relazione con l’atto vendicativo:  

Dunque neppure colui che subisce ingiustizia deve rispondere con un’ingiustizia, come credono i più, dal momento che non si deve commettere ingiustizia in nessun caso […] so infatti che poche persone sono e saranno di quest’avviso […] che non è mai una cosa retta né commettere ingiustizia [toû adikeîn] né ricambiarla [toû antadikeîn], né vendicarsi [amynesthai] se si subisce del male [kakôs paschota] facendo a nostra volta del male [antidrônta kakôs] [Platone, Critone, 49b-e, in Platone, Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, a cura di Centrone e Taglia]

Come commenta molto giustamente Centrone, “la presa di distanza socratica da questa posizione è quindi particolarmente rilevante, perché sottrae alla sfera della giustizia tutti i comportamenti volti a causare un danno, compresi quelli ritorsivi, aprendo un netto divario rispetto al sentire comune” (Centrone e Taglia 2010, 230). Questo sentire comune non era altro che quello della morale eroica che la Grecia classica aveva ereditato da Omero, morale: “Secondo la quale subire il male senza poter difendere se stesso e i propri amici era la cosa peggiore per un uomo […] Per Socrate invece è peggio commettere il male che subirlo, e peggio ancora è non pagare la pena per il male commesso, che sola libera l’uomo dalla ingiustizia” (Platone, Gorgia, cura di A. Taglia, note e trad. di Petrucci 2014, 79). 

Negare il concetto di vendetta, dunque, non vuol dire lasciare il reo impunito. Anzi, non solo per la città, ma per il reo stesso, non vi è beneficio migliore che l’essere punito. Platone produce infatti una gerarchia delle azioni relativamente alla giustizia, gerarchia che comprende, dalla migliore alla peggiore: 

  1. Non commettere e non subire ingiustizia.
  2. Non commettere ma subire ingiustizia.
  3. Commettere ingiustizia e espiare la propria colpa con un castigo.
  4. Commettere ingiustizia e fuggire il castigo. 

Possiamo infatti leggere: 

Invece, Polo, secondo la mia opinione chi commette ingiustizia e l’ingiusto sono in ogni caso sventurati, e ancora più sventurati qualora non scontino la giusta pena né incappino nella punizione avendo commesso ingiustizia, mentre saranno meno sventurati qualora scontino la giusta pena e incappino nella giustizia per mano e degli dèi e degli uomini.

[Platone, Gorgia, 472e4-8, a cura di A. Taglia, note e trad. di Petrucci 2014]

E ancora:

…in ogni caso chi commette ingiustizia è più sventurato di chi subisce ingiustizia e chi non sconta la giusta pena di chi la sconta. 

[Platone, Gorgia, 479e, a cura di A. Taglia, note e trad. di Petrucci 2014]

Data tale gerarchia, e data la delegittimazione del concetto di vendetta, è necessario per Platone rifondare il concetto e la legittimità del castigo su nuove basi. Per fare ciò, egli sfrutta un’analogia che passa attraverso la distinzione dell’anima e del corpo: vi è un’attività che si preoccupa del bene dell’anima così come ve n’è una che si preoccupa del bene del corpo. Entrambe queste attività si suddividono in due sottospecie, a seconda che svolgano una funzione curativa oppure preventiva. Per il corpo queste due attività sono la medicina (funzione curativa) e la ginnastica (funzione preventiva), sebbene non vi sia un nome unico che le raggruppi entrambe; mentre tale nome esiste per l’anima, ed è quello di “politica”, la quale si suddivide in giustizia (funzione curativa) e legislazione (funzione preventiva). È possibile così produrre una proporzione tra queste quattro arti (technai): la giustizia sta alla medicina come la legislazione sta alla ginnastica. 

Quando siamo malati, ci dice Platone, se desideriamo guarire ci sottomettiamo al giudizio del medico che, attraverso le sue pratiche, che possono talvolta essere dolorose, ci permette di guarire; ma, essendo la giustizia analoga, per quanto concerne l’anima, alla medicina, la stessa cosa deve valere per essa: il castigo, una sorta di bisturi dell’anima, non ha né una funzione vendicativa né strettamente punitiva, ma ha come obiettivo quello di curare l’anima “malata” del reo, affetta dal morbo dell’ingiustizia. 

A questo proposito, per ponderare la portata epocale di questa nuova configurazione morale data da Platone al concetto di punizione è utile leggere le parole di E. R. Dodds: 

Plato’s implicit reasoning seems to be: punishment is a necessary institution in all societies; but it can be justified morally only if it is remedial: therefore it must always be remedial […] Plato’s medical approach to the problem of delinquency represents an immense moral advance both on the primitive lex talionis and on the irrational conception of guilt as an infectious pollution wich so deeply influenced early Greek law.

[Plato, Gorgias, Revised Text, Introduction and Commentary Dodds 1959,254]

È da notare che questa nuova configurazione della giustizia e della pena non  si sottrae ancora del tutto alla possibilità della vendetta. Socrate avanza infatti, nel Gorgia stesso, il caso paradossale in cui si voglia nuocere al proprio nemico: 

Qualora, dico, il nemico commetta ingiustizia contro un altro, occorre provvedere in ogni modo, [481a] con azioni e parole, affinché questi non sconti la giusta pena né si rechi dal giudice.

[Platone, Gorgia, 480e8-481 a3, a cura di Taglia, note e trad. di Petrucci 2014]

Ora, sebbene il Socrate del Gorgia formuli questa eventualità a titolo puramente paradossale, probabilmente non senza il desiderio di provocare i propri interlocutori, Platone dovrà effettivamente risolvere questo potenziale problema. L’esegeta veterotestamentario Filone di Alessandria, infatti, vissuto a cavallo fra il I sec. a. C. e il I sec. d. C., sfrutterà proprio questa concezione della punizione elaborata da Platone nel Gorgia per interpretare i passaggi biblici inerenti a Caino: 

[146] Supplichiamo Dio, […] di punirci piuttosto che trascurarci. Se ci trascura, infatti, ci renderà schiavi non più di Lui stesso, che è benevolo, bensì della creazione che è senza pietà; se ci punisce, invece, convenientemente e con mitezza, poiché Egli è buono, correggerà i nostri errori, inviando nel nostro animo il suo Logos, che rimprovera e corregge, e per mezzo suo lo fa vergognare, lo rimprovera dei suoi errori e lo guarisce.  

[Filone, Il malvagio tende a sopraffare il buono, in Filone, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di Radice 1994, 316]

Filone però applica questa concezione platonica della pena all’episodio biblico di Caino. Questi è il primo fratricida della storia ma, invece di essere punito da Dio, è condannato all’abbandono: nessuno può toccare Caino, cioè nessuno può punirlo, perché il suo atto è talmente grave che merita vendetta, e questa non è altro che l’impunità: 

Perciò mi sembra che coloro che non si trovano nell’impossibilità totale di purificarsi debbano pregare di essere puniti piuttosto che essere scacciati: la cacciata, infatti, li sconvolgerà molto facilmente, come imbarcazioni senza zavorra e senza pilota, mentre la punizione li raddrizzerebbe. 

[Filone, Il malvagio tende a sopraffare il buono, in Filone, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di Radice 1994, 316]

Il Dio ebraico, dunque, in una certa misura resta vendicativo con Caino: nemico dell’umanità, il modo migliore per rendergli il male che ha commesso è privarlo della punizione meritata. 

E se le parole di Socrate nel Gorgia andavano in questo senso, l’obiettivo di Platone non è affatto restare all’interno di una mentalità vendicativa, pur invertendone i paradigmi; è per questa ragione che nella Repubblica leggiamo: 

Se dunque uno viene a dire che è giusto ridare [apodidònai] a ciascuno quello che gli è dovuto, e ciò per lui significa precisamente che l’uomo giusto deve danno ai nemici e utilità agli amici, non si rivela sapiente a parlare così, ché non è vero quello che dice: a noi anzi è risultato che non è giusto danneggiare alcuno, in nessun caso. 

[Platone, Repubblica, 335e, traduzione Sartori, introduzione Vegetti e note Centrone]  

Come ho provato a mostrare, dunque, il concetto di vendetta ha, nel corso di questi quattro secoli presi in considerazione, una storia molto travagliata: centrale nel pensiero arcaico, esso viene sempre più delegittimato dal razionalismo della Grecia classica. Questa storia mi sembra aver mostrato come esso non possa essere interpretato unicamente come un sentimento, ma possa invece costituire – e, di fatto, ha costituito – una determinazione possibile del concetto stesso di giustizia. 

Mi auguro che questo articolo non finisca in sé stesso, ma inviti i lettori ad interrogare questo rapporto tra giustizia e vendetta relativamente ad altre culture ed epoche storiche rispetto a quella da me qui studiata. 

BIBLIOGRAFIA

NOTA: Le traduzioni di Esiodo, Anassimandro ed Eschilo sono tratte da Bonazzi (2017).

Bonazzi, M. (2017), Atene. La città inquieta, Einaudi, Torino.

Ciani, M. G. (2016), in  Omero, Iliade, Marsilio, Venezia.

Del Corno, D. (1995), Letteratura greca. Dall’età arcaica alla letteratura dell’età 

imperiale, Principato, Milano.

Dodds, E. R. (1951), The Greeks and the irrational, University of California Press, 

Berkeley-Los Angeles. 

Dodds, E. R. (1959), in Plato, Gorgias, Revised Text, Introduction and Commentary by E. 

  1. Dodds, Oxford University Press, Oxford.

Ugolini, G. (2018), Lexis. Lessico della lingua greca per radici e famiglie di parole, Pàtron 

Editore, Bologna.

FONTI

Filone, Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, cura di R. Radice, Rusconi, 

Milano, 1994.

Platone, Critone, in Platone, Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, cure di B. Centrone e A. 

Taglia, Einaudi, Torino, 2010.

Platone, Gorgia, a cura di A. Taglia, note e trad. di F. M. Petrucci, Einaudi, Torino, 2014.

Platone, Repubblica, traduzione F. Sartori, introduzione M. Vegetti e note B. Centrone, 

Laterza, Roma-Bari, 1997.

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