Poche opere sono riuscite a guardare nell’anima dell’America come ha fatto Taxi Driver (1976). Con questo film Schrader – sceneggiatore – e Scorsese – regista – scavano nelle paure di una nazione, ne espongono i traumi, mettono alla berlina le sue contraddizioni. Negli occhi di Travis Bickle si specchia un’America molto più reale di quanto la finzione possa nascondere; un film fondativo, perché dà il via a una serie di pellicole che seguiranno l’esempio di Taxi Driver e andranno a sguazzare in quel fango venuto a galla proprio con la pluripremiata opera del maestro Scorsese. Una di queste è Watchmen (2009): una pellicola – tratta dall’omonima graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons (1986–1987) – che affonda le sue radici nei meandri più torbidi della nazione americana, ne riconosce l’ipocrisia e, di nuovo, la mette a nudo. Il comparto fantastico è relegato all’elemento supereroistico; per il resto, quello che si vede è, di nuovo, molto più vero di quanto la finzione riesca a mascherare – mai parola fu più azzeccata. Ecco che allora Travis Bickle diventa, in qualche modo, il padre putativo di questi (anti)eroi mascherati.
La storia di Taxi Driver è ormai nota: la sceneggiatura di Paul Schrader segue il girovagare notturno di un giovane reduce del Vietnam, Travis Bickle, che, in virtù della sua insonnia, ha trovato un impiego da tassista. La solitudine dell’uomo, unita alla sua incomunicabilità con una società che non comprende, farà cadere il protagonista in una spirale di follia che sfocerà inevitabilmente nella violenza.
Taxi Driver è un film prima di tutto sull’alienazione: centrale è l’incapacità di un reduce del Vietnam di trovare un posto nella New York degli anni ’70. La sua mente è ormai fortemente instabile, sintomo ultimo di una condizione di estrema solitudine che, se già era presente prima della spedizione nel sud-est asiatico, adesso non può che essere estremizzata. L’esempio lampante della sua totale inettitudine rispetto a una società che Travis fatica a comprendere è l’uscita con Betsy al cinema porno. Lo spaesamento sociale e valoriale del protagonista qui trova il suo triste apice: triste perché lo spettatore non può che empatizzare, in questa prima parte, con Travis, tifare per lui e per la possibilità di un suo reinserimento in società – magari passando proprio dall’innamoramento per una ragazza impegnata in politica. Ma l’appuntamento risulterà grottesco e i tentativi successivi di Travis – chiamate, fiori, e persino una riapparizione dal vivo – tragici.
A Travis non rimane che un vagabondaggio notturno nel ‘marciume’ delle strade di New York illuminate dai neon delle insegne dei negozi. Un viaggio per certi versi ipnotico, onirico, fatto di luci che si accendono e ombre che si muovono – impossibile scordarsi la scena nel taxi con lo stesso Martin Scorsese: «Io la uccido, con una Magnum 44».
È proprio per descrivere la New York dei quartieri più poveri – come Harlem o il Bronx – che emergono quelli che sono i pochi – ma centrali – richiami al campo semantico della religione. Si ricordi, in tal senso, che per Scorsese, cattolico convinto, la tematica religiosa è un elemento così importante nella sua poetica che lo stesso regista non solo le ha dedicato diverse pellicole – L’Ultima Tentazione di Cristo (1988) e Silence (2016) i due più importanti –, ma addirittura è riuscito a inserire riflessioni di questo tipo anche in film di genere completamente diverso; la luce e l’ombra, il peccato e la redenzione, l’angelico e il diabolico sono elementi propri del cinema scorsesiano, ben riconoscibili in film come Mean Streets (1973) o The Departed (2006), e mostrano come per il regista il confine tra Bene e Male sia molto più sfumato di quanto si possa pensare poiché, in fondo, questi non sono valori così assoluti come possono all’apparenza sembrare.
Taxi Driver non fa eccezione: in particolare, l’espressione più importante che rimanda a questo campo semantico è quella per cui «un diluvio universale prima o poi dovrà ripulire queste strade». Il concetto di pulizia delle strade da tossici e prostitute – che per Travis rappresentano il marciume della società – è proprio il motore primo della seconda parte del film. Davanti a una società che non lo comprende, di fronte a una politica che non lo rappresenta, Travis capisce che dovrà attivarsi in prima persona per cambiare le cose. Travis Bickle diventa, in questo modo, o almeno secondo lui, una sorta di messia (o meglio, anti-messia) chiamato a punire i peccatori – il diabolico Sport e gli altri papponi – e salvare le anime pure – l’angelica Betsy, non a caso vestita quasi sempre di bianco, o la giovane e innocente Iris. La catarsi del personaggio arriverà proprio nel momento in cui il protagonista deciderà di sacrificarsi per la piccola Iris, passando per una lunga sequela di dolorosi spargimenti di sangue.
Ma Travis Bickle, proprio in virtù delle sue azioni, verrà glorificato, rappresentato come un paladino della giustizia in grado di salvare la vita di una ragazzina tredicenne: i giornali lo renderanno un eroe. Senza sapere, tuttavia, che il bagno di sangue ai danni di Sport e degli altri adescatori è solamente frutto del caso, la fortuita conseguenza del fallimento dell’attentato al senatore Palantine.
Il protagonista di Taxi Driver, dunque, incarna a pieno la figura dell’antieroe, centrale nella cultura pop del XXI secolo: colui che compie un atto eroico a conclusione del suo percorso narrativo ma che lo fa in virtù di valori completamente opposti a quelli di riferimento nella società a lui contemporanea. In particolare, per i motivi sopra citati, Travis Bickle ha una bussola morale completamente deviata: i traumi della guerra e l’odio represso per una società che lo esclude lo hanno reso la perfetta rappresentazione della mina vagante americana, una delle tante persone comuni destinate a occupare le prime pagine dei giornali americani in virtù di un qualche episodio violento – sparatorie o, peggio, stragi – che li coinvolge in prima persona. Eppure, non sarà questo l’epilogo di questa storia: proprio perché Travis, dopo aver lavorato sul suo corpo e dopo aver indossato la sua maschera da giustiziere – quel taglio moicano che ricorda i combattenti della guerra in Vietnam, che si dice si radessero in quel modo i capelli per dimostrare di essere pronti al sacrificio – otterrà la gloria e il riconoscimento di familiari e opinione pubblica in virtù della carneficina di cui è egli stesso artefice. Se la figura dell’antieroe è un topos narrativo già presente nella cultura americana, con Taxi Driver nasce quella dell’antieroe urbano, il vigilante mascherato che vaga per le metropoli americane e protegge, con metodi e valori del tutto discutibili, i cittadini dai criminali che si annidano nei vicoli più bui.
Ecco che, visto sotto questa luce, Travis assume i contorni di uno Watchmen ante litteram. Il riferimento va a Watchmen di Zach Snyder, tratto dall’omonima graphic novel di Alan Moore e Dave Gibbons (1986–1987): il film narra di un complotto atto a eliminare un gruppo di eroi mascherati che da anni sono impegnati a proteggere le principali città americane dalla sempre più dilagante criminalità. Ma non è la trama il punto della questione. L’interesse per questa pellicola nasce dal fatto che gli Watchmen, salvo il peculiare caso del Dottor Manhattan, sono tutte persone più o meno comuni che, al sicuro dietro una maschera che ne protegge l’anonimato, si ergono a paladine della giustizia; soprattutto, ad esse la collettività affida gran parte dell’amministrazione della giustizia stessa. «Siamo l’unica difesa dei cittadini» dice Il Comico al Gufo Notturno; «Da chi li stiamo proteggendo?» risponde quest’ultimo; «Da loro stessi!» conclude il primo, mentre si accinge a sparare sulla folla inerme. È una società che ha perso fiducia nelle istituzioni; le quali, a loro volta, non riescono a comprenderne bisogni e desideri – evidente in tal senso l’incomunicabilità tra due mondi lontanissimi che, nel capolavoro di Scorsese, emerge dal dialogo tra il senatore Palantine e Travis nel taxi di quest’ultimo. È l’eclissi dei tradizionali schemi di giustizia pubblica a favore dei metodi, decisamente più duri, della giustizia privata; giustizia amministrata, per di più, da giustizieri mascherati completamente privi di principi etici.
Il personaggio di Rorschach, per esempio, è più simile a Travis di quanto si possa pensare. Non tanto per l’estrazione sociale, quanto più per la filosofia che sta dietro al suo agire: se è vero che il suo obiettivo ultimo è la realizzazione del bene e la protezione degli ultimi, questionabile è il suo modo di agire avulso da qualsiasi coordinata morale – non si fa problemi ad uccidere o mutilare uomini e animali per raggiungere la «verità senza compromessi». La stessa maschera di Rorschach è un chiaro esempio della sua instabilità mentale: il test di Rorschach è un test psicologico che serve ad esaminare la personalità e il funzionamento emotivo di chi vi è sottoposto; si compone di 10 tavole con sopra macchie di inchiostro dal significato ambiguo su cui il paziente, esprimendo cosa vede in quelle strane forme, proietta il proprio inconscio. Ecco che la maschera di Rorschach, composta da un panno bianco su cui si muovono le macchie d’inchiostro nero di cui sopra, diventa indice dell’estremo squilibrio emotivo del personaggio; una persona che fin da piccola ha subito vessazioni – come mostrano dei (fin troppo) didascalici flashback nel momento in cui lo stesso Rorschach viene sottoposto al test di cui sopra – e che per questo ha introiettato l’odio e la violenza al punto da farli divenire i punti cardinali della propria personalità. Il vero paradosso di Rorschach – e forse anche di Travis – è che solo coperto dalla sua maschera rivela la sua vera personalità; quasi come se la maschera diventasse l’undicesima tavola del test, capace di metterlo davvero emotivamente a nudo una volta indossata. Ma non è questa la cosa che più accomuna i due antieroi; ancora di più Travis e Rorschach condividono l’odio per il deterioramento dei valori della società in cui sono immersi, che trovano sempre più sporca e bisognosa di un diluvio divino capace di lavare le coscienze. Gli stessi flussi di pensiero di Travis Bickle che osserva e disprezza una New York in putrefazione vengono ripresi in scala quasi 1:1 dal monologo con cui il personaggio di Rorschach viene introdotto:
«La città mi teme. Ho visto il suo vero volto. Le strade sono propaggini delle fogne e le fogne sono piene di sangue. Quando, finalmente, i tombini si intaseranno, tutta la feccia affogherà. Il lerciume di anni di sesso e omicidi gli ribollirà fino alla vita. Guardando in alto, tutte le puttane e i politici grideranno “Salvaci!”. E io sussurrerò “No.”. Il mondo intero si trova sull’orlo dell’abisso, in fondo al quale lo attende l’inferno. Tanti liberali, intellettuali e ciarlatani melliflui e, d’improvviso, nessuno riesce più a trovare qualcosa da dire. Sotto di me, quest’orrenda città grida come un mattatoio pieno di bambini ritardati, e la notte trasuda fornicazione e senso di colpa».
L’odio per il ‘marciume’ della città, per la depravazione, per ciò che è sporco sia fisicamente che moralmente; il rimando alle strade, ai tombini, alle fogne, a ciò che sta sotto e che è pronto ad esplodere. La brama di pulizia, di ordine; i mezzi della rabbia e della violenza per raggiungere l’obiettivo. Il rimando alla salvezza messianica e al campo semantico religioso. Travis Bickle ha camminato affinché Rorschach potesse correre.
Tuttavia, non è il solo Rorschach a rappresentare la poetica scorsesiana in Watchmen. Il Comico è un violento, un alcolizzato, uno spietato omicida – terribile in tal senso l’uccisione a sangue freddo della ragazza vietnamita che lui stesso ha messo incinta. Eppure è il Comico; perché ha compreso l’ipocrisia della società e ha deciso di assecondarla, di cavalcarla, di ridere con lei delle sue nefandezze. Ha capito la vera anima guerrafondaia dell’America e ha deciso di abbracciarla: una land of freedom che permette a chi non ha scrupoli di abusare di questa libertà e usarla per prevaricare sugli altri. La grande barzelletta della libertà americana. Non a caso il Comico è l’eroe americano per antonomasia celebrato come nessun’altro da tutta la popolazione: bello, bianco, spiritoso, con il sigaro in bocca e la pistola nella fondina. È il prototipo di americano che più di un presidente – compreso quello attuale – ha venduto come “vero” durante la sua propaganda. E poco importa se si è macchiato dei peggiori crimini possibili: rimane comunque molto più americano di tante altre persone nere o immigrate che vivono in America da generazioni – non a caso la tematica razziale è alla base della miniserie Watchmen del 2019, sequel ideale del film in questione. «Cosa è successo al sogno americano? Si è avverato!» è una delle sue frasi più celebri; ma, a pensarci bene, è un’asserzione che potrebbe tranquillamente essere stata pronunciata dal protagonista di Taxi Driver. Travis forse non ha raggiunto il grado di consapevolezza del Comico; a dirla tutta, forse non è nemmeno così intelligente da poter fare ad una tale riflessione. Agisce d’impulso, segue l’istinto – “il pensare è per gli stupidi” direbbe qualcuno che di violenza se ne intende. Eppure con il Comico condivide la totale assenza di scrupolo nell’uso della forza; che sia il senatore Palantine o il pappone Sport fa poca differenza, l’assuefazione alla violenza e alla brutalità dell’agire sono elementi che ormai ha interiorizzato.
In conclusione, tra tutti i vigilanti mascherati, Travis è molto più Watchmen che Batman; anch’egli vigilante mascherato, ma dai valori ben più marcati – non uccidere i criminali, mettere sempre l’interesse pubblico al primo posto, salvare quanti più civili possibile. Travis, al contrario, pensa che uccidere il senatore o i papponi intorno a Iris non faccia differenza: in entrambi i casi il risultato sarebbe proprio quella pulizia delle strade di cui lui si fa portavoce. E allora diventa, inconsapevolmente, il primo degli Watchmen, il primo giustiziere mascherato dai valori completamente deviati le cui gesta finiranno per regalargli fama e riconoscimento sociale: un vero e proprio eroe protettore del popolo. Un po’ Rorschach, per il suo odio ossessivo verso una società in necrosi, un po’ Comico, per la sua totale assenza di interrogativi morali nell’uso della violenza.
Rimane, in questo caso, una domanda da porsi: posto che Travis è ancora a piede libero e vaga con il suo taxi per le strade di New York, se mai dovesse ricadere nella spirale nevrotica che lo ha portato all’atto violento finora descritto, chi ci garantisce che stavolta a morire non sarà una qualche persona innocente – come poteva esserlo il senatore Palantine – anziché un altro malavitoso come Sport? Detto diversamente: “who watches the Watchmen?”.
Fotografia di Dario Miale