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29 Dicembre 2022

GABRIE­LE MAI­NET­TI: ELO­GIO AI FREAKS

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Che ci fac­cio qui? è una doman­da che ha per­se­gui­ta­to tut­ta la mia ado­le­scen­za.

Allo­ra non sape­vo che altre doman­de, più impor­tan­ti, si pone­va­no: come arri­va­re alla fine del mese, come stu­ra­re il lavan­di­no, paga­re l’affitto…domande legit­ti­me. Non le disprez­zo. Me le pon­go sem­pre più spes­so, tant’è che alla pri­ma doman­da non ho anco­ra tro­va­to rispo­sta.

Un que­si­to che la mag­gior par­te del­la popo­la­zio­ne, ahi­mè, non si pone lon­ta­na­men­te. Un dub­bio per gli emar­gi­na­ti rele­ga­ti nei bas­si­fon­di di que­sta socie­tà. Loro sì, gli ulti­mi, gli “scar­ti” di que­sto mise­ro mon­do non si tro­va­no nell’erranza per acci­den­te ma per essen­za Con­ven­go che que­sta doman­da non ser­ve a gran­ché: non a far fun­zio­na­re un’impresa, una fami­glia né a gene­ra­re impie­go.

Ma se guar­da­te un film di Gabrie­le Mai­net­ti dove­te ben por­ve­la di tan­to in tan­to.

Gabrie­le Mai­net­ti, regi­sta roma­no che negli anni ha crea­to un gene­re tut­to suo nel pano­ra­ma cine­ma­to­gra­fi­co ita­lia­no, un uni­cum che si destreg­gia tra un rea­li­smo nudo e cru­do sha­ke­ra­to con un piz­zi­co di magia, un rea­li­smo magi­co degno del­lo scrit­to­re Gabriel Gar­cia Mar­quez. Uno die­tro la mac­chi­na da pre­sa, l’altro die­tro una mac­chi­na da scri­ve­re.

Que­sta volon­tà di Mai­net­ti di mischia­re il fumet­to e la figu­ra del supe­re­roe con la real­tà empi­ri­ca ren­do­no le sue sto­rie una meta­fo­ra espli­ca­ti­va del mon­do odier­no, in cui tut­te le con­trad­di­zio­ni di que­sta socie­tà emer­go­no in super­fi­cie come legna sul­la bat­ti­gia dopo una mareg­gia­ta.

È il caso, per esem­pio, di Tiger Boy, sesto cor­to­me­trag­gio rea­liz­za­to da Mai­net­ti e usci­to nel 2012.
Il film è frut­to del soda­li­zio tra il regi­sta roma­no e lo sce­neg­gia­to­re Nico­la Gua­glio­ne: i due ave­va­no già lavo­ra­to assie­me nel 2004 per il cor­to­me­trag­gio Il pro­dut­to­re, e per il cor­to Baset­te, fina­li­sta al David di Dona­tel­lo 2009, e ades­so per Tiger Boy, vin­ci­to­re del  Nastro d’Argento 2013 e in shor­tli­st ai pre­mi Oscar 2014 per il miglior cor­to­me­trag­gio.

Mai­net­ti e Gua­glio­ne (allie­vo di Leo Ben­ve­nu­ti) han­no pro­se­gui­to lavo­ran­do al pri­mo lun­go­me­trag­gio del regi­sta roma­no: Lo chia­ma­va­no Jeeg Robot (2015), per poi con­sa­crar­si con la mera­vi­glio­sa fol­lia di Freaks Out. Il secon­do lun­go­me­trag­gio ha otte­nu­to ben 16 can­di­da­tu­re ai David di Dona­tel­lo 2022, tra cui miglior film e miglior regia. Due lun­go­me­trag­gi, due sto­rie che rie­sco­no a stu­pi­re e intrat­te­ne­re: Mai­net­ti è quel regi­sta che ti fa cre­de­re che anche in Ita­lia si pos­sa fare un film di gene­re sen­za asso­ciar­lo alla cine­ma­to­gra­fia este­ra, distac­can­do­si sia dal­le maxi-pro­du­zio­ni ame­ri­ca­ne, che dal­la comi­ci­tà stan­dard e super­fi­cia­le dal­la faci­le risa­ta. Anche que­sta vol­ta Gabrie­le Mai­net­ti vede fuo­ri dagli sche­mi, si distac­ca dai cano­ni clas­si­ci e ripro­po­ne un cine­ma che sul nostro suo­lo sem­bra qua­si si abbia pau­ra ad anda­re a toc­ca­re.

Roma, dopo l’armistizio dell’8 set­tem­bre del 1943, un grup­po di quat­tro cir­cen­si, pro­prie­ta­ri insie­me a Israel (uno splen­di­do Gior­gio Tira­bas­si) del Cir­co Mez­za­piot­ta, pro­se­guo­no la loro odis­sea nel bel mez­zo dell’occupazione tede­sca. Que­sti arti­sti pos­sie­do­no super­po­te­ri fuo­ri dal comu­ne, una sor­ta di Fan­ta­sti­ci Quat­tro all’italiana: com­po­sti da Ful­vio, un vera­ce lupo man­na­ro roma­no col­mo di for­za e cul­tu­ra, magni­fi­ca­men­te inter­pre­ta­to da Clau­dio San­ta­ma­ria, pas­san­do per il nano cala­mi­ta, ovve­ro Car­lo, inter­pre­ta­to da Gian­ni Pari­si; fino allo splen­di­do Cen­cio, di Pie­tro Castel­lit­to, che ha il pote­re di spo­sta­re e atti­ra­re inset­ti in qual­sia­si dire­zio­ne. Infi­ne, Matil­de, Auro­ra Gio­vi­naz­zo, è il vero moto­re di Freaks Out. Una carat­te­riz­za­zio­ne per­fet­ta da par­te del regi­sta e un’interpretazione talen­tuo­sa e com­ple­ta che segna il filo con­dut­to­re dell’intera pel­li­co­la.

Matil­de, come Enzo Cec­cot­ti in Jeeg Robot e Mat­teo in Tiger Boy, fan­no par­te del­la stes­sa clas­se di inet­ti che que­sto mon­do rifiu­ta, rele­ga ai mar­gi­ni. Assog­get­ta­ti a una socie­tà sem­pre più imper­so­na­le, cini­ca e inet­ta si sen­to­no incom­pre­si e non pos­so­no che rifu­giar­si die­tro la loro masche­ra da supe­re­roe. Mai­net­ti gio­ca su que­sta via d’uscita meta­fo­ri­ca, ama pre­pa­rar­ci, sa che al gior­no d’oggi per usci­re da deter­mi­na­te situa­zio­ni occor­re ave­re dei “super­po­te­ri”.

Nell’iconografia comics non può man­ca­re il vil­lain, Franz (Franz Rogo­w­ski), cele­bre pia­ni­sta con sei dita, pro­prie­ta­rio del Zir­cus Ber­lin, un pro­get­to fati­scen­te, degno del­la pro­pa­gan­da del Ter­zo Reich, che regi­stra il tut­to esau­ri­to ad ogni even­to. Franz, dipen­den­te dall’etere, attra­ver­so i sogni rie­sce a pre­ve­de­re il futu­ro: la Ger­ma­nia per­de­rà la guer­ra, Hitler si sui­ci­de­rà e saran­no tut­ti pro­ces­sa­ti a Norim­ber­ga. Cer­che­rà così di sco­va­re i quat­tro supe­re­roi per arruo­lar­li nel­le trup­pe tede­sche cer­can­do di ribal­ta­re le sor­ti del­la guer­ra.

Il pro­lo­go è di altis­si­mo livel­lo e potrem­mo spen­der­vi lodi sen­za limi­ti. La pre­sen­ta­zio­ne del Cir­co­lo Mez­za­piot­ta ci immer­ge imme­dia­ta­men­te in una dimen­sio­ne fia­be­sca. L’introduzione dei pote­ri di ognu­no – otte­nu­ta sul­la base del­le dina­mi­che cir­cen­si – appa­re sen­za dub­bio ori­gi­na­lis­si­ma, oltre che par­ti­co­lar­men­te evo­ca­ti­va per le sue imma­gi­ni.

Que­sta pri­ma sce­na dura­tu­ra, den­sa, impec­ca­bi­le in cui si intro­du­co­no le dina­mi­che che faran­no da cor­ni­ce a tut­to il film, è un evi­den­te richia­mo a Inglo­rious Basterds di Quen­tin Taran­ti­no: l’occupazione tede­sca come cin­tu­ra di un mon­do che pro­va ad anda­re avan­ti, ma ine­vi­ta­bil­men­te si scon­tra con la cru­da real­tà del secon­do con­flit­to mon­dia­le. In una guer­ra non ci sono vin­ci­to­ri. Solo scon­fit­ti.

Nel film di Taran­ti­no la quie­te del­le dol­ci cam­pa­gne fran­ce­si vie­ne inter­rot­ta dal­la visi­ta del Colon­nel­lo del­le SS Hans Lan­da, in cer­ca di una fami­glia ebrea, i Drey­fus, che sospet­ta tro­vi rifu­gio pres­so la fat­to­ria del signor LaPa­di­te. I col­pi di fuci­le dei sol­da­ti tede­schi destrut­tu­re­ran­no l’armonia crea­ta­si fino a quel momen­to. In Freaks Out l’evento scon­vol­gen­te che detur­pa l’equilibrio fia­be­sco è sca­te­na­to dal­le bom­be che squar­cia­no i ten­do­ni del Cir­co Mez­za­piot­ta, pro­vo­can­do la mor­te dei gran par­te dei pre­sen­ti. In que­sto pre­ci­so momen­to Mai­net­ti rie­sce a rapi­re lo spet­ta­to­re cata­pul­tan­do­lo – attra­ver­so la tec­ni­ca dell’ocularizzazione ester­na — nel­la tra­gi­ci­tà di un bom­bar­da­men­to. I con­ti­nui ribal­ta­men­ti del­la came­ra descri­vo­no l’esplosione come una del­le sce­ne più pre­zio­se dell’intera ope­ra cine­ma­to­gra­fi­ca.

In que­sto secon­do lun­go­me­trag­gio, però, Mai­net­ti si distac­ca volon­ta­ria­men­te dal­le dina­mi­che sto­ri­co-ideo­lo­gi­che del­la guer­ra, cer­can­do di inqua­dra­re il tut­to in una cor­ni­ce fis­sa, dif­fe­ren­zian­do­si per il resto del film da Inglo­rious Basterds. Sì, per­ché Mai­net­ti e Gua­glio­ne sem­bra­no con­fer­ma­re la loro pre­di­le­zio­ne per le sto­rie dei per­so­nag­gi a disca­pi­to di una visio­ne mera­men­te poli­ti­ca del­la vicen­da. Tut­to ciò si riflet­te nei freaks, che inve­ce di sfrut­ta­re i loro pote­ri per deci­de­re le sor­ti del con­flit­to, riman­go­no foca­liz­za­ti nel­la loro dimen­sio­ne di accat­to­ni e “scher­zi del­la natu­ra”, inca­pa­ci di redi­mer­si da una socie­tà in com­ple­to sman­tel­la­men­to.

Il rea­li­smo magi­co che accom­pa­gna la nar­ra­zio­ne è per­fet­to in ogni suo ele­men­to e con­sa­cra il cine­ma di Mai­net­ti, che a dispet­to dei più con­si­de­ro rivo­lu­zio­na­rio riu­scen­do nell’intento di dar voce agli ulti­mi. Com­pi­to tra i più ardi.

Uni­ca pec­ca, la secon­da par­te del film risul­ta esse­re trop­po pom­po­sa, len­ta, qua­si un eser­ci­zio di sti­le fine a sé stes­so. Ma si può rim­pro­ve­ra­re a un inna­mo­ra­to tan­ta atten­zio­ne per l’oggetto del suo amo­re? Non è for­se que­sto che chie­dia­mo quan­do ci immer­gia­mo nel buio del­la sala? Se non fac­cia­mo la doman­da, non avre­mo rispo­sta. Tut­to qui.

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