Michele: Ciao Giorgio, ti ho visto in biblioteca stamattina, cosa stavi leggendo?
Giorgio: Eraclito…
Michele: E cosa ne pensi?
Giorgio: Non ho voglia di parlarne con te.
Michele: Per quale motivo, mio caro?
Giorgio: Non è bello dialogare con te, non sei un buon interlocutore.
Michele: Mi dispiace molto che tu dica questo…sai bene che per me non c’è attività più bella che discorrere; mi capita anche, spesso e volentieri, di fare le ore piccole passando a discutere con gli amici.
Giorgio: Tuttavia non ne sei capace…dovresti trovarti un altro intrattenimento forse.
Michele: Mi dispiace. Ma in che cosa sono incapace?
Giorgio: Davvero non te ne rendi conto tu stesso?
Michele: No, te lo giuro. Il mio amore per i discorsi mi acceca, non permettendomi di avere uno sguardo distaccato e critico sulla maniera in cui li conduco.
Giorgio: Sì sì. Il punto è che interrompi sempre il tuo interlocutore. Ogni volta che provo a dirti quello che penso, non mi lasci nemmeno due minuti che subito mi interrompi. È frustrante, ma non te ne voglio. È un problema generalizzato della nostra società: non si è più capaci di ascoltare.
Michele: Scusa Giorgio, non pensavo che tu stessi praticando la tua rinomata ironia.
Giorgio: Ma di quale ironia parli?
Michele: Ma come? Hai iniziato accusandomi per un difetto, ma te ne esci sottolineando una mia qualità.
Giorgio: Per te interrompere è forse una qualità?
Michele: Non è lo stesso per te?
Giorgio: Sei ridicolo.
Michele: Ma come? Pensi forse che lasciar parlare il proprio interlocutore indefinitamente sia una virtù?
Giorgio: Virtù è una parola importante, direi un semplice gesto di civiltà?
Michele: Giorgio, il gioco è bello finché dura poco e l’ironia, una volta smascherata, perde la sua efficacia.
Giorgio: Ma finiscila! Io non sto scherzando, è un atteggiamento che non sopporto da parte tua.
Michele: Quindi sei serio…Ebbene, dovrò dimostrarti allora che hai torto ed io ragione.
Giorgio: E puoi anche dimostrare che un cerchio ha gli angoli retti…Lo sanno tutti che è sbagliato interrompere, perché devi ancora una volta essere testardo. Fin dalla scuola elementare s’insegna che bisogna ascoltare l’altro finché non ha finito di parlare. Forse “grazie” al tuo genio hai saltato le classi elementari.
Michele: No affatto, mi ricordo di averlo spesso sentito. Ma non mi ha mai persuaso come tesi.
Giorgio: Ma l’hai ascoltata fino in fondo o hai ogni volta interrotto chi la sosteneva?
Michele: Oh finalmente ritorni alla tua ironia. Trovo che ti si addica meglio rispetto al risentimento, ti ammorbidisce.
Giorgio: Come vuoi, comunque non ho voglia di parlare con te, scusami la cortesia.
Michele: Ma te ne prego. Lo sai che sono insonne.
Giorgio: Che c’entra l’insonnia?
Michele: Come che c’entra? Tutto c’entra. Sai bene che, quando una questione mi assilla, non riesco ad addormentarmi finché non l’ho risolta. È come in estate quando vieni svegliato dal ronzare di una zanzara, e non riesci ad addormentarti prima di averla schiacciata, perché quel zzz nell’orecchio ti infastidisce a tal punto che anche il sonno più pesante è rotto. La stessa cosa avviene per me quando penso ad un’ipotesi: finché non l’ho schiacciata con argomenti e controargomenti, non mi do pace. E non solo non riesco a dormire, ma nemmeno a vegliare, perché sebbene io abbia gli occhi aperti, non sono presente là dove mi trovo, ma rigiro la questione in tutti i sensi. Aiutami dunque, perché è sera e presto dovrò andare a letto.
Giorgio: Sei strano e fastidioso, tu stesso simile ad una zanzara.
Michele: Allora ti svelo l’antidoto per cacciarmi: dimostrami perché non bisogna interrompere.
Giorgio: È molto semplice; per utilizzare un’espressione filosofica, diciamo: il vero è l’intero.
Michele: Intendi dire che il senso di quello che è detto prima può essere chiarito soltanto ascoltando quello che viene dopo?
Giorgio: Sì, se solo si fosse capaci di ascoltare.
Michele: Ma dimmi, quando esponi un tuo discorso, tu metti prima le premesse o le conseguenze?
Giorgio: Le premesse è ovvio, lo dice pure il termine, pre-messe.
Michele: Ma quando non si è d’accordo con una o alcune di queste premesse, che senso ha ascoltare le conclusioni? Non è forse meglio chiedere spiegazione, interrompendo l’oratore, di tali premesse? Non bisogna, insomma, cercare di comprendere perché una certa premessa “p” è stata detta, che cosa permetta di dirla, che cosa significa il fatto stesso di dirla?
Giorgio: Non capisci, un discorso trae la propria bellezza ed efficacia dalla fluidità con cui viene detto; ma vabbè, queste sono cose che tu non puoi tanto bene capire, perché non ti curi dell’arte della parola.
Michele: No infatti. Ma dimmi, perché forse dobbiamo prendere il problema all’origine, qual è la ragione che ti spinge a fare un discorso?
Giorgio: Voglio esprimermi, ovviamente.
Michele: Vuoi esprimerti…Fammi capire: ti interessa oggettivare la tua soggettività?
Giorgio: Ma che significa? Sii meno ricercato, non ho tanto tempo da perdere.
Michele: Scusa, errore mio. Se non sbaglio, l’espressione è una sorta di traduzione.
Giorgio: Non credo, ma continua…
Michele: Che cosa significa tradurre?
Giorgio: Trasportare un significato da una lingua ad un’altra.
Michele: Questa è la definizione per il senso specifico di traduzione, ovvero la traduzione linguistica. Ma capisci bene che la traduzione può averne uno anche più generale.
Giorgio: In effetti. Dal latino traducere, condurre da un punto all’altro.
Michele: Esatto. E la traduzione linguistica è dunque un caso particolare del concetto più generale di traduzione.
Giorgio: Sì.
Michele: Ora, è in questo senso più generale di traduzione che si situa anche la cosiddetta espressione.
Giorgio: In che modo?
Michele: Anche l’espressione è l’attività attraverso la quale si conduce qualcosa da un punto ad un altro. Questo qualcosa viene ad essere un significato e tali punti saranno il pensiero (come punto di partenza) e la frase espressa (come punto di arrivo). L’espressione, dunque, è l’attività tramite la quale oggettiviamo (in una frase) la nostra soggettività (un pensiero). E, se ci pensi bene, l’espressione è l’analoga speculare della comprensione: in questo caso, infatti, il punto di partenza sarà l’oggettività del testo, e il punto di arrivo la soggettività del nostro pensiero.
Giorgio: Tutto questo per dire?
Michele: Sei tu che hai parlato di espressione. Hai detto che per te bisogna lasciar finire di parlare le persone, perché il loro obiettivo è esprimersi. Bisognava dunque mettersi d’accordo su che cosa intendiamo con espressione, altrimenti avremmo svolto due discorsi paralleli. Vedi, già così abbiamo dimostrato empiricamente l’utilità dell’interruzione. Se io non ti avessi interrotto, e avessi lasciato che il fiume in piena del tuo discorso corresse senza argini, non ci saremmo messi d’accordo su questo significato dell’espressione, e non avremmo mai raggiunto un risultato che, mi auguro, sarà comune. Ma ora dobbiamo continuare, e dopo la prova empirica dobbiamo fornirne una teorica.
Giorgio: Come vuoi.
Michele: Voglio così: dimmi, ha per te qualche senso esprimersi senza un interlocutore?
Giorgio: Sì.
Michele: Ma come? Abbiamo appena detto che il principio dell’espressione è rendere oggettivo ciò che è soggettivo. O, detto altrimenti, rendere esterno ciò che è interno. Ma se non vi è nessuno davanti al quale ci esprimiamo, allora a che scopo esternare ciò a cui abbiamo già accesso internamente?
Giorgio: …
Michele: Non rispondi?
Giorgio: Non so cosa dirti.
Michele: Dimmi se sei d’accordo con questo: parleresti ad un sordo o, come è di moda dire adesso, a un non-udente?
Giorgio: Ovviamente no.
Michele: Perché?
Giorgio: Perché non potrebbe sentire, quindi parlare non avrebbe alcun senso.
Michele: Per cui sarai d’accordo con me nel dire che la condizione necessaria per esprimersi, cioè per operare quella traduzione che esterna il pensiero, è che vi sia qualcuno, là fuori, che possa recepirla. Questo qualcuno, poi, può essere anche solo virtuale, può essere Dio, un demone o quello che vuoi. Ma dev’esserci, insomma, un ens interpretans a cui, tramite l’oggettivazione del nostro pensiero, glielo comunichiamo.
Giorgio: Va bene.
Michele: Però, perché comunicazione si dia, è necessario che l’oggettivazione rispetti certe regole: da un lato, bisogna che questa sia fedele alla soggettivazione che vuole esprimere ma, dall’altro, che sia comprensibile, cioè tradotta in senso inverso dell’espressione, da questa alterità alla quale ci rivolgiamo.
Giorgio: Quindi? Mi sembra che tu stia mettendo una dopo l’altra una serie di banalità.
Michele: Quindi, e passo sulle provocazioni, se il nostro interlocutore c’interrompe, è perché la possibilità della comprensione è venuta meno. Per salvare l’espressione, bisogna innanzitutto fare in modo di salvare la comprensione, perché questa è la condizione necessaria di quella…anzi, ne è proprio lo scopo. Per cui, dobbiamo rispondere ad ogni obiezione fatta dal nostro interlocutore, se questa ovviamente non è fatta in malafede. Perché queste obiezioni sono un tentativo per ripristinare il legame di traduzione che è venuto meno. Quod erat demonstrandum.
Giorgio: Che cosa intendi con obiezioni in malafede?
Michele: Intendo quelle interruzioni che non sono finalizzate ad un maggior grado di comprensibilità, ma soltanto a mettere in difficoltà l’interlocutore.
Giorgio: Per esempio quelle pedanti?
Michele: Non per forza. Anche le interruzioni pedanti possono avere un’utilità.
Giorgio: Fammi un esempio.
Michele: Lasciami pensare…Bene, immaginati qualcuno completamente ignorante in filosofia, che segue una lezione su Parmenide. Giunto alla celebre frase “l’essere è e non può non essere”, può interrompere e chiedere se questa frase abbia qualche legame con quella di Shakespeare, “essere o non essere…”. È chiaro che il legame non esiste. E può sembrare che il suo intervento sia stato pedante, volto unicamente a mostrare che egli conosce Shakespeare, e in parte forse lo è pure stato…Tuttavia, ha una sua utilità, perché alla risposta da parte del professore che i due autori non hanno niente in comune, il pedante viene liberato da un errore.
Giorgio: Ho capito.
Michele: E il mio esempio è di tipo negativo. Positivamente può avvenire la stessa cosa: grazie ad un intervento pedante, ma appropriato e confermato dall’interlocutore — diversamente dall’accostamento di Parmenide e Shakespeare che è del tutto inappropriato — la persona pedante può assicurarsi di seguire la giusta via di comprensione di quello che gli sta dicendo il suo interlocutore.
Giorgio: Prima cerchi di dimostrare che è giusto interrompere una persona che parla, poi che i pedanti non hanno tutti i torti ad esserlo. Hai uno smisurato amore per i paradossi. Comunque, cosa intendi, allora, con interruzioni in malafede?
Michele: Come ti dicevo, le interruzioni che non producono alcuna aggiunta di chiarezza, ma solo la difficoltà dell’oratore. Per esempio, immaginati qualcuno che sta facendo un discorso serio, dove cerca di trasmettere al suo interlocutore il proprio pensiero e che, dopo tanto parlare, come spesso avviene all’orale, commetta un pleonasmo grammaticale, del tipo “ma però…” oppure “a me mi…”, e che l’altro, ridendo superbamente, lo interrompa dicendogli: “ma però non si dice”. Ecco questo sarebbe in malafede e ridicolo. In malafede, perché l’interruzione non è volta a comprendere meglio quello che l’altro cerca di dirci, e ridicola, perché si fraintende che l’errore non è dovuto all’ignoranza della grammatica da parte di colui che commette l’errore, bensì all’oralità della parlata.
Giorgio: D’accordo. Comunque credo di aver capito dov’è che noi due divergiamo. Tu hai creduto, quando ho parlato di espressione, che io stessi parlando di comunicazione. Mi sa addirittura che ad un certo punto ne hai parlato tu stesso. Ma a me non interessa comunicare un bel niente, né insegnare ad altri quello che penso, ma soltanto manifestare il mio pensiero attraverso la parola.
Michele: Ha proprio ragione il mio amico Mario, quando dice che al nostro tempo viviamo una crisi della presenza. Ma fammi capire meglio.
Giorgio: Per me l’altro a cui parlo è solo un pretesto. Quello che in realtà mi interessa, è esercitarmi a parlare. L’altro mi serve sì, ma come ausilio per verificare se sono all’altezza, se sono insomma capace di compiere dei bei discorsi. A me educare l’altro con i miei discorsi non interessa proprio.
Michele: E perché vuoi comporre dei bei discorsi?
Giorgio: Te lo dirò. Sai, a differenza di molti, che sentono il bisogno di indossare maschere, di apparire umili e modesti, io non ho paura ad essere onesto. Innanzitutto, devo dire che mi importa soltanto del mio ego. Chiamami pure egoista, non m’importa, lo sei anche tu, solo che menti, a te e agli altri. Detto questo, c’è un duplice problema. Il mio ego non è assoluto, nel senso che è limitato, possiamo dire, spazialmente e temporalmente. Spazialmente è limitato dagli ego degli altri, temporalmente dalla morte. Ecco perché sono alla ricerca di due rimedi, per espandere il più possibile la mia potenza: da un lato l’onore, dall’altro la gloria. Con la prima vinco sugli altri oggi, con la seconda vinco la morte domani. Insomma, per me esprimermi non significa comunicare un pensiero, ma espandere il mio io.
Michele: Il parlar franco come si suole dire. Lo apprezzo molto, tuttavia non mi sembra che sia un argomento in tuo favore. Va piuttosto nel mio senso.
Giorgio: No, affatto, perché se sono interrotto quando parlo, non ho la possibilità di espandermi attraverso la parola.
Michele: Aspetta. Il tuo obiettivo, se ho capito bene, è vivere e sopravvivere negli altri.
Giorgio: Sì.
Michele: Concentriamoci su quella che tu hai chiamato gloria e che tu ricerchi quando ti esprimi.
Giorgio: Perché non anche sull’onore?
Michele: Perché l’onore fa parte della gloria (per lo meno nei tuoi termini): infatti l’onore è un vivere negli altri, e la gloria è un sopravvivere negli altri, giusto?
Giorgio: Sì.
Michele: Ma se si sopravvive negli altri, si vive anche in essi, giusto?
Giorgio: Giusto.
Michele: Quindi, quello che diremo relativamente alla gloria vale anche per l’onore, perché l’onore è una forma di gloria, semplicemente mutilata dell’eternità.
Giorgio: Va bene.
Michele: Ebbene, tu dici che, esprimendoti, ricerchi non già di comunicare o di educare qualcuno, bensì soltanto di ottenere la gloria grazie ai tuoi discorsi.
Giorgio: Sì.
Michele: Quindi dobbiamo reimpostare il problema e chiederci, relativamente all’espressione, qual è il tipo di espressione che è maggiormente capace di procurarci la gloria, cioè il sopravvivere negli altri?
Giorgio: La macrologia a mio avviso. Cioè un discorso lungo, ben costruito, ricco di giochi di parole e figure retoriche. Questo discorso però è fragile, e si sgretola se sottomesso a interruzioni e domande.
Michele: Però aspetta, dimmi solo una cosa, per insegnare qualcosa a qualcuno, quale forma di discorso, la macrologia oppure la brachilogia, ti sembra la più adatta, la più efficiente?
Giorgio: Ma se ti ho detto che il mio scopo non è quello di insegnare…
Michele: No no lo so, ho capito, ma rispondi comunque.
Giorgio: Ebbene, in questo caso sarebbe effettivamente l’opposto della macrologia, ovvero un discorso breve e conciso, che potremmo nominare “brachilogia”, per gli argomenti che hai esposto prima, in quella tua insopportabile argomentazione sulla traduzione, l’espressione, la comprensione…È chiaro che se il tuo allievo non capisce quello che gli stai dicendo, non può imparare un bel nulla. Ed è chiaro altresì che il miglior modo per capire — e per capire se si sta capendo — è verificare tramite delle interruzioni dialettiche le premesse e le conclusioni del nostro interlocutore.
Michele: Molto bene. Ora, dunque, dobbiamo stabilire se, al fine di raggiungere quello scopo egoistico che ti prefiggi, ovvero la gloria tramite i discorsi, non sia vantaggioso insegnare. Se così fosse, allora sarebbe chiaro che la brachilogia è da preferirsi alla macrologia.
Giorgio: Ovviamente non è così. L’insegnamento ha scopi altruistici, perché per l’appunto, come dicevamo prima, ci si interessa alla comprensione del proprio allievo. Quando s’insegna, si pensa innanzitutto all’altro…
Michele: Si pensa all’altro…ma con quale obiettivo?
Giorgio: È ovvio, perché egli comprenda.
Michele: Ma comprenda cosa?
Giorgio: Come abbiamo detto prima, comprenda la nostra espressione.
Michele: E prima abbiamo detto che comprendere significa interiorizzare un’esteriorità.
Giorgio: Sì.
Michele: E l’espressione cosa abbiamo stabilito che fosse?
Giorgio: La traduzione oggettiva della nostra soggettività.
Michele: Dunque l’espressione è solo il tramite attraverso cui si desidera che l’altro interiorizzi la nostra soggettività.
Giorgio: Così pare.
Michele: Ma allora, quando si educa qualcuno, ciò che stiamo facendo altro non è se non interiorizzare nell’altro il nostro io.
Giorgio: …
Michele: Perché taci? Non vuoi trarre le conclusioni di quello che stiamo dicendo? Lo farò io allora: pensare all’altro invece che a sé stessi è in realtà un modo per salvare sé stessi attraverso la gloria, anzi è il modo più efficace; educando l’altro, infatti, si scolpisce la sua anima. E come in ogni statua è riscontrabile la soggettività dell’artista, così in ogni discepolo è possibile rintracciare la soggettività del mentore che ha contribuito a formarlo. Invece pensare a sé stessi direttamente produce uno scarso salvataggio di sé. La brachilogia dialettica, essendo la vera pedagogia, è il vero modo per salvare sé stessi, attraverso l’altro. La macrologia, dal canto suo, per quanto mossa da estrema vanità, non permette la sopravvivenza dell’oratore nell’altro tramite il discorso, perché non produce alcun insegnamento nell’interlocutore, che è solo uno specchio che rinvia il discorso all’oratore stesso, che si autocompiace. La vera gloria, pertanto, la si ottiene educando, mentre la macrologia produce soltanto vanagloria. Il vero egoismo, insomma, deve mascherarsi di altruismo.
Giorgio: Sono affascinato dalle tue capriole dialettiche.
Michele: Aspetta, perché non abbiamo finito: preparati ad un’altra capriola.
Giorgio: Pure.
Michele: A riprova del fatto che l’egoismo può realizzarsi soltanto attraverso una grande prova di altruismo, ti chiedo: qual è, secondo te, la più alta forma di altruismo?
Giorgio: Non saprei, forse l’amore.
Michele: Ma qualsiasi amore?
Giorgio: No, certo; solo quello nel quale l’amante si sacrifica, o è disposto a sacrificarsi, per il proprio amato.
Michele: Per esempio, vuoi dire il caso di Achille che, per vendicare Patroclo, va incontro al suo destino di morte, di cui pure era ben conscio, uccidendo Ettore?
Giorgio: Sì, e questo esempio è scelto a pennello, perché non solo Achille va incontro a morte sicura per il suo amante — perché il destino è ineluttabile- ma in più lo fa non già per salvare Patroclo, perché questi era già morto, ma soltanto per salvare il suo onore.
Michele: Però sai meglio di me che il destino di Achille non diceva soltanto che se fosse tornato in battaglia avrebbe trovato la morte, ma anche la gloria eterna, mentre sarebbe morto in patria di morte naturale, ma dimenticato, se si fosse astenuto.
Giorgio: È vero.
Michele: Dunque, ciò che lo ha spinto verso la morte, non è tanto l’amore per Patroclo, quanto la vanità e la ricerca di gloria. Per cui, se mai esiste un amore altruistico, non può trattarsi dell’eros greco. Dobbiamo cercare altrove.
Giorgio: Ebbene, l’agape cristiana.
Michele: Perché dici questo?
Giorgio: Perché Dio sacrifica se stesso, tramite suo figlio Cristo, dal peccato originale, ridonando all’uomo la speranza dell’altezza.
Michele: Vorrei qui compiere una seconda capriola dialettica, come dici tu. Pongo solo un dubbio, per ora, perché poi devo andare: ma se anche la sedicente altruistica agape cristiana altro non fosse che un tentativo di Dio di salvarsi, salvando l’uomo, dall’onta di aver prodotto quegli infami cosi con due gambe?
Giorgio: Non avevo dubbi che il tuo amore per il paradosso dovesse, presto o tardi, sfociare nel dissacrante.
Michele: Bisogna pur scherzare, ogni tanto.
Giorgio: Come ti pare…Dove vai ora?
Michele: A casa, vado a dormire, prima che altre zanzare non vengano a vendicare quella che ho appena schiacciato.
Michele: Ciao Giorgio, ti ho visto in biblioteca stamattina, cosa stavi leggendo?
Giorgio: Eraclito…
Michele: E cosa ne pensi?
Giorgio: Non ho voglia di parlarne con te.
Michele: Per quale motivo, mio caro?
Giorgio: Non è bello dialogare con te, non sei un buon interlocutore.
Michele: Mi dispiace molto che tu dica questo…sai bene che per me non c’è attività più bella che discorrere; mi capita anche, spesso e volentieri, di fare le ore piccole passando a discutere con gli amici.
Giorgio: Tuttavia non ne sei capace…dovresti trovarti un altro intrattenimento forse.
Michele: Mi dispiace. Ma in che cosa sono incapace?
Giorgio: Davvero non te ne rendi conto tu stesso?
Michele: No, te lo giuro. Il mio amore per i discorsi mi acceca, non permettendomi di avere uno sguardo distaccato e critico sulla maniera in cui li conduco.
Giorgio: Sì sì. Il punto è che interrompi sempre il tuo interlocutore. Ogni volta che provo a dirti quello che penso, non mi lasci nemmeno due minuti che subito mi interrompi. È frustrante, ma non te ne voglio. È un problema generalizzato della nostra società: non si è più capaci di ascoltare.
Michele: Scusa Giorgio, non pensavo che tu stessi praticando la tua rinomata ironia.
Giorgio: Ma di quale ironia parli?
Michele: Ma come? Hai iniziato accusandomi per un difetto, ma te ne esci sottolineando una mia qualità.
Giorgio: Per te interrompere è forse una qualità?
Michele: Non è lo stesso per te?
Giorgio: Sei ridicolo.
Michele: Ma come? Pensi forse che lasciar parlare il proprio interlocutore indefinitamente sia una virtù?
Giorgio: Virtù è una parola importante, direi un semplice gesto di civiltà?
Michele: Giorgio, il gioco è bello finché dura poco e l’ironia, una volta smascherata, perde la sua efficacia.
Giorgio: Ma finiscila! Io non sto scherzando, è un atteggiamento che non sopporto da parte tua.
Michele: Quindi sei serio…Ebbene, dovrò dimostrarti allora che hai torto ed io ragione.
Giorgio: E puoi anche dimostrare che un cerchio ha gli angoli retti…Lo sanno tutti che è sbagliato interrompere, perché devi ancora una volta essere testardo. Fin dalla scuola elementare s’insegna che bisogna ascoltare l’altro finché non ha finito di parlare. Forse “grazie” al tuo genio hai saltato le classi elementari.
Michele: No affatto, mi ricordo di averlo spesso sentito. Ma non mi ha mai persuaso come tesi.
Giorgio: Ma l’hai ascoltata fino in fondo o hai ogni volta interrotto chi la sosteneva?
Michele: Oh finalmente ritorni alla tua ironia. Trovo che ti si addica meglio rispetto al risentimento, ti ammorbidisce.
Giorgio: Come vuoi, comunque non ho voglia di parlare con te, scusami la cortesia.
Michele: Ma te ne prego. Lo sai che sono insonne.
Giorgio: Che c’entra l’insonnia?
Michele: Come che c’entra? Tutto c’entra. Sai bene che, quando una questione mi assilla, non riesco ad addormentarmi finché non l’ho risolta. È come in estate quando vieni svegliato dal ronzare di una zanzara, e non riesci ad addormentarti prima di averla schiacciata, perché quel zzz nell’orecchio ti infastidisce a tal punto che anche il sonno più pesante è rotto. La stessa cosa avviene per me quando penso ad un’ipotesi: finché non l’ho schiacciata con argomenti e controargomenti, non mi do pace. E non solo non riesco a dormire, ma nemmeno a vegliare, perché sebbene io abbia gli occhi aperti, non sono presente là dove mi trovo, ma rigiro la questione in tutti i sensi. Aiutami dunque, perché è sera e presto dovrò andare a letto.
Giorgio: Sei strano e fastidioso, tu stesso simile ad una zanzara.
Michele: Allora ti svelo l’antidoto per cacciarmi: dimostrami perché non bisogna interrompere.
Giorgio: È molto semplice; per utilizzare un’espressione filosofica, diciamo: il vero è l’intero.
Michele: Intendi dire che il senso di quello che è detto prima può essere chiarito soltanto ascoltando quello che viene dopo?
Giorgio: Sì, se solo si fosse capaci di ascoltare.
Michele: Ma dimmi, quando esponi un tuo discorso, tu metti prima le premesse o le conseguenze?
Giorgio: Le premesse è ovvio, lo dice pure il termine, pre-messe.
Michele: Ma quando non si è d’accordo con una o alcune di queste premesse, che senso ha ascoltare le conclusioni? Non è forse meglio chiedere spiegazione, interrompendo l’oratore, di tali premesse? Non bisogna, insomma, cercare di comprendere perché una certa premessa “p” è stata detta, che cosa permetta di dirla, che cosa significa il fatto stesso di dirla?
Giorgio: Non capisci, un discorso trae la propria bellezza ed efficacia dalla fluidità con cui viene detto; ma vabbè, queste sono cose che tu non puoi tanto bene capire, perché non ti curi dell’arte della parola.
Michele: No infatti. Ma dimmi, perché forse dobbiamo prendere il problema all’origine, qual è la ragione che ti spinge a fare un discorso?
Giorgio: Voglio esprimermi, ovviamente.
Michele: Vuoi esprimerti…Fammi capire: ti interessa oggettivare la tua soggettività?
Giorgio: Ma che significa? Sii meno ricercato, non ho tanto tempo da perdere.
Michele: Scusa, errore mio. Se non sbaglio, l’espressione è una sorta di traduzione.
Giorgio: Non credo, ma continua…
Michele: Che cosa significa tradurre?
Giorgio: Trasportare un significato da una lingua ad un’altra.
Michele: Questa è la definizione per il senso specifico di traduzione, ovvero la traduzione linguistica. Ma capisci bene che la traduzione può averne uno anche più generale.
Giorgio: In effetti. Dal latino traducere, condurre da un punto all’altro.
Michele: Esatto. E la traduzione linguistica è dunque un caso particolare del concetto più generale di traduzione.
Giorgio: Sì.
Michele: Ora, è in questo senso più generale di traduzione che si situa anche la cosiddetta espressione.
Giorgio: In che modo?
Michele: Anche l’espressione è l’attività attraverso la quale si conduce qualcosa da un punto ad un altro. Questo qualcosa viene ad essere un significato e tali punti saranno il pensiero (come punto di partenza) e la frase espressa (come punto di arrivo). L’espressione, dunque, è l’attività tramite la quale oggettiviamo (in una frase) la nostra soggettività (un pensiero). E, se ci pensi bene, l’espressione è l’analoga speculare della comprensione: in questo caso, infatti, il punto di partenza sarà l’oggettività del testo, e il punto di arrivo la soggettività del nostro pensiero.
Giorgio: Tutto questo per dire?
Michele: Sei tu che hai parlato di espressione. Hai detto che per te bisogna lasciar finire di parlare le persone, perché il loro obiettivo è esprimersi. Bisognava dunque mettersi d’accordo su che cosa intendiamo con espressione, altrimenti avremmo svolto due discorsi paralleli. Vedi, già così abbiamo dimostrato empiricamente l’utilità dell’interruzione. Se io non ti avessi interrotto, e avessi lasciato che il fiume in piena del tuo discorso corresse senza argini, non ci saremmo messi d’accordo su questo significato dell’espressione, e non avremmo mai raggiunto un risultato che, mi auguro, sarà comune. Ma ora dobbiamo continuare, e dopo la prova empirica dobbiamo fornirne una teorica.
Giorgio: Come vuoi.
Michele: Voglio così: dimmi, ha per te qualche senso esprimersi senza un interlocutore?
Giorgio: Sì.
Michele: Ma come? Abbiamo appena detto che il principio dell’espressione è rendere oggettivo ciò che è soggettivo. O, detto altrimenti, rendere esterno ciò che è interno. Ma se non vi è nessuno davanti al quale ci esprimiamo, allora a che scopo esternare ciò a cui abbiamo già accesso internamente?
Giorgio: …
Michele: Non rispondi?
Giorgio: Non so cosa dirti.
Michele: Dimmi se sei d’accordo con questo: parleresti ad un sordo o, come è di moda dire adesso, a un non-udente?
Giorgio: Ovviamente no.
Michele: Perché?
Giorgio: Perché non potrebbe sentire, quindi parlare non avrebbe alcun senso.
Michele: Per cui sarai d’accordo con me nel dire che la condizione necessaria per esprimersi, cioè per operare quella traduzione che esterna il pensiero, è che vi sia qualcuno, là fuori, che possa recepirla. Questo qualcuno, poi, può essere anche solo virtuale, può essere Dio, un demone o quello che vuoi. Ma dev’esserci, insomma, un ens interpretans a cui, tramite l’oggettivazione del nostro pensiero, glielo comunichiamo.
Giorgio: Va bene.
Michele: Però, perché comunicazione si dia, è necessario che l’oggettivazione rispetti certe regole: da un lato, bisogna che questa sia fedele alla soggettivazione che vuole esprimere ma, dall’altro, che sia comprensibile, cioè tradotta in senso inverso dell’espressione, da questa alterità alla quale ci rivolgiamo.
Giorgio: Quindi? Mi sembra che tu stia mettendo una dopo l’altra una serie di banalità.
Michele: Quindi, e passo sulle provocazioni, se il nostro interlocutore c’interrompe, è perché la possibilità della comprensione è venuta meno. Per salvare l’espressione, bisogna innanzitutto fare in modo di salvare la comprensione, perché questa è la condizione necessaria di quella…anzi, ne è proprio lo scopo. Per cui, dobbiamo rispondere ad ogni obiezione fatta dal nostro interlocutore, se questa ovviamente non è fatta in malafede. Perché queste obiezioni sono un tentativo per ripristinare il legame di traduzione che è venuto meno. Quod erat demonstrandum.
Giorgio: Che cosa intendi con obiezioni in malafede?
Michele: Intendo quelle interruzioni che non sono finalizzate ad un maggior grado di comprensibilità, ma soltanto a mettere in difficoltà l’interlocutore.
Giorgio: Per esempio quelle pedanti?
Michele: Non per forza. Anche le interruzioni pedanti possono avere un’utilità.
Giorgio: Fammi un esempio.
Michele: Lasciami pensare…Bene, immaginati qualcuno completamente ignorante in filosofia, che segue una lezione su Parmenide. Giunto alla celebre frase “l’essere è e non può non essere”, può interrompere e chiedere se questa frase abbia qualche legame con quella di Shakespeare, “essere o non essere…”. È chiaro che il legame non esiste. E può sembrare che il suo intervento sia stato pedante, volto unicamente a mostrare che egli conosce Shakespeare, e in parte forse lo è pure stato…Tuttavia, ha una sua utilità, perché alla risposta da parte del professore che i due autori non hanno niente in comune, il pedante viene liberato da un errore.
Giorgio: Ho capito.
Michele: E il mio esempio è di tipo negativo. Positivamente può avvenire la stessa cosa: grazie ad un intervento pedante, ma appropriato e confermato dall’interlocutore — diversamente dall’accostamento di Parmenide e Shakespeare che è del tutto inappropriato — la persona pedante può assicurarsi di seguire la giusta via di comprensione di quello che gli sta dicendo il suo interlocutore.
Giorgio: Prima cerchi di dimostrare che è giusto interrompere una persona che parla, poi che i pedanti non hanno tutti i torti ad esserlo. Hai uno smisurato amore per i paradossi. Comunque, cosa intendi, allora, con interruzioni in malafede?
Michele: Come ti dicevo, le interruzioni che non producono alcuna aggiunta di chiarezza, ma solo la difficoltà dell’oratore. Per esempio, immaginati qualcuno che sta facendo un discorso serio, dove cerca di trasmettere al suo interlocutore il proprio pensiero e che, dopo tanto parlare, come spesso avviene all’orale, commetta un pleonasmo grammaticale, del tipo “ma però…” oppure “a me mi…”, e che l’altro, ridendo superbamente, lo interrompa dicendogli: “ma però non si dice”. Ecco questo sarebbe in malafede e ridicolo. In malafede, perché l’interruzione non è volta a comprendere meglio quello che l’altro cerca di dirci, e ridicola, perché si fraintende che l’errore non è dovuto all’ignoranza della grammatica da parte di colui che commette l’errore, bensì all’oralità della parlata.
Giorgio: D’accordo. Comunque credo di aver capito dov’è che noi due divergiamo. Tu hai creduto, quando ho parlato di espressione, che io stessi parlando di comunicazione. Mi sa addirittura che ad un certo punto ne hai parlato tu stesso. Ma a me non interessa comunicare un bel niente, né insegnare ad altri quello che penso, ma soltanto manifestare il mio pensiero attraverso la parola.
Michele: Ha proprio ragione il mio amico Mario, quando dice che al nostro tempo viviamo una crisi della presenza. Ma fammi capire meglio.
Giorgio: Per me l’altro a cui parlo è solo un pretesto. Quello che in realtà mi interessa, è esercitarmi a parlare. L’altro mi serve sì, ma come ausilio per verificare se sono all’altezza, se sono insomma capace di compiere dei bei discorsi. A me educare l’altro con i miei discorsi non interessa proprio.
Michele: E perché vuoi comporre dei bei discorsi?
Giorgio: Te lo dirò. Sai, a differenza di molti, che sentono il bisogno di indossare maschere, di apparire umili e modesti, io non ho paura ad essere onesto. Innanzitutto, devo dire che mi importa soltanto del mio ego. Chiamami pure egoista, non m’importa, lo sei anche tu, solo che menti, a te e agli altri. Detto questo, c’è un duplice problema. Il mio ego non è assoluto, nel senso che è limitato, possiamo dire, spazialmente e temporalmente. Spazialmente è limitato dagli ego degli altri, temporalmente dalla morte. Ecco perché sono alla ricerca di due rimedi, per espandere il più possibile la mia potenza: da un lato l’onore, dall’altro la gloria. Con la prima vinco sugli altri oggi, con la seconda vinco la morte domani. Insomma, per me esprimermi non significa comunicare un pensiero, ma espandere il mio io.
Michele: Il parlar franco come si suole dire. Lo apprezzo molto, tuttavia non mi sembra che sia un argomento in tuo favore. Va piuttosto nel mio senso.
Giorgio: No, affatto, perché se sono interrotto quando parlo, non ho la possibilità di espandermi attraverso la parola.
Michele: Aspetta. Il tuo obiettivo, se ho capito bene, è vivere e sopravvivere negli altri.
Giorgio: Sì.
Michele: Concentriamoci su quella che tu hai chiamato gloria e che tu ricerchi quando ti esprimi.
Giorgio: Perché non anche sull’onore?
Michele: Perché l’onore fa parte della gloria (per lo meno nei tuoi termini): infatti l’onore è un vivere negli altri, e la gloria è un sopravvivere negli altri, giusto?
Giorgio: Sì.
Michele: Ma se si sopravvive negli altri, si vive anche in essi, giusto?
Giorgio: Giusto.
Michele: Quindi, quello che diremo relativamente alla gloria vale anche per l’onore, perché l’onore è una forma di gloria, semplicemente mutilata dell’eternità.
Giorgio: Va bene.
Michele: Ebbene, tu dici che, esprimendoti, ricerchi non già di comunicare o di educare qualcuno, bensì soltanto di ottenere la gloria grazie ai tuoi discorsi.
Giorgio: Sì.
Michele: Quindi dobbiamo reimpostare il problema e chiederci, relativamente all’espressione, qual è il tipo di espressione che è maggiormente capace di procurarci la gloria, cioè il sopravvivere negli altri?
Giorgio: La macrologia a mio avviso. Cioè un discorso lungo, ben costruito, ricco di giochi di parole e figure retoriche. Questo discorso però è fragile, e si sgretola se sottomesso a interruzioni e domande.
Michele: Però aspetta, dimmi solo una cosa, per insegnare qualcosa a qualcuno, quale forma di discorso, la macrologia oppure la brachilogia, ti sembra la più adatta, la più efficiente?
Giorgio: Ma se ti ho detto che il mio scopo non è quello di insegnare…
Michele: No no lo so, ho capito, ma rispondi comunque.
Giorgio: Ebbene, in questo caso sarebbe effettivamente l’opposto della macrologia, ovvero un discorso breve e conciso, che potremmo nominare “brachilogia”, per gli argomenti che hai esposto prima, in quella tua insopportabile argomentazione sulla traduzione, l’espressione, la comprensione…È chiaro che se il tuo allievo non capisce quello che gli stai dicendo, non può imparare un bel nulla. Ed è chiaro altresì che il miglior modo per capire — e per capire se si sta capendo — è verificare tramite delle interruzioni dialettiche le premesse e le conclusioni del nostro interlocutore.
Michele: Molto bene. Ora, dunque, dobbiamo stabilire se, al fine di raggiungere quello scopo egoistico che ti prefiggi, ovvero la gloria tramite i discorsi, non sia vantaggioso insegnare. Se così fosse, allora sarebbe chiaro che la brachilogia è da preferirsi alla macrologia.
Giorgio: Ovviamente non è così. L’insegnamento ha scopi altruistici, perché per l’appunto, come dicevamo prima, ci si interessa alla comprensione del proprio allievo. Quando s’insegna, si pensa innanzitutto all’altro…
Michele: Si pensa all’altro…ma con quale obiettivo?
Giorgio: È ovvio, perché egli comprenda.
Michele: Ma comprenda cosa?
Giorgio: Come abbiamo detto prima, comprenda la nostra espressione.
Michele: E prima abbiamo detto che comprendere significa interiorizzare un’esteriorità.
Giorgio: Sì.
Michele: E l’espressione cosa abbiamo stabilito che fosse?
Giorgio: La traduzione oggettiva della nostra soggettività.
Michele: Dunque l’espressione è solo il tramite attraverso cui si desidera che l’altro interiorizzi la nostra soggettività.
Giorgio: Così pare.
Michele: Ma allora, quando si educa qualcuno, ciò che stiamo facendo altro non è se non interiorizzare nell’altro il nostro io.
Giorgio: …
Michele: Perché taci? Non vuoi trarre le conclusioni di quello che stiamo dicendo? Lo farò io allora: pensare all’altro invece che a sé stessi è in realtà un modo per salvare sé stessi attraverso la gloria, anzi è il modo più efficace; educando l’altro, infatti, si scolpisce la sua anima. E come in ogni statua è riscontrabile la soggettività dell’artista, così in ogni discepolo è possibile rintracciare la soggettività del mentore che ha contribuito a formarlo. Invece pensare a sé stessi direttamente produce uno scarso salvataggio di sé. La brachilogia dialettica, essendo la vera pedagogia, è il vero modo per salvare sé stessi, attraverso l’altro. La macrologia, dal canto suo, per quanto mossa da estrema vanità, non permette la sopravvivenza dell’oratore nell’altro tramite il discorso, perché non produce alcun insegnamento nell’interlocutore, che è solo uno specchio che rinvia il discorso all’oratore stesso, che si autocompiace. La vera gloria, pertanto, la si ottiene educando, mentre la macrologia produce soltanto vanagloria. Il vero egoismo, insomma, deve mascherarsi di altruismo.
Giorgio: Sono affascinato dalle tue capriole dialettiche.
Michele: Aspetta, perché non abbiamo finito: preparati ad un’altra capriola.
Giorgio: Pure.
Michele: A riprova del fatto che l’egoismo può realizzarsi soltanto attraverso una grande prova di altruismo, ti chiedo: qual è, secondo te, la più alta forma di altruismo?
Giorgio: Non saprei, forse l’amore.
Michele: Ma qualsiasi amore?
Giorgio: No, certo; solo quello nel quale l’amante si sacrifica, o è disposto a sacrificarsi, per il proprio amato.
Michele: Per esempio, vuoi dire il caso di Achille che, per vendicare Patroclo, va incontro al suo destino di morte, di cui pure era ben conscio, uccidendo Ettore?
Giorgio: Sì, e questo esempio è scelto a pennello, perché non solo Achille va incontro a morte sicura per il suo amante — perché il destino è ineluttabile- ma in più lo fa non già per salvare Patroclo, perché questi era già morto, ma soltanto per salvare il suo onore.
Michele: Però sai meglio di me che il destino di Achille non diceva soltanto che se fosse tornato in battaglia avrebbe trovato la morte, ma anche la gloria eterna, mentre sarebbe morto in patria di morte naturale, ma dimenticato, se si fosse astenuto.
Giorgio: È vero.
Michele: Dunque, ciò che lo ha spinto verso la morte, non è tanto l’amore per Patroclo, quanto la vanità e la ricerca di gloria. Per cui, se mai esiste un amore altruistico, non può trattarsi dell’eros greco. Dobbiamo cercare altrove.
Giorgio: Ebbene, l’agape cristiana.
Michele: Perché dici questo?
Giorgio: Perché Dio sacrifica se stesso, tramite suo figlio Cristo, dal peccato originale, ridonando all’uomo la speranza dell’altezza.
Michele: Vorrei qui compiere una seconda capriola dialettica, come dici tu. Pongo solo un dubbio, per ora, perché poi devo andare: ma se anche la sedicente altruistica agape cristiana altro non fosse che un tentativo di Dio di salvarsi, salvando l’uomo, dall’onta di aver prodotto quegli infami cosi con due gambe?
Giorgio: Non avevo dubbi che il tuo amore per il paradosso dovesse, presto o tardi, sfociare nel dissacrante.
Michele: Bisogna pur scherzare, ogni tanto.
Giorgio: Come ti pare…Dove vai ora?
Michele: A casa, vado a dormire, prima che altre zanzare non vengano a vendicare quella che ho appena schiacciato.