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Aprile
4 Aprile 2024

ELO­GIO DEL­L’IN­TER­RU­ZIO­NE

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Miche­le: Ciao Gior­gio, ti ho visto in biblio­te­ca sta­mat­ti­na, cosa sta­vi leg­gen­do?

Gior­gio: Era­cli­to…

Miche­le: E cosa ne pen­si?

Gior­gio: Non ho voglia di par­lar­ne con te.

Miche­le: Per qua­le moti­vo, mio caro?

Gior­gio: Non è bel­lo dia­lo­ga­re con te, non sei un buon inter­lo­cu­to­re.

Miche­le: Mi dispia­ce mol­to che tu dica questo…sai bene che per me non c’è atti­vi­tà più bel­la che discor­re­re; mi capi­ta anche, spes­so e volen­tie­ri, di fare le ore pic­co­le pas­san­do a discu­te­re con gli ami­ci.

Gior­gio: Tut­ta­via non ne sei capace…dovresti tro­var­ti un altro intrat­te­ni­men­to for­se.

Miche­le: Mi dispia­ce. Ma in che cosa sono inca­pa­ce?

Gior­gio: Dav­ve­ro non te ne ren­di con­to tu stes­so?

Miche­le: No, te lo giu­ro. Il mio amo­re per i discor­si mi acce­ca, non per­met­ten­do­mi di ave­re uno sguar­do distac­ca­to e cri­ti­co sul­la manie­ra in cui li con­du­co.

Gior­gio: Sì sì. Il pun­to è che inter­rom­pi sem­pre il tuo inter­lo­cu­to­re. Ogni vol­ta che pro­vo a dir­ti quel­lo che pen­so, non mi lasci nem­me­no due minu­ti che subi­to mi inter­rom­pi. È fru­stran­te, ma non te ne voglio. È un pro­ble­ma gene­ra­liz­za­to del­la nostra socie­tà: non si è più capa­ci di ascol­ta­re.

Miche­le: Scu­sa Gior­gio, non pen­sa­vo che tu stes­si pra­ti­can­do la tua rino­ma­ta iro­nia.

Gior­gio: Ma di qua­le iro­nia par­li?

Miche­le: Ma come? Hai ini­zia­to accu­san­do­mi per un difet­to, ma te ne esci sot­to­li­nean­do una mia qua­li­tà.

Gior­gio: Per te inter­rom­pe­re è for­se una qua­li­tà?

Miche­le: Non è lo stes­so per te?

Gior­gio: Sei ridi­co­lo.

Miche­le: Ma come? Pen­si for­se che lasciar par­la­re il pro­prio inter­lo­cu­to­re inde­fi­ni­ta­men­te sia una vir­tù?

Gior­gio: Vir­tù è una paro­la impor­tan­te, direi un sem­pli­ce gesto di civil­tà?

Miche­le: Gior­gio, il gio­co è bel­lo fin­ché dura poco e l’ironia, una vol­ta sma­sche­ra­ta, per­de la sua effi­ca­cia.

Gior­gio: Ma fini­sci­la! Io non sto scher­zan­do, è un atteg­gia­men­to che non sop­por­to da par­te tua.

Miche­le: Quin­di sei serio…Ebbene, dovrò dimo­strar­ti allo­ra che hai tor­to ed io ragio­ne.

Gior­gio: E puoi anche dimo­stra­re che un cer­chio ha gli ango­li retti…Lo san­no tut­ti che è sba­glia­to inter­rom­pe­re, per­ché devi anco­ra una vol­ta esse­re testar­do. Fin dal­la scuo­la ele­men­ta­re s’insegna che biso­gna ascol­ta­re l’altro fin­ché non ha fini­to di par­la­re. For­se “gra­zie” al tuo genio hai sal­ta­to le clas­si ele­men­ta­ri.

Miche­le: No affat­to, mi ricor­do di aver­lo spes­so sen­ti­to. Ma non mi ha mai per­sua­so come tesi.

Gior­gio: Ma l’hai ascol­ta­ta fino in fon­do o hai ogni vol­ta inter­rot­to chi la soste­ne­va?

Miche­le: Oh final­men­te ritor­ni alla tua iro­nia. Tro­vo che ti si addi­ca meglio rispet­to al risen­ti­men­to, ti ammor­bi­di­sce.

Gior­gio: Come vuoi, comun­que non ho voglia di par­la­re con te, scu­sa­mi la cor­te­sia.

Miche­le: Ma te ne pre­go. Lo sai che sono inson­ne.

Gior­gio: Che c’entra l’insonnia?

Miche­le: Come che c’entra? Tut­to c’entra. Sai bene che, quan­do una que­stio­ne mi assil­la, non rie­sco ad addor­men­tar­mi fin­ché non l’ho risol­ta. È come in esta­te quan­do vie­ni sve­glia­to dal ron­za­re di una zan­za­ra, e non rie­sci ad addor­men­tar­ti pri­ma di aver­la schiac­cia­ta, per­ché quel zzz nell’orecchio ti infa­sti­di­sce a tal pun­to che anche il son­no più pesan­te è rot­to. La stes­sa cosa avvie­ne per me quan­do pen­so ad un’ipotesi: fin­ché non l’ho schiac­cia­ta con argo­men­ti e con­tro­ar­go­men­ti, non mi do pace. E non solo non rie­sco a dor­mi­re, ma nem­me­no a veglia­re, per­ché seb­be­ne io abbia gli occhi aper­ti, non sono pre­sen­te là dove mi tro­vo, ma rigi­ro la que­stio­ne in tut­ti i sen­si. Aiu­ta­mi dun­que, per­ché è sera e pre­sto dovrò anda­re a let­to.

Gior­gio: Sei stra­no e fasti­dio­so, tu stes­so simi­le ad una zan­za­ra.

Miche­le: Allo­ra ti sve­lo l’antidoto per cac­ciar­mi: dimo­stra­mi per­ché non biso­gna inter­rom­pe­re.

Gior­gio: È mol­to sem­pli­ce; per uti­liz­za­re un’espressione filo­so­fi­ca, dicia­mo: il vero è l’intero.

Miche­le: Inten­di dire che il sen­so di quel­lo che è det­to pri­ma può esse­re chia­ri­to sol­tan­to ascol­tan­do quel­lo che vie­ne dopo?

Gior­gio: Sì, se solo si fos­se capa­ci di ascol­ta­re.

Miche­le: Ma dim­mi, quan­do espo­ni un tuo discor­so, tu met­ti pri­ma le pre­mes­se o le con­se­guen­ze?

Gior­gio: Le pre­mes­se è ovvio, lo dice pure il ter­mi­ne, pre-mes­se.

Miche­le: Ma quan­do non si è d’accordo con una o alcu­ne di que­ste pre­mes­se, che sen­so ha ascol­ta­re le con­clu­sio­ni? Non è for­se meglio chie­de­re spie­ga­zio­ne, inter­rom­pen­do l’oratore, di tali pre­mes­se? Non biso­gna, insom­ma, cer­ca­re di com­pren­de­re per­ché una cer­ta pre­mes­sa “p” è sta­ta det­ta, che cosa per­met­ta di dir­la, che cosa signi­fi­ca il fat­to stes­so di dir­la?

Gior­gio: Non capi­sci, un discor­so trae la pro­pria bel­lez­za ed effi­ca­cia dal­la flui­di­tà con cui vie­ne det­to; ma vab­bè, que­ste sono cose che tu non puoi tan­to bene capi­re, per­ché non ti curi dell’arte del­la paro­la.

Miche­le: No infat­ti. Ma dim­mi, per­ché for­se dob­bia­mo pren­de­re il pro­ble­ma all’origine, qual è la ragio­ne che ti spin­ge a fare un discor­so?

Gior­gio: Voglio espri­mer­mi, ovvia­men­te.

Miche­le: Vuoi esprimerti…Fammi capi­re: ti inte­res­sa ogget­ti­va­re la tua sog­get­ti­vi­tà?

Gior­gio: Ma che signi­fi­ca? Sii meno ricer­ca­to, non ho tan­to tem­po da per­de­re.

Miche­le: Scu­sa, erro­re mio. Se non sba­glio, l’espressione è una sor­ta di tra­du­zio­ne.

Gior­gio: Non cre­do, ma con­ti­nua…

Miche­le: Che cosa signi­fi­ca tra­dur­re?

Gior­gio: Tra­spor­ta­re un signi­fi­ca­to da una lin­gua ad un’altra.

Miche­le: Que­sta è la defi­ni­zio­ne per il sen­so spe­ci­fi­co di tra­du­zio­ne, ovve­ro la tra­du­zio­ne lin­gui­sti­ca. Ma capi­sci bene che la tra­du­zio­ne può aver­ne uno anche più gene­ra­le.

Gior­gio: In effet­ti. Dal lati­no tra­du­ce­re, con­dur­re da un pun­to all’altro.

Miche­le: Esat­to. E la tra­du­zio­ne lin­gui­sti­ca è dun­que un caso par­ti­co­la­re del con­cet­to più gene­ra­le di tra­du­zio­ne.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ora, è in que­sto sen­so più gene­ra­le di tra­du­zio­ne che si situa anche la cosid­det­ta espres­sio­ne.

Gior­gio: In che modo?

Miche­le: Anche l’espressione è l’attività attra­ver­so la qua­le si con­du­ce qual­co­sa da un pun­to ad un altro. Que­sto qual­co­sa vie­ne ad esse­re un signi­fi­ca­to e tali pun­ti saran­no il pen­sie­ro (come pun­to di par­ten­za) e la fra­se espres­sa (come pun­to di arri­vo). L’espressione, dun­que, è l’attività tra­mi­te la qua­le ogget­ti­via­mo (in una fra­se) la nostra sog­get­ti­vi­tà (un pen­sie­ro). E, se ci pen­si bene, l’espressione è l’analoga spe­cu­la­re del­la com­pren­sio­ne: in que­sto caso, infat­ti, il pun­to di par­ten­za sarà l’oggettività del testo, e il pun­to di arri­vo la sog­get­ti­vi­tà del nostro pen­sie­ro.

Gior­gio: Tut­to que­sto per dire?

Miche­le: Sei tu che hai par­la­to di espres­sio­ne. Hai det­to che per te biso­gna lasciar fini­re di par­la­re le per­so­ne, per­ché il loro obiet­ti­vo è espri­mer­si. Biso­gna­va dun­que met­ter­si d’accordo su che cosa inten­dia­mo con espres­sio­ne, altri­men­ti avrem­mo svol­to due discor­si paral­le­li. Vedi, già così abbia­mo dimo­stra­to empi­ri­ca­men­te l’utilità dell’interruzione. Se io non ti aves­si inter­rot­to, e aves­si lascia­to che il fiu­me in pie­na del tuo discor­so cor­res­se sen­za argi­ni, non ci sarem­mo mes­si d’accordo su que­sto signi­fi­ca­to dell’espressione, e non avrem­mo mai rag­giun­to un risul­ta­to che, mi augu­ro, sarà comu­ne. Ma ora dob­bia­mo con­ti­nua­re, e dopo la pro­va empi­ri­ca dob­bia­mo for­nir­ne una teo­ri­ca.

Gior­gio: Come vuoi.

Miche­le: Voglio così: dim­mi, ha per te qual­che sen­so espri­mer­si sen­za un inter­lo­cu­to­re?

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ma come? Abbia­mo appe­na det­to che il prin­ci­pio dell’espressione è ren­de­re ogget­ti­vo ciò che è sog­get­ti­vo. O, det­to altri­men­ti, ren­de­re ester­no ciò che è inter­no. Ma se non vi è nes­su­no davan­ti al qua­le ci espri­mia­mo, allo­ra a che sco­po ester­na­re ciò a cui abbia­mo già acces­so inter­na­men­te?

Gior­gio: …

Miche­le: Non rispon­di?

Gior­gio: Non so cosa dir­ti.

Miche­le: Dim­mi se sei d’accordo con que­sto: par­le­re­sti ad un sor­do o, come è di moda dire ades­so, a un non-uden­te?

Gior­gio: Ovvia­men­te no.

Miche­le: Per­ché?

Gior­gio: Per­ché non potreb­be sen­ti­re, quin­di par­la­re non avreb­be alcun sen­so.

Miche­le: Per cui sarai d’accordo con me nel dire che la con­di­zio­ne neces­sa­ria per espri­mer­si, cioè per ope­ra­re quel­la tra­du­zio­ne che ester­na il pen­sie­ro, è che vi sia qual­cu­no, là fuo­ri, che pos­sa rece­pir­la. Que­sto qual­cu­no, poi, può esse­re anche solo vir­tua­le, può esse­re Dio, un demo­ne o quel­lo che vuoi. Ma dev’esserci, insom­ma, un ens inter­pre­tans a cui, tra­mi­te l’oggettivazione del nostro pen­sie­ro, glie­lo comu­ni­chia­mo.

Gior­gio: Va bene.

Miche­le: Però, per­ché comu­ni­ca­zio­ne si dia, è neces­sa­rio che l’oggettivazione rispet­ti cer­te rego­le: da un lato, biso­gna che que­sta sia fede­le alla sog­get­ti­va­zio­ne che vuo­le espri­me­re ma, dall’altro, che sia com­pren­si­bi­le, cioè tra­dot­ta in sen­so inver­so dell’espressione, da que­sta alte­ri­tà alla qua­le ci rivol­gia­mo.

Gior­gio: Quin­di? Mi sem­bra che tu stia met­ten­do una dopo l’altra una serie di bana­li­tà.

Miche­le: Quin­di, e pas­so sul­le pro­vo­ca­zio­ni, se il nostro inter­lo­cu­to­re c’interrompe, è per­ché la pos­si­bi­li­tà del­la com­pren­sio­ne è venu­ta meno. Per sal­va­re l’espressione, biso­gna innan­zi­tut­to fare in modo di sal­va­re la com­pren­sio­ne, per­ché que­sta è la con­di­zio­ne neces­sa­ria di quella…anzi, ne è pro­prio lo sco­po. Per cui, dob­bia­mo rispon­de­re ad ogni obie­zio­ne fat­ta dal nostro inter­lo­cu­to­re, se que­sta ovvia­men­te non è fat­ta in mala­fe­de. Per­ché que­ste obie­zio­ni sono un ten­ta­ti­vo per ripri­sti­na­re il lega­me di tra­du­zio­ne che è venu­to meno. Quod erat demon­stran­dum.

Gior­gio: Che cosa inten­di con obie­zio­ni in mala­fe­de?

Miche­le: Inten­do quel­le inter­ru­zio­ni che non sono fina­liz­za­te ad un mag­gior gra­do di com­pren­si­bi­li­tà, ma sol­tan­to a met­te­re in dif­fi­col­tà l’interlocutore.

Gior­gio: Per esem­pio quel­le pedan­ti?

Miche­le: Non per for­za. Anche le inter­ru­zio­ni pedan­ti pos­so­no ave­re un’utilità.

Gior­gio: Fam­mi un esem­pio.

Miche­le: Lascia­mi pensare…Bene, imma­gi­na­ti qual­cu­no com­ple­ta­men­te igno­ran­te in filo­so­fia, che segue una lezio­ne su Par­me­ni­de. Giun­to alla cele­bre fra­se “l’essere è e non può non esse­re”, può inter­rom­pe­re e chie­de­re se que­sta fra­se abbia qual­che lega­me con quel­la di Sha­ke­spea­re, “esse­re o non esse­re…”. È chia­ro che il lega­me non esi­ste. E può sem­bra­re che il suo inter­ven­to sia sta­to pedan­te, vol­to uni­ca­men­te a mostra­re che egli cono­sce Sha­ke­spea­re, e in par­te for­se lo è pure stato…Tuttavia, ha una sua uti­li­tà, per­ché alla rispo­sta da par­te del pro­fes­so­re che i due auto­ri non han­no nien­te in comu­ne, il pedan­te vie­ne libe­ra­to da un erro­re.

Gior­gio: Ho capi­to.

Miche­le: E il mio esem­pio è di tipo nega­ti­vo. Posi­ti­va­men­te può avve­ni­re la stes­sa cosa: gra­zie ad un inter­ven­to pedan­te, ma appro­pria­to e con­fer­ma­to dall’interlocutore — diver­sa­men­te dall’accostamento di Par­me­ni­de e Sha­ke­spea­re che è del tut­to inap­pro­pria­to — la per­so­na pedan­te può assi­cu­rar­si di segui­re la giu­sta via di com­pren­sio­ne di quel­lo che gli sta dicen­do il suo inter­lo­cu­to­re.

Gior­gio: Pri­ma cer­chi di dimo­stra­re che è giu­sto inter­rom­pe­re una per­so­na che par­la, poi che i pedan­ti non han­no tut­ti i tor­ti ad esser­lo. Hai uno smi­su­ra­to amo­re per i para­dos­si. Comun­que, cosa inten­di, allo­ra, con inter­ru­zio­ni in mala­fe­de?

Miche­le: Come ti dice­vo, le inter­ru­zio­ni che non pro­du­co­no alcu­na aggiun­ta di chia­rez­za, ma solo la dif­fi­col­tà dell’oratore. Per esem­pio, imma­gi­na­ti qual­cu­no che sta facen­do un discor­so serio, dove cer­ca di tra­smet­te­re al suo inter­lo­cu­to­re il pro­prio pen­sie­ro e che, dopo tan­to par­la­re, come spes­so avvie­ne all’orale, com­met­ta un pleo­na­smo gram­ma­ti­ca­le, del tipo “ma però…” oppu­re “a me mi…”, e che l’altro, riden­do super­ba­men­te, lo inter­rom­pa dicen­do­gli: “ma però non si dice”. Ecco que­sto sareb­be in mala­fe­de e ridi­co­lo. In mala­fe­de, per­ché l’interruzione non è vol­ta a com­pren­de­re meglio quel­lo che l’altro cer­ca di dir­ci, e ridi­co­la, per­ché si frain­ten­de che l’errore non è dovu­to all’ignoranza del­la gram­ma­ti­ca da par­te di colui che com­met­te l’errore, ben­sì all’oralità del­la par­la­ta.

Gior­gio: D’accordo. Comun­que cre­do di aver capi­to dov’è che noi due diver­gia­mo. Tu hai cre­du­to, quan­do ho par­la­to di espres­sio­ne, che io stes­si par­lan­do di comu­ni­ca­zio­ne. Mi sa addi­rit­tu­ra che ad un cer­to pun­to ne hai par­la­to tu stes­so. Ma a me non inte­res­sa comu­ni­ca­re un bel nien­te, né inse­gna­re ad altri quel­lo che pen­so, ma sol­tan­to mani­fe­sta­re il mio pen­sie­ro attra­ver­so la paro­la.

Miche­le: Ha pro­prio ragio­ne il mio ami­co Mario, quan­do dice che al nostro tem­po vivia­mo una cri­si del­la pre­sen­za. Ma fam­mi capi­re meglio.

Gior­gio: Per me l’altro a cui par­lo è solo un pre­te­sto. Quel­lo che in real­tà mi inte­res­sa, è eser­ci­tar­mi a par­la­re. L’altro mi ser­ve sì, ma come ausi­lio per veri­fi­ca­re se sono all’altezza, se sono insom­ma capa­ce di com­pie­re dei bei discor­si. A me edu­ca­re l’altro con i miei discor­si non inte­res­sa pro­prio.

Miche­le: E per­ché vuoi com­por­re dei bei discor­si?

Gior­gio: Te lo dirò. Sai, a dif­fe­ren­za di mol­ti, che sen­to­no il biso­gno di indos­sa­re masche­re, di appa­ri­re umi­li e mode­sti, io non ho pau­ra ad esse­re one­sto. Innan­zi­tut­to, devo dire che mi impor­ta sol­tan­to del mio ego. Chia­ma­mi pure egoi­sta, non m’importa, lo sei anche tu, solo che men­ti, a te e agli altri. Det­to que­sto, c’è un dupli­ce pro­ble­ma. Il mio ego non è asso­lu­to, nel sen­so che è limi­ta­to, pos­sia­mo dire, spa­zial­men­te e tem­po­ral­men­te. Spa­zial­men­te è limi­ta­to dagli ego degli altri, tem­po­ral­men­te dal­la mor­te. Ecco per­ché sono alla ricer­ca di due rime­di, per espan­de­re il più pos­si­bi­le la mia poten­za: da un lato l’onore, dall’altro la glo­ria. Con la pri­ma vin­co sugli altri oggi, con la secon­da vin­co la mor­te doma­ni. Insom­ma, per me espri­mer­mi non signi­fi­ca comu­ni­ca­re un pen­sie­ro, ma espan­de­re il mio io.

Miche­le: Il par­lar fran­co come si suo­le dire. Lo apprez­zo mol­to, tut­ta­via non mi sem­bra che sia un argo­men­to in tuo favo­re. Va piut­to­sto nel mio sen­so.

Gior­gio: No, affat­to, per­ché se sono inter­rot­to quan­do par­lo, non ho la pos­si­bi­li­tà di espan­der­mi attra­ver­so la paro­la.

Miche­le: Aspet­ta. Il tuo obiet­ti­vo, se ho capi­to bene, è vive­re e soprav­vi­ve­re negli altri.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Con­cen­tria­mo­ci su quel­la che tu hai chia­ma­to glo­ria e che tu ricer­chi quan­do ti espri­mi.

Gior­gio: Per­ché non anche sull’ono­re?

Miche­le: Per­ché l’onore fa par­te del­la glo­ria (per lo meno nei tuoi ter­mi­ni): infat­ti l’onore è un vive­re negli altri, e la glo­ria è un soprav­vi­ve­re negli altri, giu­sto?

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ma se si soprav­vi­ve negli altri, si vive anche in essi, giu­sto?

Gior­gio: Giu­sto.

Miche­le: Quin­di, quel­lo che dire­mo rela­ti­va­men­te alla glo­ria vale anche per l’onore, per­ché l’onore è una for­ma di glo­ria, sem­pli­ce­men­te muti­la­ta dell’eternità.

Gior­gio: Va bene.

Miche­le: Ebbe­ne, tu dici che, espri­men­do­ti, ricer­chi non già di comu­ni­ca­re o di edu­ca­re qual­cu­no, ben­sì sol­tan­to di otte­ne­re la glo­ria gra­zie ai tuoi discor­si.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Quin­di dob­bia­mo reim­po­sta­re il pro­ble­ma e chie­der­ci, rela­ti­va­men­te all’espressione, qual è il tipo di espres­sio­ne che è mag­gior­men­te capa­ce di pro­cu­rar­ci la glo­ria, cioè il soprav­vi­ve­re negli altri?

Gior­gio: La macro­lo­gia a mio avvi­so. Cioè un discor­so lun­go, ben costrui­to, ric­co di gio­chi di paro­le e figu­re reto­ri­che. Que­sto discor­so però è fra­gi­le, e si sgre­to­la se sot­to­mes­so a inter­ru­zio­ni e doman­de.

Miche­le: Però aspet­ta, dim­mi solo una cosa, per inse­gna­re qual­co­sa a qual­cu­no, qua­le for­ma di discor­so, la macro­lo­gia oppu­re la bra­chi­lo­gia, ti sem­bra la più adat­ta, la più effi­cien­te?

Gior­gio: Ma se ti ho det­to che il mio sco­po non è quel­lo di inse­gna­re…

Miche­le: No no lo so, ho capi­to, ma rispon­di comun­que.

Gior­gio: Ebbe­ne, in que­sto caso sareb­be effet­ti­va­men­te l’opposto del­la macro­lo­gia, ovve­ro un discor­so bre­ve e con­ci­so, che potrem­mo nomi­na­re “bra­chi­lo­gia”, per gli argo­men­ti che hai espo­sto pri­ma, in quel­la tua insop­por­ta­bi­le argo­men­ta­zio­ne sul­la tra­du­zio­ne, l’espres­sio­ne, la com­pren­sio­ne…È chia­ro che se il tuo allie­vo non capi­sce quel­lo che gli stai dicen­do, non può impa­ra­re un bel nul­la. Ed è chia­ro altre­sì che il miglior modo per capi­re — e per capi­re se si sta capen­do — è veri­fi­ca­re tra­mi­te del­le inter­ru­zio­ni dia­let­ti­che le pre­mes­se e le con­clu­sio­ni del nostro inter­lo­cu­to­re.

Miche­le: Mol­to bene. Ora, dun­que, dob­bia­mo sta­bi­li­re se, al fine di rag­giun­ge­re quel­lo sco­po egoi­sti­co che ti pre­fig­gi, ovve­ro la glo­ria tra­mi­te i discor­si, non sia van­tag­gio­so inse­gna­re. Se così fos­se, allo­ra sareb­be chia­ro che la bra­chi­lo­gia è da pre­fe­rir­si alla macro­lo­gia.

Gior­gio: Ovvia­men­te non è così. L’insegnamento ha sco­pi altrui­sti­ci, per­ché per l’appunto, come dice­va­mo pri­ma, ci si inte­res­sa alla com­pren­sio­ne del pro­prio allie­vo. Quan­do s’insegna, si pen­sa innan­zi­tut­to all’altro…

Miche­le: Si pen­sa all’altro…ma con qua­le obiet­ti­vo?

Gior­gio: È ovvio, per­ché egli com­pren­da.

Miche­le: Ma com­pren­da cosa?

Gior­gio: Come abbia­mo det­to pri­ma, com­pren­da la nostra espres­sio­ne.

Miche­le: E pri­ma abbia­mo det­to che com­pren­de­re signi­fi­ca inte­rio­riz­za­re un’esteriorità.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: E l’espressione cosa abbia­mo sta­bi­li­to che fos­se?

Gior­gio: La tra­du­zio­ne ogget­ti­va del­la nostra sog­get­ti­vi­tà.

Miche­le: Dun­que l’espressione è solo il tra­mi­te attra­ver­so cui si desi­de­ra che l’altro inte­rio­riz­zi la nostra sog­get­ti­vi­tà.

Gior­gio: Così pare.

Miche­le: Ma allo­ra, quan­do si edu­ca qual­cu­no, ciò che stia­mo facen­do altro non è se non inte­rio­riz­za­re nell’altro il nostro io.

Gior­gio: …

Miche­le: Per­ché taci? Non vuoi trar­re le con­clu­sio­ni di quel­lo che stia­mo dicen­do? Lo farò io allo­ra: pen­sa­re all’altro inve­ce che a sé stes­si è in real­tà un modo per sal­va­re sé stes­si attra­ver­so la glo­ria, anzi è il modo più effi­ca­ce; edu­can­do l’altro, infat­ti, si scol­pi­sce la sua ani­ma. E come in ogni sta­tua è riscon­tra­bi­le la sog­get­ti­vi­tà dell’artista, così in ogni disce­po­lo è pos­si­bi­le rin­trac­cia­re la sog­get­ti­vi­tà del men­to­re che ha con­tri­bui­to a for­mar­lo. Inve­ce pen­sa­re a sé stes­si diret­ta­men­te pro­du­ce uno scar­so sal­va­tag­gio di sé. La bra­chi­lo­gia dia­let­ti­ca, essen­do la vera peda­go­gia, è il vero modo per sal­va­re sé stes­si, attra­ver­so l’altro. La macro­lo­gia, dal can­to suo, per quan­to mos­sa da estre­ma vani­tà, non per­met­te la soprav­vi­ven­za dell’oratore nell’altro tra­mi­te il discor­so, per­ché non pro­du­ce alcun inse­gna­men­to nell’interlocutore, che è solo uno spec­chio che rin­via il discor­so all’oratore stes­so, che si auto­com­pia­ce. La vera glo­ria, per­tan­to, la si ottie­ne edu­can­do, men­tre la macro­lo­gia pro­du­ce sol­tan­to vana­glo­ria. Il vero egoi­smo, insom­ma, deve masche­rar­si di altrui­smo.

Gior­gio: Sono affa­sci­na­to dal­le tue caprio­le dia­let­ti­che.

Miche­le: Aspet­ta, per­ché non abbia­mo fini­to: pre­pa­ra­ti ad un’altra caprio­la.

Gior­gio: Pure.

Miche­le: A ripro­va del fat­to che l’egoismo può rea­liz­zar­si sol­tan­to attra­ver­so una gran­de pro­va di altrui­smo, ti chie­do: qual è, secon­do te, la più alta for­ma di altrui­smo?

Gior­gio: Non saprei, for­se l’amore.

Miche­le: Ma qual­sia­si amo­re?

Gior­gio: No, cer­to; solo quel­lo nel qua­le l’amante si sacri­fi­ca, o è dispo­sto a sacri­fi­car­si, per il pro­prio ama­to.

Miche­le: Per esem­pio, vuoi dire il caso di Achil­le che, per ven­di­ca­re Patro­clo, va incon­tro al suo desti­no di mor­te, di cui pure era ben con­scio, ucci­den­do Etto­re?

Gior­gio: Sì, e que­sto esem­pio è scel­to a pen­nel­lo, per­ché non solo Achil­le va incon­tro a mor­te sicu­ra per il suo aman­te — per­ché il desti­no è ine­lut­ta­bi­le- ma in più lo fa non già per sal­va­re Patro­clo, per­ché que­sti era già mor­to, ma sol­tan­to per sal­va­re il suo ono­re.

Miche­le: Però sai meglio di me che il desti­no di Achil­le non dice­va sol­tan­to che se fos­se tor­na­to in bat­ta­glia avreb­be tro­va­to la mor­te, ma anche la glo­ria eter­na, men­tre sareb­be mor­to in patria di mor­te natu­ra­le, ma dimen­ti­ca­to, se si fos­se aste­nu­to.

Gior­gio: È vero.

Miche­le: Dun­que, ciò che lo ha spin­to ver­so la mor­te, non è tan­to l’amore per Patro­clo, quan­to la vani­tà e la ricer­ca di glo­ria. Per cui, se mai esi­ste un amo­re altrui­sti­co, non può trat­tar­si dell’eros gre­co. Dob­bia­mo cer­ca­re altro­ve.

Gior­gio: Ebbe­ne, l’aga­pe cri­stia­na.

Miche­le: Per­ché dici que­sto?

Gior­gio: Per­ché Dio sacri­fi­ca se stes­so, tra­mi­te suo figlio Cri­sto, dal pec­ca­to ori­gi­na­le, rido­nan­do all’uomo la spe­ran­za dell’altezza.

Miche­le: Vor­rei qui com­pie­re una secon­da caprio­la dia­let­ti­ca, come dici tu. Pon­go solo un dub­bio, per ora, per­ché poi devo anda­re: ma se anche la sedi­cen­te altrui­sti­ca aga­pe cri­stia­na altro non fos­se che un ten­ta­ti­vo di Dio di sal­var­si, sal­van­do l’uomo, dall’onta di aver pro­dot­to que­gli infa­mi cosi con due gam­be?

Gior­gio: Non ave­vo dub­bi che il tuo amo­re per il para­dos­so doves­se, pre­sto o tar­di, sfo­cia­re nel dis­sa­cran­te.

Miche­le: Biso­gna pur scher­za­re, ogni tan­to.

Gior­gio: Come ti pare…Dove vai ora?

Miche­le: A casa, vado a dor­mi­re, pri­ma che altre zan­za­re non ven­ga­no a ven­di­ca­re quel­la che ho appe­na schiac­cia­to.

Miche­le: Ciao Gior­gio, ti ho visto in biblio­te­ca sta­mat­ti­na, cosa sta­vi leg­gen­do?

Gior­gio: Era­cli­to…

Miche­le: E cosa ne pen­si?

Gior­gio: Non ho voglia di par­lar­ne con te.

Miche­le: Per qua­le moti­vo, mio caro?

Gior­gio: Non è bel­lo dia­lo­ga­re con te, non sei un buon inter­lo­cu­to­re.

Miche­le: Mi dispia­ce mol­to che tu dica questo…sai bene che per me non c’è atti­vi­tà più bel­la che discor­re­re; mi capi­ta anche, spes­so e volen­tie­ri, di fare le ore pic­co­le pas­san­do a discu­te­re con gli ami­ci.

Gior­gio: Tut­ta­via non ne sei capace…dovresti tro­var­ti un altro intrat­te­ni­men­to for­se.

Miche­le: Mi dispia­ce. Ma in che cosa sono inca­pa­ce?

Gior­gio: Dav­ve­ro non te ne ren­di con­to tu stes­so?

Miche­le: No, te lo giu­ro. Il mio amo­re per i discor­si mi acce­ca, non per­met­ten­do­mi di ave­re uno sguar­do distac­ca­to e cri­ti­co sul­la manie­ra in cui li con­du­co.

Gior­gio: Sì sì. Il pun­to è che inter­rom­pi sem­pre il tuo inter­lo­cu­to­re. Ogni vol­ta che pro­vo a dir­ti quel­lo che pen­so, non mi lasci nem­me­no due minu­ti che subi­to mi inter­rom­pi. È fru­stran­te, ma non te ne voglio. È un pro­ble­ma gene­ra­liz­za­to del­la nostra socie­tà: non si è più capa­ci di ascol­ta­re.

Miche­le: Scu­sa Gior­gio, non pen­sa­vo che tu stes­si pra­ti­can­do la tua rino­ma­ta iro­nia.

Gior­gio: Ma di qua­le iro­nia par­li?

Miche­le: Ma come? Hai ini­zia­to accu­san­do­mi per un difet­to, ma te ne esci sot­to­li­nean­do una mia qua­li­tà.

Gior­gio: Per te inter­rom­pe­re è for­se una qua­li­tà?

Miche­le: Non è lo stes­so per te?

Gior­gio: Sei ridi­co­lo.

Miche­le: Ma come? Pen­si for­se che lasciar par­la­re il pro­prio inter­lo­cu­to­re inde­fi­ni­ta­men­te sia una vir­tù?

Gior­gio: Vir­tù è una paro­la impor­tan­te, direi un sem­pli­ce gesto di civil­tà?

Miche­le: Gior­gio, il gio­co è bel­lo fin­ché dura poco e l’ironia, una vol­ta sma­sche­ra­ta, per­de la sua effi­ca­cia.

Gior­gio: Ma fini­sci­la! Io non sto scher­zan­do, è un atteg­gia­men­to che non sop­por­to da par­te tua.

Miche­le: Quin­di sei serio…Ebbene, dovrò dimo­strar­ti allo­ra che hai tor­to ed io ragio­ne.

Gior­gio: E puoi anche dimo­stra­re che un cer­chio ha gli ango­li retti…Lo san­no tut­ti che è sba­glia­to inter­rom­pe­re, per­ché devi anco­ra una vol­ta esse­re testar­do. Fin dal­la scuo­la ele­men­ta­re s’insegna che biso­gna ascol­ta­re l’altro fin­ché non ha fini­to di par­la­re. For­se “gra­zie” al tuo genio hai sal­ta­to le clas­si ele­men­ta­ri.

Miche­le: No affat­to, mi ricor­do di aver­lo spes­so sen­ti­to. Ma non mi ha mai per­sua­so come tesi.

Gior­gio: Ma l’hai ascol­ta­ta fino in fon­do o hai ogni vol­ta inter­rot­to chi la soste­ne­va?

Miche­le: Oh final­men­te ritor­ni alla tua iro­nia. Tro­vo che ti si addi­ca meglio rispet­to al risen­ti­men­to, ti ammor­bi­di­sce.

Gior­gio: Come vuoi, comun­que non ho voglia di par­la­re con te, scu­sa­mi la cor­te­sia.

Miche­le: Ma te ne pre­go. Lo sai che sono inson­ne.

Gior­gio: Che c’entra l’insonnia?

Miche­le: Come che c’entra? Tut­to c’entra. Sai bene che, quan­do una que­stio­ne mi assil­la, non rie­sco ad addor­men­tar­mi fin­ché non l’ho risol­ta. È come in esta­te quan­do vie­ni sve­glia­to dal ron­za­re di una zan­za­ra, e non rie­sci ad addor­men­tar­ti pri­ma di aver­la schiac­cia­ta, per­ché quel zzz nell’orecchio ti infa­sti­di­sce a tal pun­to che anche il son­no più pesan­te è rot­to. La stes­sa cosa avvie­ne per me quan­do pen­so ad un’ipotesi: fin­ché non l’ho schiac­cia­ta con argo­men­ti e con­tro­ar­go­men­ti, non mi do pace. E non solo non rie­sco a dor­mi­re, ma nem­me­no a veglia­re, per­ché seb­be­ne io abbia gli occhi aper­ti, non sono pre­sen­te là dove mi tro­vo, ma rigi­ro la que­stio­ne in tut­ti i sen­si. Aiu­ta­mi dun­que, per­ché è sera e pre­sto dovrò anda­re a let­to.

Gior­gio: Sei stra­no e fasti­dio­so, tu stes­so simi­le ad una zan­za­ra.

Miche­le: Allo­ra ti sve­lo l’antidoto per cac­ciar­mi: dimo­stra­mi per­ché non biso­gna inter­rom­pe­re.

Gior­gio: È mol­to sem­pli­ce; per uti­liz­za­re un’espressione filo­so­fi­ca, dicia­mo: il vero è l’intero.

Miche­le: Inten­di dire che il sen­so di quel­lo che è det­to pri­ma può esse­re chia­ri­to sol­tan­to ascol­tan­do quel­lo che vie­ne dopo?

Gior­gio: Sì, se solo si fos­se capa­ci di ascol­ta­re.

Miche­le: Ma dim­mi, quan­do espo­ni un tuo discor­so, tu met­ti pri­ma le pre­mes­se o le con­se­guen­ze?

Gior­gio: Le pre­mes­se è ovvio, lo dice pure il ter­mi­ne, pre-mes­se.

Miche­le: Ma quan­do non si è d’accordo con una o alcu­ne di que­ste pre­mes­se, che sen­so ha ascol­ta­re le con­clu­sio­ni? Non è for­se meglio chie­de­re spie­ga­zio­ne, inter­rom­pen­do l’oratore, di tali pre­mes­se? Non biso­gna, insom­ma, cer­ca­re di com­pren­de­re per­ché una cer­ta pre­mes­sa “p” è sta­ta det­ta, che cosa per­met­ta di dir­la, che cosa signi­fi­ca il fat­to stes­so di dir­la?

Gior­gio: Non capi­sci, un discor­so trae la pro­pria bel­lez­za ed effi­ca­cia dal­la flui­di­tà con cui vie­ne det­to; ma vab­bè, que­ste sono cose che tu non puoi tan­to bene capi­re, per­ché non ti curi dell’arte del­la paro­la.

Miche­le: No infat­ti. Ma dim­mi, per­ché for­se dob­bia­mo pren­de­re il pro­ble­ma all’origine, qual è la ragio­ne che ti spin­ge a fare un discor­so?

Gior­gio: Voglio espri­mer­mi, ovvia­men­te.

Miche­le: Vuoi esprimerti…Fammi capi­re: ti inte­res­sa ogget­ti­va­re la tua sog­get­ti­vi­tà?

Gior­gio: Ma che signi­fi­ca? Sii meno ricer­ca­to, non ho tan­to tem­po da per­de­re.

Miche­le: Scu­sa, erro­re mio. Se non sba­glio, l’espressione è una sor­ta di tra­du­zio­ne.

Gior­gio: Non cre­do, ma con­ti­nua…

Miche­le: Che cosa signi­fi­ca tra­dur­re?

Gior­gio: Tra­spor­ta­re un signi­fi­ca­to da una lin­gua ad un’altra.

Miche­le: Que­sta è la defi­ni­zio­ne per il sen­so spe­ci­fi­co di tra­du­zio­ne, ovve­ro la tra­du­zio­ne lin­gui­sti­ca. Ma capi­sci bene che la tra­du­zio­ne può aver­ne uno anche più gene­ra­le.

Gior­gio: In effet­ti. Dal lati­no tra­du­ce­re, con­dur­re da un pun­to all’altro.

Miche­le: Esat­to. E la tra­du­zio­ne lin­gui­sti­ca è dun­que un caso par­ti­co­la­re del con­cet­to più gene­ra­le di tra­du­zio­ne.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ora, è in que­sto sen­so più gene­ra­le di tra­du­zio­ne che si situa anche la cosid­det­ta espres­sio­ne.

Gior­gio: In che modo?

Miche­le: Anche l’espressione è l’attività attra­ver­so la qua­le si con­du­ce qual­co­sa da un pun­to ad un altro. Que­sto qual­co­sa vie­ne ad esse­re un signi­fi­ca­to e tali pun­ti saran­no il pen­sie­ro (come pun­to di par­ten­za) e la fra­se espres­sa (come pun­to di arri­vo). L’espressione, dun­que, è l’attività tra­mi­te la qua­le ogget­ti­via­mo (in una fra­se) la nostra sog­get­ti­vi­tà (un pen­sie­ro). E, se ci pen­si bene, l’espressione è l’analoga spe­cu­la­re del­la com­pren­sio­ne: in que­sto caso, infat­ti, il pun­to di par­ten­za sarà l’oggettività del testo, e il pun­to di arri­vo la sog­get­ti­vi­tà del nostro pen­sie­ro.

Gior­gio: Tut­to que­sto per dire?

Miche­le: Sei tu che hai par­la­to di espres­sio­ne. Hai det­to che per te biso­gna lasciar fini­re di par­la­re le per­so­ne, per­ché il loro obiet­ti­vo è espri­mer­si. Biso­gna­va dun­que met­ter­si d’accordo su che cosa inten­dia­mo con espres­sio­ne, altri­men­ti avrem­mo svol­to due discor­si paral­le­li. Vedi, già così abbia­mo dimo­stra­to empi­ri­ca­men­te l’utilità dell’interruzione. Se io non ti aves­si inter­rot­to, e aves­si lascia­to che il fiu­me in pie­na del tuo discor­so cor­res­se sen­za argi­ni, non ci sarem­mo mes­si d’accordo su que­sto signi­fi­ca­to dell’espressione, e non avrem­mo mai rag­giun­to un risul­ta­to che, mi augu­ro, sarà comu­ne. Ma ora dob­bia­mo con­ti­nua­re, e dopo la pro­va empi­ri­ca dob­bia­mo for­nir­ne una teo­ri­ca.

Gior­gio: Come vuoi.

Miche­le: Voglio così: dim­mi, ha per te qual­che sen­so espri­mer­si sen­za un inter­lo­cu­to­re?

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ma come? Abbia­mo appe­na det­to che il prin­ci­pio dell’espressione è ren­de­re ogget­ti­vo ciò che è sog­get­ti­vo. O, det­to altri­men­ti, ren­de­re ester­no ciò che è inter­no. Ma se non vi è nes­su­no davan­ti al qua­le ci espri­mia­mo, allo­ra a che sco­po ester­na­re ciò a cui abbia­mo già acces­so inter­na­men­te?

Gior­gio: …

Miche­le: Non rispon­di?

Gior­gio: Non so cosa dir­ti.

Miche­le: Dim­mi se sei d’accordo con que­sto: par­le­re­sti ad un sor­do o, come è di moda dire ades­so, a un non-uden­te?

Gior­gio: Ovvia­men­te no.

Miche­le: Per­ché?

Gior­gio: Per­ché non potreb­be sen­ti­re, quin­di par­la­re non avreb­be alcun sen­so.

Miche­le: Per cui sarai d’accordo con me nel dire che la con­di­zio­ne neces­sa­ria per espri­mer­si, cioè per ope­ra­re quel­la tra­du­zio­ne che ester­na il pen­sie­ro, è che vi sia qual­cu­no, là fuo­ri, che pos­sa rece­pir­la. Que­sto qual­cu­no, poi, può esse­re anche solo vir­tua­le, può esse­re Dio, un demo­ne o quel­lo che vuoi. Ma dev’esserci, insom­ma, un ens inter­pre­tans a cui, tra­mi­te l’oggettivazione del nostro pen­sie­ro, glie­lo comu­ni­chia­mo.

Gior­gio: Va bene.

Miche­le: Però, per­ché comu­ni­ca­zio­ne si dia, è neces­sa­rio che l’oggettivazione rispet­ti cer­te rego­le: da un lato, biso­gna che que­sta sia fede­le alla sog­get­ti­va­zio­ne che vuo­le espri­me­re ma, dall’altro, che sia com­pren­si­bi­le, cioè tra­dot­ta in sen­so inver­so dell’espressione, da que­sta alte­ri­tà alla qua­le ci rivol­gia­mo.

Gior­gio: Quin­di? Mi sem­bra che tu stia met­ten­do una dopo l’altra una serie di bana­li­tà.

Miche­le: Quin­di, e pas­so sul­le pro­vo­ca­zio­ni, se il nostro inter­lo­cu­to­re c’interrompe, è per­ché la pos­si­bi­li­tà del­la com­pren­sio­ne è venu­ta meno. Per sal­va­re l’espressione, biso­gna innan­zi­tut­to fare in modo di sal­va­re la com­pren­sio­ne, per­ché que­sta è la con­di­zio­ne neces­sa­ria di quella…anzi, ne è pro­prio lo sco­po. Per cui, dob­bia­mo rispon­de­re ad ogni obie­zio­ne fat­ta dal nostro inter­lo­cu­to­re, se que­sta ovvia­men­te non è fat­ta in mala­fe­de. Per­ché que­ste obie­zio­ni sono un ten­ta­ti­vo per ripri­sti­na­re il lega­me di tra­du­zio­ne che è venu­to meno. Quod erat demon­stran­dum.

Gior­gio: Che cosa inten­di con obie­zio­ni in mala­fe­de?

Miche­le: Inten­do quel­le inter­ru­zio­ni che non sono fina­liz­za­te ad un mag­gior gra­do di com­pren­si­bi­li­tà, ma sol­tan­to a met­te­re in dif­fi­col­tà l’interlocutore.

Gior­gio: Per esem­pio quel­le pedan­ti?

Miche­le: Non per for­za. Anche le inter­ru­zio­ni pedan­ti pos­so­no ave­re un’utilità.

Gior­gio: Fam­mi un esem­pio.

Miche­le: Lascia­mi pensare…Bene, imma­gi­na­ti qual­cu­no com­ple­ta­men­te igno­ran­te in filo­so­fia, che segue una lezio­ne su Par­me­ni­de. Giun­to alla cele­bre fra­se “l’essere è e non può non esse­re”, può inter­rom­pe­re e chie­de­re se que­sta fra­se abbia qual­che lega­me con quel­la di Sha­ke­spea­re, “esse­re o non esse­re…”. È chia­ro che il lega­me non esi­ste. E può sem­bra­re che il suo inter­ven­to sia sta­to pedan­te, vol­to uni­ca­men­te a mostra­re che egli cono­sce Sha­ke­spea­re, e in par­te for­se lo è pure stato…Tuttavia, ha una sua uti­li­tà, per­ché alla rispo­sta da par­te del pro­fes­so­re che i due auto­ri non han­no nien­te in comu­ne, il pedan­te vie­ne libe­ra­to da un erro­re.

Gior­gio: Ho capi­to.

Miche­le: E il mio esem­pio è di tipo nega­ti­vo. Posi­ti­va­men­te può avve­ni­re la stes­sa cosa: gra­zie ad un inter­ven­to pedan­te, ma appro­pria­to e con­fer­ma­to dall’interlocutore — diver­sa­men­te dall’accostamento di Par­me­ni­de e Sha­ke­spea­re che è del tut­to inap­pro­pria­to — la per­so­na pedan­te può assi­cu­rar­si di segui­re la giu­sta via di com­pren­sio­ne di quel­lo che gli sta dicen­do il suo inter­lo­cu­to­re.

Gior­gio: Pri­ma cer­chi di dimo­stra­re che è giu­sto inter­rom­pe­re una per­so­na che par­la, poi che i pedan­ti non han­no tut­ti i tor­ti ad esser­lo. Hai uno smi­su­ra­to amo­re per i para­dos­si. Comun­que, cosa inten­di, allo­ra, con inter­ru­zio­ni in mala­fe­de?

Miche­le: Come ti dice­vo, le inter­ru­zio­ni che non pro­du­co­no alcu­na aggiun­ta di chia­rez­za, ma solo la dif­fi­col­tà dell’oratore. Per esem­pio, imma­gi­na­ti qual­cu­no che sta facen­do un discor­so serio, dove cer­ca di tra­smet­te­re al suo inter­lo­cu­to­re il pro­prio pen­sie­ro e che, dopo tan­to par­la­re, come spes­so avvie­ne all’orale, com­met­ta un pleo­na­smo gram­ma­ti­ca­le, del tipo “ma però…” oppu­re “a me mi…”, e che l’altro, riden­do super­ba­men­te, lo inter­rom­pa dicen­do­gli: “ma però non si dice”. Ecco que­sto sareb­be in mala­fe­de e ridi­co­lo. In mala­fe­de, per­ché l’interruzione non è vol­ta a com­pren­de­re meglio quel­lo che l’altro cer­ca di dir­ci, e ridi­co­la, per­ché si frain­ten­de che l’errore non è dovu­to all’ignoranza del­la gram­ma­ti­ca da par­te di colui che com­met­te l’errore, ben­sì all’oralità del­la par­la­ta.

Gior­gio: D’accordo. Comun­que cre­do di aver capi­to dov’è che noi due diver­gia­mo. Tu hai cre­du­to, quan­do ho par­la­to di espres­sio­ne, che io stes­si par­lan­do di comu­ni­ca­zio­ne. Mi sa addi­rit­tu­ra che ad un cer­to pun­to ne hai par­la­to tu stes­so. Ma a me non inte­res­sa comu­ni­ca­re un bel nien­te, né inse­gna­re ad altri quel­lo che pen­so, ma sol­tan­to mani­fe­sta­re il mio pen­sie­ro attra­ver­so la paro­la.

Miche­le: Ha pro­prio ragio­ne il mio ami­co Mario, quan­do dice che al nostro tem­po vivia­mo una cri­si del­la pre­sen­za. Ma fam­mi capi­re meglio.

Gior­gio: Per me l’altro a cui par­lo è solo un pre­te­sto. Quel­lo che in real­tà mi inte­res­sa, è eser­ci­tar­mi a par­la­re. L’altro mi ser­ve sì, ma come ausi­lio per veri­fi­ca­re se sono all’altezza, se sono insom­ma capa­ce di com­pie­re dei bei discor­si. A me edu­ca­re l’altro con i miei discor­si non inte­res­sa pro­prio.

Miche­le: E per­ché vuoi com­por­re dei bei discor­si?

Gior­gio: Te lo dirò. Sai, a dif­fe­ren­za di mol­ti, che sen­to­no il biso­gno di indos­sa­re masche­re, di appa­ri­re umi­li e mode­sti, io non ho pau­ra ad esse­re one­sto. Innan­zi­tut­to, devo dire che mi impor­ta sol­tan­to del mio ego. Chia­ma­mi pure egoi­sta, non m’importa, lo sei anche tu, solo che men­ti, a te e agli altri. Det­to que­sto, c’è un dupli­ce pro­ble­ma. Il mio ego non è asso­lu­to, nel sen­so che è limi­ta­to, pos­sia­mo dire, spa­zial­men­te e tem­po­ral­men­te. Spa­zial­men­te è limi­ta­to dagli ego degli altri, tem­po­ral­men­te dal­la mor­te. Ecco per­ché sono alla ricer­ca di due rime­di, per espan­de­re il più pos­si­bi­le la mia poten­za: da un lato l’onore, dall’altro la glo­ria. Con la pri­ma vin­co sugli altri oggi, con la secon­da vin­co la mor­te doma­ni. Insom­ma, per me espri­mer­mi non signi­fi­ca comu­ni­ca­re un pen­sie­ro, ma espan­de­re il mio io.

Miche­le: Il par­lar fran­co come si suo­le dire. Lo apprez­zo mol­to, tut­ta­via non mi sem­bra che sia un argo­men­to in tuo favo­re. Va piut­to­sto nel mio sen­so.

Gior­gio: No, affat­to, per­ché se sono inter­rot­to quan­do par­lo, non ho la pos­si­bi­li­tà di espan­der­mi attra­ver­so la paro­la.

Miche­le: Aspet­ta. Il tuo obiet­ti­vo, se ho capi­to bene, è vive­re e soprav­vi­ve­re negli altri.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Con­cen­tria­mo­ci su quel­la che tu hai chia­ma­to glo­ria e che tu ricer­chi quan­do ti espri­mi.

Gior­gio: Per­ché non anche sull’ono­re?

Miche­le: Per­ché l’onore fa par­te del­la glo­ria (per lo meno nei tuoi ter­mi­ni): infat­ti l’onore è un vive­re negli altri, e la glo­ria è un soprav­vi­ve­re negli altri, giu­sto?

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Ma se si soprav­vi­ve negli altri, si vive anche in essi, giu­sto?

Gior­gio: Giu­sto.

Miche­le: Quin­di, quel­lo che dire­mo rela­ti­va­men­te alla glo­ria vale anche per l’onore, per­ché l’onore è una for­ma di glo­ria, sem­pli­ce­men­te muti­la­ta dell’eternità.

Gior­gio: Va bene.

Miche­le: Ebbe­ne, tu dici che, espri­men­do­ti, ricer­chi non già di comu­ni­ca­re o di edu­ca­re qual­cu­no, ben­sì sol­tan­to di otte­ne­re la glo­ria gra­zie ai tuoi discor­si.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: Quin­di dob­bia­mo reim­po­sta­re il pro­ble­ma e chie­der­ci, rela­ti­va­men­te all’espressione, qual è il tipo di espres­sio­ne che è mag­gior­men­te capa­ce di pro­cu­rar­ci la glo­ria, cioè il soprav­vi­ve­re negli altri?

Gior­gio: La macro­lo­gia a mio avvi­so. Cioè un discor­so lun­go, ben costrui­to, ric­co di gio­chi di paro­le e figu­re reto­ri­che. Que­sto discor­so però è fra­gi­le, e si sgre­to­la se sot­to­mes­so a inter­ru­zio­ni e doman­de.

Miche­le: Però aspet­ta, dim­mi solo una cosa, per inse­gna­re qual­co­sa a qual­cu­no, qua­le for­ma di discor­so, la macro­lo­gia oppu­re la bra­chi­lo­gia, ti sem­bra la più adat­ta, la più effi­cien­te?

Gior­gio: Ma se ti ho det­to che il mio sco­po non è quel­lo di inse­gna­re…

Miche­le: No no lo so, ho capi­to, ma rispon­di comun­que.

Gior­gio: Ebbe­ne, in que­sto caso sareb­be effet­ti­va­men­te l’opposto del­la macro­lo­gia, ovve­ro un discor­so bre­ve e con­ci­so, che potrem­mo nomi­na­re “bra­chi­lo­gia”, per gli argo­men­ti che hai espo­sto pri­ma, in quel­la tua insop­por­ta­bi­le argo­men­ta­zio­ne sul­la tra­du­zio­ne, l’espres­sio­ne, la com­pren­sio­ne…È chia­ro che se il tuo allie­vo non capi­sce quel­lo che gli stai dicen­do, non può impa­ra­re un bel nul­la. Ed è chia­ro altre­sì che il miglior modo per capi­re — e per capi­re se si sta capen­do — è veri­fi­ca­re tra­mi­te del­le inter­ru­zio­ni dia­let­ti­che le pre­mes­se e le con­clu­sio­ni del nostro inter­lo­cu­to­re.

Miche­le: Mol­to bene. Ora, dun­que, dob­bia­mo sta­bi­li­re se, al fine di rag­giun­ge­re quel­lo sco­po egoi­sti­co che ti pre­fig­gi, ovve­ro la glo­ria tra­mi­te i discor­si, non sia van­tag­gio­so inse­gna­re. Se così fos­se, allo­ra sareb­be chia­ro che la bra­chi­lo­gia è da pre­fe­rir­si alla macro­lo­gia.

Gior­gio: Ovvia­men­te non è così. L’insegnamento ha sco­pi altrui­sti­ci, per­ché per l’appunto, come dice­va­mo pri­ma, ci si inte­res­sa alla com­pren­sio­ne del pro­prio allie­vo. Quan­do s’insegna, si pen­sa innan­zi­tut­to all’altro…

Miche­le: Si pen­sa all’altro…ma con qua­le obiet­ti­vo?

Gior­gio: È ovvio, per­ché egli com­pren­da.

Miche­le: Ma com­pren­da cosa?

Gior­gio: Come abbia­mo det­to pri­ma, com­pren­da la nostra espres­sio­ne.

Miche­le: E pri­ma abbia­mo det­to che com­pren­de­re signi­fi­ca inte­rio­riz­za­re un’esteriorità.

Gior­gio: Sì.

Miche­le: E l’espressione cosa abbia­mo sta­bi­li­to che fos­se?

Gior­gio: La tra­du­zio­ne ogget­ti­va del­la nostra sog­get­ti­vi­tà.

Miche­le: Dun­que l’espressione è solo il tra­mi­te attra­ver­so cui si desi­de­ra che l’altro inte­rio­riz­zi la nostra sog­get­ti­vi­tà.

Gior­gio: Così pare.

Miche­le: Ma allo­ra, quan­do si edu­ca qual­cu­no, ciò che stia­mo facen­do altro non è se non inte­rio­riz­za­re nell’altro il nostro io.

Gior­gio: …

Miche­le: Per­ché taci? Non vuoi trar­re le con­clu­sio­ni di quel­lo che stia­mo dicen­do? Lo farò io allo­ra: pen­sa­re all’altro inve­ce che a sé stes­si è in real­tà un modo per sal­va­re sé stes­si attra­ver­so la glo­ria, anzi è il modo più effi­ca­ce; edu­can­do l’altro, infat­ti, si scol­pi­sce la sua ani­ma. E come in ogni sta­tua è riscon­tra­bi­le la sog­get­ti­vi­tà dell’artista, così in ogni disce­po­lo è pos­si­bi­le rin­trac­cia­re la sog­get­ti­vi­tà del men­to­re che ha con­tri­bui­to a for­mar­lo. Inve­ce pen­sa­re a sé stes­si diret­ta­men­te pro­du­ce uno scar­so sal­va­tag­gio di sé. La bra­chi­lo­gia dia­let­ti­ca, essen­do la vera peda­go­gia, è il vero modo per sal­va­re sé stes­si, attra­ver­so l’altro. La macro­lo­gia, dal can­to suo, per quan­to mos­sa da estre­ma vani­tà, non per­met­te la soprav­vi­ven­za dell’oratore nell’altro tra­mi­te il discor­so, per­ché non pro­du­ce alcun inse­gna­men­to nell’interlocutore, che è solo uno spec­chio che rin­via il discor­so all’oratore stes­so, che si auto­com­pia­ce. La vera glo­ria, per­tan­to, la si ottie­ne edu­can­do, men­tre la macro­lo­gia pro­du­ce sol­tan­to vana­glo­ria. Il vero egoi­smo, insom­ma, deve masche­rar­si di altrui­smo.

Gior­gio: Sono affa­sci­na­to dal­le tue caprio­le dia­let­ti­che.

Miche­le: Aspet­ta, per­ché non abbia­mo fini­to: pre­pa­ra­ti ad un’altra caprio­la.

Gior­gio: Pure.

Miche­le: A ripro­va del fat­to che l’egoismo può rea­liz­zar­si sol­tan­to attra­ver­so una gran­de pro­va di altrui­smo, ti chie­do: qual è, secon­do te, la più alta for­ma di altrui­smo?

Gior­gio: Non saprei, for­se l’amore.

Miche­le: Ma qual­sia­si amo­re?

Gior­gio: No, cer­to; solo quel­lo nel qua­le l’amante si sacri­fi­ca, o è dispo­sto a sacri­fi­car­si, per il pro­prio ama­to.

Miche­le: Per esem­pio, vuoi dire il caso di Achil­le che, per ven­di­ca­re Patro­clo, va incon­tro al suo desti­no di mor­te, di cui pure era ben con­scio, ucci­den­do Etto­re?

Gior­gio: Sì, e que­sto esem­pio è scel­to a pen­nel­lo, per­ché non solo Achil­le va incon­tro a mor­te sicu­ra per il suo aman­te — per­ché il desti­no è ine­lut­ta­bi­le- ma in più lo fa non già per sal­va­re Patro­clo, per­ché que­sti era già mor­to, ma sol­tan­to per sal­va­re il suo ono­re.

Miche­le: Però sai meglio di me che il desti­no di Achil­le non dice­va sol­tan­to che se fos­se tor­na­to in bat­ta­glia avreb­be tro­va­to la mor­te, ma anche la glo­ria eter­na, men­tre sareb­be mor­to in patria di mor­te natu­ra­le, ma dimen­ti­ca­to, se si fos­se aste­nu­to.

Gior­gio: È vero.

Miche­le: Dun­que, ciò che lo ha spin­to ver­so la mor­te, non è tan­to l’amore per Patro­clo, quan­to la vani­tà e la ricer­ca di glo­ria. Per cui, se mai esi­ste un amo­re altrui­sti­co, non può trat­tar­si dell’eros gre­co. Dob­bia­mo cer­ca­re altro­ve.

Gior­gio: Ebbe­ne, l’aga­pe cri­stia­na.

Miche­le: Per­ché dici que­sto?

Gior­gio: Per­ché Dio sacri­fi­ca se stes­so, tra­mi­te suo figlio Cri­sto, dal pec­ca­to ori­gi­na­le, rido­nan­do all’uomo la spe­ran­za dell’altezza.

Miche­le: Vor­rei qui com­pie­re una secon­da caprio­la dia­let­ti­ca, come dici tu. Pon­go solo un dub­bio, per ora, per­ché poi devo anda­re: ma se anche la sedi­cen­te altrui­sti­ca aga­pe cri­stia­na altro non fos­se che un ten­ta­ti­vo di Dio di sal­var­si, sal­van­do l’uomo, dall’onta di aver pro­dot­to que­gli infa­mi cosi con due gam­be?

Gior­gio: Non ave­vo dub­bi che il tuo amo­re per il para­dos­so doves­se, pre­sto o tar­di, sfo­cia­re nel dis­sa­cran­te.

Miche­le: Biso­gna pur scher­za­re, ogni tan­to.

Gior­gio: Come ti pare…Dove vai ora?

Miche­le: A casa, vado a dor­mi­re, pri­ma che altre zan­za­re non ven­ga­no a ven­di­ca­re quel­la che ho appe­na schiac­cia­to.

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