È mattina, ci prepariamo la colazione prima di andare a lavoro. Diamo un’occhiata alla nostra cucina, scorgiamo le banane nel portafrutta; alcune si stanno annerendo, valutiamo l’opzione di prepararci un bel frullato. Ci hanno detto che le banane contengono molto potassio. Sappiamo anche che è raccomandato mangiarne una se ci viene un crampo. Ma anche che, se diventano troppo mature, possiamo sempre prepararci un banana bread: ne abbiamo a decine di ricette salvate su Instagram, le blogger di cucina la propongono sempre come l’incredibile ricetta anti-spreco – riduciamo lo spreco alimentare, combattiamo il cambio climatico, tutto solo con un dolce! Decidiamo che lo faremo anche noi stasera; la nostra buona azione giornaliera per salvare il mondo.
È passato un anno e mezzo da quando ho avuto il privilegio di arrivare in uno dei paesi più belli e complessi del mondo, dove sapevo già che avrei preso molto di più di quello che mi sento di aver lasciato. Ripenso al mio arrivo. Victoria e Felipe mi vengono a prendere alla fermata del bus: ho svariate ore di ritardo, il telefono scarico, discutiamo con il conducente che non mi vuole dare lo zaino perché non trovo il pezzo di carta che mi hanno consegnato quando sono salita. Alla fine lo convinciamo, saliamo in macchina, ma io sono ancora un po’ scossa e continuo a ripercorrere l’episodio. Vic e Pipe ridono, «Bienvenida a Colombia, Sofia. No lo pienses más – non ci pensare più – Ya se fue – ormai è andata».
Sono passati cinque anni da quando Victoria e Felipe hanno cominciato la loro piccola impresa familiare di raccolta e riciclo dei rifiuti. Un’idea che nasce dall’esperienza di Victoria in Italia, a Napoli, dove rimane affascinata dal sistema di raccolta differenziata e, una volta tornata in Colombia, decide di metterlo in pratica in prima persona sul suo territorio. Così a Carepa (Apartadò), nel cuore della región de las bananas, nasce il progetto di Ecológica Reconectando. Victoria Villanueva Franco ha una grande passione, radici indigene ed è una leader di natura. L’idea alla base del progetto è in verità alquanto originale. In un contesto in cui la mentalità comune è ancora quella di farsi pagare in cambio dei propri rifiuti, Victoria ha pensato a una ‘merce di scambio’ che avesse anche più valore del denaro e che facesse parte del suo bagaglio: la conoscenza, l’educazione e la comunicazione. «Intercambiar reciclaje por conocimiento» – barattare il riciclo con la conoscenza – è il motto di Ecológica e le sue attività sono dunque molteplici: portare avanti un sistema di raccolta differenziata territoriale, fornendo contenitori e punti di raccolta ed educando la popolazione al consumo e riciclo consapevole; dare lezioni di educazione ambientale e linguistica alle giovani generazioni delle comunità, anche attraverso il lavoro dei volontari; procurare un impiego stabile e dignitoso ai raccoglitori di strada, figure tanto emarginate quanto fondamentali per il sistema di riciclo. Il progetto di Ecológica è in parte finanziato dalle imprese bananere, che partecipano alla raccolta e investono parte dei fondi destinati da Fair Trade per progetti con le comunità. Al momento solo una piccola percentuale delle imprese collabora con Ecológica: fino a che gli standard in materia di consumo e riciclo di materiali durante il ciclo di vita delle banane non verranno imposti per legge – anche a livello europeo –, buona parte dei produttori non vedranno il vantaggio di partecipare.
Insomma, tutto il progetto, la vita di questa gente ed anche il mio stesso essere in quel punto del mondo dipendono, alla fine, dalle banane. E quindi non faccio che chiedermi: perché proprio qui? Cosa ha reso così grande la dimensione di questo commercio? E che implicazioni ha avuto sul territorio?
Le banane sono Cibo
A dire il vero, la maggior parte di noi non ha mai visto una pianta di banane. Il banano o Musa, appartenente alla famiglia delle Musacee, è la più grande pianta erbacea al mondo. Le piante sono generalmente scambiate per alberi per via della loro robustezza, ed il loro pseudofusto cresce a partire da un bulbo-tubero fino anche a 8 metri di altezza. Ogni pianta può produrre un solo casco di banane; dopo la fruttificazione lo pseudofusto muore e genera nuovi polloni, in un ciclo autorigenerante infinito. Lo sviluppo regolare richiede temperature superiori ai 16°C, piogge abbondanti, suolo ricco e di preferenza alluvionale. La fruttificazione richiede circa 10 mesi e dopo circa 10–12 settimane la banana viene raccolta. Anche i fiori del banano sono commestibili, crudi o cotti, oltre al cuore del fusto che risulta molto tenero. Le foglie, grandi, flessibili e impermeabili, sono usate per ripararsi e per conservare i cibi (Orto botanico di Padova). L’ambiente caldo e umido, e la diffusione prevalente di monocolture contribuiscono alla diffusione di funghi e batteri con estrema facilità; ciò fa sì che la banana sia la ‘fruta quimica’ per eccellenza: per la quantità di pesticidi, fungicidi e fertilizzanti utilizzati, con enormi conseguenze su ecosistemi e comunità umane (BananaLink).
La prima piantagione che visito insieme a Victoria si chiama Venecia e si trova appena fuori Carepa. Prima di entrare ci mettiamo gli stivali di gomma che abbiamo portato appositamente per l’ispezione. C’è una ciotola con acqua e disinfettante dove immergere le scarpe, poi un lavandino con sapone antibatterico, poi di nuovo un corridoio pieno d’acqua con passaggio obbligatorio. È necessario lasciare le proprie generalità all’entrata e motivare la visita – e magari anche spiegare come e perché una cittadina italiana si trovi lì… All’interno non si possono fare foto a meno di non essere autorizzati. Quasi tutti hanno i capelli raccolti in una cuffia; qualcuno ha anche il volto semicoperto da una mascherina chirurgica, abitudine iniziata da qualche anno in seguito alla pandemia di Covid – o il ‘Grande Problema Virale del primo mondo’, come lo chiama Vic. José, il responsabile di turno, ci guida in un tour della piantagione, dai campi fino alla zona di lavorazione. Ogni infiorescenza di banano genera un casco, che viene staccato dalla pianta e trasportato alla zona di lavorazione tramite un sistema di carrucole. I singoli grappoli – le mani – una volta staccati dai caschi, passano su nastri trasportatori dentro a grosse vasche in cui donne velocissime li separano in base alle caratteristiche delle banane – le dita: lunghe, corte, grosse, piccole, leggermente ammaccate, intonse. Paesi diversi richiedono qualità diverse; l’Italia, ci dice José, è il paese europeo con gli standard estetici più bassi – chi lo avrebbe mai detto! I frutti sono verdi, matureranno poi in seguito, nel tragitto verso l’Europa, nei magazzini in Spagna e Germania, nei supermercati in Italia e Francia. Gli operai con cui parliamo sembrano felici di lavorare lì, nonostante le tante ore di lavoro e il caldo asfissiante. Ci salutano tutti con grande calore; torniamo a casa con 10 chili di banane difettose, destinate al mercato locale o al compost.
Le banane sono Denaro
Il genere Musa è originario dell’Asia tropicale. È probabilmente intorno al 900 d.C che si hanno le prime testimonianze della sua presenza sulle coste africane; dall’Asia all’Africa, dall’Africa all’America tropicale (Power et al., 2019, 353). Ad oggi, il principale paese produttore è l’India, seguita da Cina, Indonesia, Nigeria e Brasile (The World Ranking, 2023). I principali paesi esportatori sono Ecuador, Costa Rica, Guatemala, Filippine e Colombia (OEC, 2023). La produzione mondiale supera le 140 milioni di tonnellate l’anno (FAOSTAT, 2023). Si stima un fatturato mondiale delle esportazioni di oltre 13 miliardi di dollari (OEC, 2023). Oggigiorno le banane sono il frutto fresco più esportato al mondo in termini di volume e rappresentano, in termini di valore lordo di produzione, la quarta coltura alimentare del mondo, dopo il riso, il grano e il mais. Il sistema di esportazione è un oligopolio a frangia competitiva: poche grandi imprese dominano il mercato e piccoli competitor vi partecipano senza però influenzare il prezzo del prodotto, accettandolo come dato. Fino agli anni ‘80 il mercato delle banane era dominato principalmente da tre grandi società multinazionali – Dole, Chiquita e Del Monte – che detenevano circa il 60% delle esportazioni. Questa percentuale è notevolmente diminuita negli anni – tanto che le tre aziende nel 2013 sono arrivate a detenere circa il 36% delle esportazioni mondiali – a causa di cambi strutturali nel mercato: ad esempio l’aumento della concorrenza regionale, l’introduzione del trasporto containerizzato e il cambiamento nelle preferenze dei consumatori (FAO, 2014,1). Ad oggi, queste aziende si occupano del trasporto, stoccaggio e distribuzione del prodotto, mentre si sono progressivamente staccate dalla produzione, stipulando dei contratti di fornitura – particolarmente stringenti in termini di qualità del prodotto e tempi di consegna – con produttori indipendenti. In questo modo tutta la responsabilità dei rischi di produzione – legati all’incertezza delle condizioni climatiche e fitosanitarie – e dei costi sociali e ambientali ricade esclusivamente sui produttori locali (Verité, 2021).
Il disinvestimento progressivo delle grandi imprese è stato anche una conseguenza delle lotte sindacali che hanno portato a aumenti salariali e standard più elevati nelle condizioni di lavoro, per cui le multinazionali hanno subito forti pressioni internazionali. L’esternalizzazione della produzione ha dunque permesso di aggirare il problema, riducendo i costi operativi ed evitando le responsabilità legali e sociali derivanti dalla presenza diretta sul territorio.
Le banane sono Storia
Non sono smeraldi né diamanti. Non è oro e non è neanche giallo. È verde, semmai. Se si sorvola il territorio settentrionale della Colombia si distinguono due gradazioni di verde. Una nella zona nord-occidentale, più scura, selvaggia: la selva del Darién, la Colombia che si restringe in un istmo – el tapòn – prima di diventare Panama. Dall’alto non si vede, ma lì dentro migliaia di migranti – la maggior parte venezuelani – attraversano il confine senza strade percorribili tra Sud e Centro America, affrontando una delle foreste più selvagge e pericolose del mondo (HRW, 2024), come una corrente che si stringe per poi riversarsi in Panama, Nicaragua, Guatemala, il lungo Messico fino alla Grande Frontiera Americana. A destra del Darién, un altro verde, più chiaro e ordinato, una natura antropizzata, quasi una versione tropicale vista dall’alto di un giardino all’inglese: ettari ed ettari di piantagioni di banane, su fino a perdersi nel Mar dei Caraibi. Dall’alto non si vede, ma lì dentro ci sono persone che nascono, vivono, lavorano e muoiono in una delle zone ritenute, negli anni, fra le più pericolose del paese, la Colombia del nord.
Le prime piantagioni di banane compaiono in Colombia – a Ciénaga, per la precisione – nel 1885 per mano di José Manuel Gonzalez Bermudez. Le proprietà passarono ben presto nelle mani di compagnie statunitensi, fino alla formazione nel 1899 della United Fruit Company (UFC). Nel giro di un decennio, si instaura l’asse commerciale che dalle umide zone dell’Urabá porta le banane verso le coste della Madgalena e da lì verso i porti statunitensi ed europei (Viloria de la Hoz, 2009, 33). È l’inizio di un commercio storico, che nonostante i conflitti armati, le epidemie agricole e le contestazioni sindacali non conoscerà battute di arresto, sino a segnare il territorio e le persone che ci vivono nella forma e nel destino: Urabá diventa ufficialmente ‘la región de las bananas’. Nel 1966, a seguito di una crisi agricola e di politiche economiche più stringenti sulle esportazioni, la UFC cessa le sue attività dirette in Urabá, operando una ‘disintegrazione verticale’ del suo monopolio, tramite la vendita delle piantagioni e il passaggio al comparto di marketing e vendita (Hough, 2019, 516). A partire dagli anni ‘70 i produttori locali si riorganizzano più autonomamente e nasce Augura (Asociación de Bananeros de Colombia). Le condizioni di lavoro sono spesso dure e precarie ed i salari bassi, poiché la tendenza di Augura è quella di abbassare al minimo i costi di produzione per aumentare i profitti; è così che la regione diviene un epicentro sperimentale della lotta sindacale (Bucheli, 2005, 149).
Ad oggi, nel fulcro bananero di Urabá – che comprende i municipi di Turbo, Carepa, Apartadó e Chigorodó – si concentrano circa 34.000 dei 50.000 ettari di piantagioni di banane dell’intera Colombia; il resto si trova più a nord, nella regione di Santa Marta (AUGURA, 2022). Gli anni di lotte e rivendicazioni hanno portato Urabá ad essere attualmente una delle regioni in cui i sindacati sono più attivi e riconosciuti, con conseguenti vantaggi per i lavoratori. Le condizioni di lavoro nelle bananere e di vita nelle comunità annesse sono generalmente percepite dagli operai come buone – talvolta anche molto buone, tanto da essere un’occupazione ambita. I turni sono lunghi e possono arrivare anche a dodici ore, ma ciò è dovuto anche all’adattamento alle condizioni climatiche del contesto – tutte le attività lavorative iniziano molto presto la mattina per sfruttare le ore più fresche ed il ritmo durante il giorno è più lento. In compenso i salari sono più alti del salario minimo, la mensa è inclusa e talvolta anche l’assistenza sanitaria. Tuttavia queste condizioni possono variare molto in altre regioni, ad esempio nella Madgalena, dove le piantagioni sono più piccole, ci sono più intermediari e le aziende esportatrici sono meno soggette a certificazioni di sostenibilità.
Le banane sono Conflitto
« “Eran más de tres mil [lo muertos n.d.r] – fue todo cuanto dijo José Arcadio Segundo-. Ahora estoy seguro que eran todos los que estaban en la estación”
Gabriel García Márquez, Cien años de soledad (Marquez 1967, 364) »
“Erano più di tremila [i morti n.d.r] – fu tutto ciò che disse José Arcadio Segundo – Adesso sono sicuro che erano tutti quelli che stavano alla stazione.”
Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine (Marquez 1988, 150)
L’episodio che Marquez ci racconta, in Cent’anni di solitudine (1967), è passato alla storia come “la masacre de las bananeras”. Nel novembre del 1928, a Ciénaga, dipartimento della Magdalena, centinaia di operai della United Fruit Company – che detenne il monopolio del commercio bananero fino al 1966 – iniziarono uno sciopero per chiedere migliori condizioni di lavoro. Il 5 dicembre, dopo settimane di forte pressione e minaccia da parte dell’impresa americana, il governo guidato dal conservatore Méndez diede il permesso all’esercito di reprimere i contestatori con la forza (Díaz Jaramillo, 2019). Banane e sangue sono legate nella memoria storica e individuale; molte sono le testimonianze ed i ricordi di atti di violenza avvenuti dentro le stesse piantagioni, spesso utilizzate anche per l’occultamento dei cadaveri.
Quella che viene definita l’ultima ‘guerra civile’ colombiana infiamma il paese dagli anni ’60 e, in un certo senso, si può dire sia tuttora in corso. Si tratta di un conflitto intestino, fratricida e brutale, tra guerrilleros da una parte – le FARC, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, ovvero gruppi di ribelli armati – e paramilitares dall’altra – la AUC, Autodefensas Unidas de Colombia, formata da civili armati dal governo contro i guerriglieri. Innumerevoli atti di barbarie sono stati commessi dai quali si stimano più di 450.000 morti e 100.000 desaparecidos (Comisión de la Verdad, 2022, 179), la palla della violenza è rimbalzata più volte fra le parti coinvolte, legandosi a doppio filo alle armi, alla cocaina, agli smeraldi, alla terra. E in particolare alla terra di Urabá.
La cittadina di Turbo, porto della regione di Antioquia, è lo sbocco naturale sul golfo di Urabá. Da qui, ogni giorno, da decenni, partono i container che portano le banane nel resto del mondo. Ma non solo. La posizione strategica ha fatto sì che questo diventasse lo snodo principale per l’esportazione della cocaina e l’introduzione di armi nella regione, fin dagli anni ‘70 con il consolidamento della presenza delle FARC nel golfo. I gruppi di guerrilla trovarono terreno fertile nel malcontento dei lavoratori delle bananeras, ed il loro appoggio fu fondamentale nelle lotte sindacali (Hough, 2019, 518). A partire dagli anni ‘80-’90, con l’ingresso di gruppi armati paramilitari dell’AUC, il territorio diventa l’infelice teatro del conflitto armato (Centro Nacional de Memoria Histórica, 2022, 118). Turbo, infatti, detiene anche un altro triste record: è il municipio colombiano con il più alto numero – più di 2500 – di richieste di restituzione della terra da parte degli piccoli agricoltori – i campesinos (García et al., 2017):
“Los paramilitares llegaban a un pueblo, acusaban a algunos campesinos de colaborar con la guerrilla y los mataban en la plaza, delante de todos. Hubo mucha masacre. Entonces llegaban los comisionistas o los testaferros de los grandes empresarios. ¿Y ustedes qué van a hacer con las tierras? Y claro, los campesinos vendían. ¡Cómo no iban a vender! Pero lo hacían por muy poca plata. Lo único que querían era salir de allí”
“I paramilitari arrivavano in un villaggio, accusavano alcuni contadini di collaborare con la lotta armata e li uccidevano in mezzo alla piazza, davanti a tutti. Ci furono molte stragi. Poi arrivavano gli intermediari e i prestanome dei grandi impresari [N.d.R. bananeri]. ‘Che cosa volete fare con le terre?’, chiedevano. E chiaramente, i contadini vendevano. Come potevano non farlo! Però lo facevano per pochissimo denaro. L’unica cosa che volevano era andarsene di lì”.
Carlos Páez di ‘Tierra y Paz’, associazione di contadini senza terra in Urabá (da un’intervista all’interno di García et al., 2017).
Ed ecco perché i nomi dei vertici delle grandi imprese bananere sono sempre gli stessi. Nel 2004 la Chiquita è uscita dal paese dopo essere stata accusata di legami con i gruppi armati paramilitari. È stata processata nel 2007 e costretta a pagare una multa di 25 milioni di dollari al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti (U.S. Department of justice, 2007). Con buona pace delle vittime colombiane.
“Ese dinero se utilizó para comprar armas, (…) munición, se utilizó para pagar el sueldo de los muchachos, la bonificación que se les daba. Se utilizó para comprar comida, uniformes, material de intendencia. Entonces desde luego sirvió para matar gente en Urabá”.
“Quel denaro fu utilizzato per comprare armi, munizioni, fu usato per pagare il salario dei ragazzi, i bonus che gli davamo. Fu utilizzato per comprare cibo, uniformi, materiale di amministrazione. Quindi, certamente, servì per uccidere persone in Urabá.”
Ever Veloza, alias ‘HH’, comandante paramilitare del Bloque Bananero, confessione ufficiale del 2011 (Fiscalía General de la Nación, 2013, 300)
Quest’uso della forza protratto nel tempo, giustificato dalla paura dei guerrilleros ed appoggiato dal governo nell’interesse dei ricchi imprenditori – los ricos – per perpetuare il controllo su territori e gruppi sociali è una peculiarità del conflitto colombiano. La cosiddetta resistencia guerrillera – intesa come rivolta al potere costituito – ha origini antiche e nasce come movimento di liberazione dai conquistadores. Per questo il termine guerrilla fu poi associato a movimenti armati nati nel XX secolo in risposta a disuguaglianze sociali e repressioni statali. Sebbene ne siano esistite frange più ideologiche, sono quelle più violente ad aver seminato il terrore tra gli anni ‘60 fino ai primi anni del 2000, tra sequestri di persona ed estorsioni (HCHR, 2013). La percezione reale di insicurezza della popolazione è stata alimentata dalla narrazione mediatica, cosicché l’azione paramilitare è stata ritenuta non solo necessaria, ma persino giustificata fino nei suoi atti estremi, purché fosse eliminato fino all’ultimo guerrillero. Ed effettivamente l’AUC questo scopo l’ha perseguito bene, solo che il fine per cui era stata creata non era la liberazione, ma il controllo, con le conseguenze già descritte. Ne è esempio il tremendo fenomeno dei falsos positivos, ragazzi e perfino bambini uccisi e spacciati per guerrilleros, solo per continuare a giustificare la presenza e l’azione paramilitare (HRW, 2015). Il fenomeno delle giovani morti senza risposta continua a esistere, soprattutto in Urabà, omicidi che non trovano condanna pubblica né chiara giustificazione (El Colombiano, 2023).
Il controllo paramilitare è ancora molto forte, anche dopo gli accordi di pace con le FARC del 2016, soprattutto nel Nord, con l’emergere di nuovi gruppi armati come il Clan del Golfo (InSight Crime, 2025). Ricordo Victoria che mi dice che il signore tanto gentile che ci aiutava quando ci si fermava il motorino poteva essere un paramilitare che non avrebbe esitato a farla fuori al momento opportuno – lei all’epoca era in campagna elettorale come candidata al consiglio comunale ed aveva già ricevuto delle minacce. La mia impressione è che le giovani generazioni siano consapevoli della questione e che dopo anni di governi corrotti e filo-paramilitari – Uribe, Duque – ripongano molta speranza nell’attuale presidente Gustavo Petro, il primo di una coalizione di sinistra dopo decenni – fra l’altro militante in gioventù nella guerrilla urbana M‑19. Ciò non toglie che a livello generale si tratta di un popolo ferito e ancora rancoroso, una sofferenza che è iniziata come quella di molti altri paesi col colonialismo, non sanata e quindi riversata poi all’interno in una guerra fratricida nel vero senso del termine. Una ferita che è ancora un ostacolo alla creazione di una pace reale. Basti pensare che solo nel 2016, al referendum che chiedeva se si volesse o no la pace con le FARC, vinse il No – risultato che poi non fu considerato dall’allora presidente Santos. Ma la questione non si è affatto conclusa con gli accordi di pace ufficiali.
Tra tutte, la questione della terra è sicuramente una delle più sentite. A partire dagli anni ‘80, l’Esercito Popolare di Liberazione (EPL) appoggiò e promosse la riappropriazione dei terreni non coltivati da parte dei campesinos senza terra (Centro Nacional de Memoria Histórica. 2016). Tuttavia ancora ad oggi in Colombia il 14% dei proprietari possiede l’ 80% delle terre (Oxfam, 2013). Petro ha fatto tante promesse in campagna elettorale sulla questione, ma nel frattempo capita che ci siano invasioni ed occupazioni illegali – fomentate probabilmente da paramilitari – nelle proprietà private di alcune persone di classe media, che hanno l’effetto di screditare le richieste legittime, associando il fenomeno a disordini sociali (Semana, 2022).
Le banane sono Comunità
Emarginare, ‘porre ai margini’.
Destino vuole che questo territorio ai margini ci sia già, quelli fisici, terrestri. Uno stretto passaggio di terra da un lato, e il mare dall’altro.
Si apre già sull’Oltre – il mare e quell’America tanto sognata –, ma è sempre Colombia; è soprattutto Colombia. «Come sono lì?» – mi chiederanno poi a Bogotà i familiari di Laura, l’amica colombiana che mi ospita nella seconda parte del viaggio. Vivono in una bella villetta circondata da alte mura e filo spinato. «Sono più neri di noi, vero? Quante armi hai visto per strada? Perché sei andata lì?». Eppure, rifletto, sono colombiani anche loro, sono tutti parte del medesimo paese in cui convivono più di 100 gruppi etnici – tra mestizi, bianchi, afrodiscendenti e popolazioni indigene (DANE, 2019) – e soprattutto in cui le esportazioni di banane continuano a generare quasi 900 milioni di dollari l’anno (Statista, 2024). È la storia più vecchia del mondo, vera a tutte le latitudini: costruire un’immagine spaventosa e stereotipata dei nostri simili ci aiuta a sentirci meno coinvolti, anche nelle nostre responsabilità.
Eppure esistono. Si stima che solo nei 12.000 km2 di Urabá vivano più di 500.000 persone, di cui il 47% in comunità rurali. La maggioranza della popolazione ha meno di 30 anni (CTPA, 2020, 2). L’industria bananera con le sue 340 piantagioni genera più di 100.000 impieghi (tra diretti e indiretti) nella regione. La retribuzione nel settore è superiore al salario medio a livello nazionale. Il lavoro nelle piantagioni è in prevalenza maschile, essendo l’impiego femminile minore del 10% sul totale (Penagos, 2017, 51).
Le comunità rurali sono quasi invisibili anche dall’alto, si perdono nel verde. Gli uomini escono prima dell’alba, le donne per lo più rimangono tra le quattro mura di casa, guardano i bambini, preparano il cibo, aspettano il ritorno degli uomini: fanno scorrere il tempo. Ma qui il tempo sembra eterno ed immutabile: le stagioni non si alternano, ce n’è solo una con una temperatura media di 30°C (percepita 40°C) e più dell’80% di umidità. Un tempo la stagione delle piogge era più definita, adesso può piovere anche tutti i giorni con puntualità oraria. L’unico vero segno evidente dello scorrere del tempo è la crescita dei piccoli umani, in numero e in età.
La lunga mattinata di scuola è già cominciata. Le attività di educazione sono tra le principali mansioni dei volontari di Ecológica; le lezioni si dividono generalmente in una parte dedicata all’educazione ambientale – in particolare quali sono e come si riciclano i rifiuti che producono – e una parte di lingua straniera, diversa a seconda della provenienza del volontario. Ci troviamo nella comunità El Tesoro, nelle vicinanze di Carepa. Sono l’unica volontaria al momento, quindi sono immersa in una clase di italiano. C’è una cosa universalmente valida in ogni angolo del mondo, persino in una piccola scuola rurale in mezzo alle piantagioni di banane: il suono della campanella della ricreazione sprigiona un’energia repressa di difficile contenimento. Chi può si compra qualcosa da mangiare o da bere – rigorosamente non acqua, non c’è acqua in tutta la scuola neanche nella pausa pranzo, solo bibite zuccherate. Il caldo e l’umidità opprimono, ma loro sembrano non rendersene conto, è il miracolo dell’adattamento fisiologico del corpo alle condizioni esterne. I più curiosi e meno timidi si avvicinano, chiedono dell’Italia, dov’è, come ci si arriva, quanto costa un biglietto in pesos, come si dice pollo, scarpe, albero, bambino, andare in bicicletta. Si rientra in classe, inizia la lezione, il tono di voce si alza e si abbassa modulandosi sul livello di partecipazione ed esuberanza. Ad un certo punto però neanche la voce ce la fa, la classe si ferma, una pausa forzata e abitudinaria in cui nessuno ha più voglia di fare un granché. Qualcuno guarda fuori dalla finestra, qualcuno si tappa le orecchie; in cortile, la preside esce, guarda il cielo. «Ricordatevi di fare foto e video» – dice alle bidelle – «anche oggi troppo vicini. Come sempre.» I carichi di pesticidi vengono scaricati sulle piantagioni dalle 3 alle 4 volte a settimana da aerei cargo a bassissima quota. Lo scarico dovrebbe avvenire a debita distanza dai villaggi abitati. Ciò nonostante, le regole spesso non vengono rispettate, tanti bambini presentano rush cutanei e le falde acquifere a cui accedono le comunità sono spesso contaminate (La Liga Contra el Silencio, 2020). La preside rientra, chiude la porta del suo ufficio; sulla parete esterna, una grande scritta:
“Los derechos humanos son para todos nosotros”.
Le banane sono Diritti?
Da circa 20 anni anche nel settore bananero, in Colombia, si è diffusa sempre di più la modalità di mercato conosciuta come commercio equo e solidale o fair trade – l’etichetta più conosciuta e diffusa è FairTrade International (FairTrade Foundation). Questo sistema offre maggiori tutele soprattutto a piccoli produttori appartenenti a cooperative indipendenti,ad esempio: la garanzia di salari equi e buone condizioni di lavoro per gli operai delle piantagioni; la tutela dei diritti sindacali; la possibilità di finanziamenti anticipati per produttori e importatori, in caso di andamento negativo della produzione; il non utilizzo di manodopera infantile; un’agricoltura sostenibile che limiti l’uso di pesticidi chimici e che contribuisca a proteggere e rispettare l’ambiente naturale. Inoltre, all’impresa partner del commercio fair trade, è garantito il pagamento di un prezzo equo, al riparo dalle fluttuazioni del mercato. Questo prezzo può arrivare fino a sei volte quello pagato dagli intermediari locali e non può comunque mai scendere sotto un minimo prefissato (FairTrade Italia). A livello economico, per ogni cassa di banane esportata, l’organizzazione fair trade paga 1$ alle imprese bananere; i fondi devono essere reinvestiti in progetti di sviluppo per le comunità, attraverso il finanziamento di strutture quali scuole e assistenza medica di base, così come programmi per la tutela ambientale, il miglioramento della qualità e la conversione al biologico (FairTrade Italia, 2022).
Si tratta, nel complesso, di una maniera più giusta di gestire una produzione e un commercio estremamente radicati sul territorio, da cui dipende tuttora la sussistenza di migliaia di persone. Tuttavia, il sistema fair trade resta suscettibile a miglioramenti e necessita di costanti riscontri sull’effettivo beneficio apportato alle comunità. I controlli sul rispetto degli standard nelle condizioni di lavoro vengono generalmente svolti da enti indipendenti, come ad esempio la tedesca FLOCERT. Inoltre, ad esempio, il passaggio ad un’agricoltura più sostenibile e meno impattante sull’ambiente nel caso delle coltivazione dei banani è estremamente difficile, poiché il preimpostato sistema monocolturale su larga scala necessita di un uso selvaggio di pesticidi per scongiurare epidemie (EWG, 2023). Ultima, ma non certo per importanza, la questione della contaminazione dell’aria e dell’acqua e delle patologie derivanti per i lavoratori e i membri delle comunità. La stessa organizzazione CLAC Comercio Justo (CLAC), partner di FairTrade in America Latina, attiva in progetti per l’inclusione e i diritti dei lavoratori, non entra nello specifico del tema della salute. Certamente non è una questione di facile risoluzione, poiché metterebbe in discussione la struttura stessa del mercato.
È il paradosso del sistema capitalistico: le forme di dipendenza sono così complesse che ogni cambiamento, per quanto necessario, dovrebbe avvenire in modo graduale e controllato, tenendo conto del miglioramento delle condizioni di vita del contesto stesso. Ma si può davvero cambiare un sistema ormai costituito da quella che è stata una ricerca del profitto senza pensare alle conseguenze, senza gravare su coloro che già ne stanno subendo le conseguenze? Come si possono migliorare o convertire attività produttive di tale portata, senza che questo porti a perdite economiche che inevitabilmente ricadranno sulla gente? Il che vale ovviamente non solo per le banane, ma per tante monocolture di prodotti usati su scala globale, come cacao, caffè, cotone… Non possiamo aspettarci che il cambiamento parta dalle multinazionali, la storia – anche quella di Urabá – ci ha insegnato però che, per quanto avverse siano le condizioni al contorno, l’autorganizzazione e la voglia di cambiamento possono essere un rimedio all’assuefazione.
Ed è qualcosa che ha a che fare con il valore dato alla vita. Spesso sentendo raccontare le storie del conflitto, mi sono chiesta quale fosse la percezione della propria vita di una persona cresciuta con un’abitudine quotidiana alla morte e alla violenza. Come accade anche in contesti di vulnerabilità più vicini al nostro, spesso il risultato è quello di uno stato di inerzia – sia fisica che morale – o quella che Victoria chiamava, riferendosi al suo contesto, la mentalità della povertà: persone povere che vedono con vergogna i tentativi dei figli di uscire dalle situazioni di disagio – come il caso della collaboratrice di Ecológica, raccoglitrice di rifiuti di strada e osteggiata dalla famiglia quando ha deciso di fare lo stesso lavoro ma con un regolare contratto. Si tratta certamente di una dinamica instaurata da interessi specifici, che vanno se vogliamo anche al di là delle responsabilità dei singoli, però rientra tra i fattori che limitano la possibilità di cambiamento. Ma da qualche parte bisogna pur partire.
Spesso al mattino, preparando la colazione prima di andare a lavoro, vedo le banane nel portafrutta, le vedo annerirsi. Mi astraggo e rifletto su come cambierebbe la vita di tutte le persone che ho conosciuto se una parte di mondo smettesse di comprare quello che per noi è un semplice frutto. Ripenso alle parole di Victoria, a quando con me versava lacrime amare, dicendo che il suo paese non cambierà mai perché non vuole, come se l’indolenza e l’abitudine alla violenza fossero mischiati allo stesso sangue che scorre nelle vene della gente. Ma, mentre lo diceva, scorgevo in fondo ai suoi occhi bagnati un radicamento che io ho perso – o forse non ho mai avuto – l’amore profondo per i sogni infiniti, per quell’aria calda e umida, per quella terra intensa e struggente.
Bibliografia
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