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Giugno
5 Giugno 2025

CRO­NA­CHE DI UN BANA­NA BREAD: IL LEGA­ME FRA L’IN­DU­STRIA BANA­RE­RA E I TER­RI­TO­RI NORD-COLOM­BIA­NI

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È mat­ti­na, ci pre­pa­ria­mo la cola­zio­ne pri­ma di anda­re a lavo­ro. Dia­mo un’occhiata alla nostra cuci­na, scor­gia­mo le bana­ne nel por­ta­frut­ta; alcu­ne si stan­no anne­ren­do, valu­tia­mo l’opzione di pre­pa­rar­ci un bel frul­la­to. Ci han­no det­to che le bana­ne con­ten­go­no mol­to potas­sio. Sap­pia­mo anche che è rac­co­man­da­to man­giar­ne una se ci vie­ne un cram­po. Ma anche che, se diven­ta­no trop­po matu­re, pos­sia­mo sem­pre pre­pa­rar­ci un bana­na bread: ne abbia­mo a deci­ne di ricet­te sal­va­te su Insta­gram, le blog­ger di cuci­na la pro­pon­go­no sem­pre come l’incredibile ricet­ta anti-spre­co – ridu­cia­mo lo spre­co ali­men­ta­re, com­bat­tia­mo il cam­bio cli­ma­ti­co, tut­to solo con un dol­ce! Deci­dia­mo che lo fare­mo anche noi sta­se­ra; la nostra buo­na azio­ne gior­na­lie­ra per sal­va­re il mon­do.

È pas­sa­to un anno e mez­zo da quan­do ho avu­to il pri­vi­le­gio di arri­va­re in uno dei pae­si più bel­li e com­ples­si del mon­do, dove sape­vo già che avrei pre­so mol­to di più di quel­lo che mi sen­to di aver lascia­to. Ripen­so al mio arri­vo. Vic­to­ria e Feli­pe mi ven­go­no a pren­de­re alla fer­ma­ta del bus: ho sva­ria­te ore di ritar­do, il tele­fo­no sca­ri­co, discu­tia­mo con il con­du­cen­te che non mi vuo­le dare lo zai­no per­ché non tro­vo il pez­zo di car­ta che mi han­no con­se­gna­to quan­do sono sali­ta. Alla fine lo con­vin­cia­mo, salia­mo in mac­chi­na, ma io sono anco­ra un po’ scos­sa e con­ti­nuo a riper­cor­re­re l’episodio. Vic e Pipe rido­no, «Bien­ve­ni­da a Colom­bia, Sofia. No lo pien­ses más – non ci pen­sa­re più – Ya se fue – ormai è anda­ta»

Sono pas­sa­ti cin­que anni da quan­do Vic­to­ria e Feli­pe han­no comin­cia­to la loro pic­co­la impre­sa fami­lia­re di rac­col­ta e rici­clo dei rifiu­ti. Un’idea che nasce dall’esperienza di Vic­to­ria in Ita­lia, a Napo­li, dove rima­ne affa­sci­na­ta dal siste­ma di rac­col­ta dif­fe­ren­zia­ta e, una vol­ta tor­na­ta in Colom­bia, deci­de di met­ter­lo in pra­ti­ca in pri­ma per­so­na sul suo ter­ri­to­rio. Così a Care­pa (Apar­ta­dò), nel cuo­re del­la región de las bana­nas, nasce il pro­get­to di Eco­ló­gi­ca Reco­nec­tan­do. Vic­to­ria Vil­la­nue­va Fran­co ha una gran­de pas­sio­ne, radi­ci indi­ge­ne ed è una lea­der di natu­ra. L’idea alla base del pro­get­to è in veri­tà alquan­to ori­gi­na­le. In un con­te­sto in cui la men­ta­li­tà comu­ne è anco­ra quel­la di far­si paga­re in cam­bio dei pro­pri rifiu­ti, Vic­to­ria ha pen­sa­to a una ‘mer­ce di scam­bio’ che aves­se anche più valo­re del dena­ro e che faces­se par­te del suo baga­glio: la cono­scen­za, l’educazione e la comu­ni­ca­zio­ne. «Inter­cam­biar reci­cla­je por cono­ci­mien­to» – barat­ta­re il rici­clo con la cono­scen­za – è il mot­to di Eco­ló­gi­ca e le sue atti­vi­tà sono dun­que mol­te­pli­ci: por­ta­re avan­ti un siste­ma di rac­col­ta dif­fe­ren­zia­ta ter­ri­to­ria­le, for­nen­do con­te­ni­to­ri e pun­ti di rac­col­ta ed edu­can­do la popo­la­zio­ne al con­su­mo e rici­clo con­sa­pe­vo­le; dare lezio­ni di edu­ca­zio­ne ambien­ta­le e lin­gui­sti­ca alle gio­va­ni gene­ra­zio­ni del­le comu­ni­tà, anche attra­ver­so il lavo­ro dei volon­ta­ri; pro­cu­ra­re un impie­go sta­bi­le e digni­to­so ai rac­co­gli­to­ri di stra­da, figu­re tan­to emar­gi­na­te quan­to fon­da­men­ta­li per il siste­ma di rici­clo. Il pro­get­to di Eco­ló­gi­ca è in par­te finan­zia­to dal­le impre­se bana­ne­re, che par­te­ci­pa­no alla rac­col­ta e inve­sto­no par­te dei fon­di desti­na­ti da Fair Tra­de per pro­get­ti con le comu­ni­tà. Al momen­to solo una pic­co­la per­cen­tua­le del­le impre­se col­la­bo­ra con Eco­ló­gi­ca: fino a che gli stan­dard in mate­ria di con­su­mo e rici­clo di mate­ria­li duran­te il ciclo di vita del­le bana­ne non ver­ran­no impo­sti per leg­ge – anche a livel­lo euro­peo –, buo­na par­te dei pro­dut­to­ri non vedran­no il van­tag­gio di par­te­ci­pa­re. 

Insom­ma, tut­to il pro­get­to, la vita di que­sta gen­te ed anche il mio stes­so esse­re in quel pun­to del mon­do dipen­do­no, alla fine, dal­le bana­ne. E quin­di non fac­cio che chie­der­mi: per­ché pro­prio qui? Cosa ha reso così gran­de la dimen­sio­ne di que­sto com­mer­cio? E che impli­ca­zio­ni ha avu­to sul ter­ri­to­rio?

Le bana­ne sono Cibo

A dire il vero, la mag­gior par­te di noi non ha mai visto una pian­ta di bana­ne. Il bana­no o Musa, appar­te­nen­te alla fami­glia del­le Musa­cee, è la più gran­de pian­ta erba­cea al mon­do. Le pian­te sono gene­ral­men­te scam­bia­te per albe­ri per via del­la loro robu­stez­za, ed il loro pseu­do­fu­sto cre­sce a par­ti­re da un bul­bo-tube­ro fino anche a 8 metri di altez­za. Ogni pian­ta può pro­dur­re un solo casco di bana­ne; dopo la frut­ti­fi­ca­zio­ne lo pseu­do­fu­sto muo­re e gene­ra nuo­vi pol­lo­ni, in un ciclo auto­ri­ge­ne­ran­te infi­ni­to. Lo svi­lup­po rego­la­re richie­de tem­pe­ra­tu­re supe­rio­ri ai 16°C, piog­ge abbon­dan­ti, suo­lo ric­co e di pre­fe­ren­za allu­vio­na­le. La frut­ti­fi­ca­zio­ne richie­de cir­ca 10 mesi e dopo cir­ca 10–12 set­ti­ma­ne la bana­na vie­ne rac­col­ta. Anche i fio­ri del bana­no sono com­me­sti­bi­li, cru­di o cot­ti, oltre al cuo­re del fusto che risul­ta mol­to tene­ro. Le foglie, gran­di, fles­si­bi­li e imper­mea­bi­li, sono usa­te per ripa­rar­si e per con­ser­va­re i cibi (Orto bota­ni­co di Pado­va).  L’ambiente cal­do e umi­do, e la dif­fu­sio­ne pre­va­len­te di mono­col­tu­re con­tri­bui­sco­no alla dif­fu­sio­ne di fun­ghi e bat­te­ri con estre­ma faci­li­tà; ciò fa sì che la bana­na sia la ‘fru­ta qui­mi­ca’ per eccel­len­za: per la quan­ti­tà di pesti­ci­di, fun­gi­ci­di e fer­ti­liz­zan­ti uti­liz­za­ti, con enor­mi con­se­guen­ze su eco­si­ste­mi e comu­ni­tà uma­ne (Bana­na­Link). 

La pri­ma pian­ta­gio­ne che visi­to insie­me a Vic­to­ria si chia­ma Vene­cia e si tro­va appe­na fuo­ri Care­pa. Pri­ma di entra­re ci met­tia­mo gli sti­va­li di gom­ma che abbia­mo por­ta­to appo­si­ta­men­te per l’ispezione. C’è una cio­to­la con acqua e disin­fet­tan­te dove immer­ge­re le scar­pe, poi un lavan­di­no con sapo­ne anti­bat­te­ri­co, poi di nuo­vo un cor­ri­do­io pie­no d’acqua con pas­sag­gio obbli­ga­to­rio. È neces­sa­rio lascia­re le pro­prie gene­ra­li­tà all’entrata e moti­va­re la visi­ta – e maga­ri anche spie­ga­re come e per­ché una cit­ta­di­na ita­lia­na si tro­vi lì… All’interno non si pos­so­no fare foto a meno di non esse­re auto­riz­za­ti. Qua­si tut­ti han­no i capel­li rac­col­ti in una cuf­fia; qual­cu­no ha anche il vol­to semi­co­per­to da una masche­ri­na chi­rur­gi­ca, abi­tu­di­ne ini­zia­ta da qual­che anno in segui­to alla pan­de­mia di Covid – o il ‘Gran­de Pro­ble­ma Vira­le del pri­mo mon­do’, come lo chia­ma Vic. José, il respon­sa­bi­le di tur­no, ci gui­da in un tour del­la pian­ta­gio­ne, dai cam­pi fino alla zona di lavo­ra­zio­ne. Ogni infio­re­scen­za di bana­no gene­ra un casco, che vie­ne stac­ca­to dal­la pian­ta e tra­spor­ta­to alla zona di lavo­ra­zio­ne tra­mi­te un siste­ma di car­ru­co­le. I sin­go­li grap­po­li – le mani – una vol­ta stac­ca­ti dai caschi, pas­sa­no su nastri tra­spor­ta­to­ri den­tro a gros­se vasche in cui don­ne velo­cis­si­me li sepa­ra­no in base alle carat­te­ri­sti­che del­le bana­ne – le dita: lun­ghe, cor­te, gros­se, pic­co­le, leg­ger­men­te ammac­ca­te, inton­se. Pae­si diver­si richie­do­no qua­li­tà diver­se; l’Italia, ci dice José, è il pae­se euro­peo con gli stan­dard este­ti­ci più bas­si – chi lo avreb­be mai det­to! I frut­ti sono ver­di, matu­re­ran­no poi in segui­to, nel tra­git­to ver­so l’Europa, nei magaz­zi­ni in Spa­gna e Ger­ma­nia, nei super­mer­ca­ti in Ita­lia e Fran­cia. Gli ope­rai con cui par­lia­mo sem­bra­no feli­ci di lavo­ra­re lì, nono­stan­te le tan­te ore di lavo­ro e il cal­do asfis­sian­te. Ci salu­ta­no tut­ti con gran­de calo­re; tor­nia­mo a casa con 10 chi­li di bana­ne difet­to­se, desti­na­te al mer­ca­to loca­le o al com­po­st. 

Le bana­ne sono Dena­ro

Il gene­re Musa è ori­gi­na­rio dell’Asia tro­pi­ca­le. È pro­ba­bil­men­te intor­no al 900 d.C che si han­no le pri­me testi­mo­nian­ze del­la sua pre­sen­za sul­le coste afri­ca­ne; dall’Asia all’Africa, dall’Africa all’America tro­pi­ca­le (Power et al., 2019, 353). Ad oggi, il prin­ci­pa­le pae­se pro­dut­to­re è l’India, segui­ta da Cina, Indo­ne­sia, Nige­ria e Bra­si­le (The World Ran­king, 2023). I prin­ci­pa­li pae­si espor­ta­to­ri sono Ecua­dor, Costa Rica, Gua­te­ma­la, Filip­pi­ne e Colom­bia (OEC, 2023). La pro­du­zio­ne mon­dia­le supe­ra le 140 milio­ni di ton­nel­la­te l’anno (FAO­STAT, 2023). Si sti­ma un fat­tu­ra­to mon­dia­le del­le espor­ta­zio­ni di oltre 13 miliar­di di dol­la­ri (OEC, 2023). Oggi­gior­no le bana­ne sono il frut­to fre­sco più espor­ta­to al mon­do in ter­mi­ni di volu­me e rap­pre­sen­ta­no, in ter­mi­ni di valo­re lor­do di pro­du­zio­ne, la quar­ta col­tu­ra ali­men­ta­re del mon­do, dopo il riso, il gra­no e il mais. Il siste­ma di espor­ta­zio­ne è un oli­go­po­lio a fran­gia com­pe­ti­ti­va: poche gran­di impre­se domi­na­no il mer­ca­to e pic­co­li com­pe­ti­tor vi par­te­ci­pa­no sen­za però influen­za­re il prez­zo del pro­dot­to, accet­tan­do­lo come dato. Fino agli anni ‘80 il mer­ca­to del­le bana­ne era domi­na­to prin­ci­pal­men­te da tre gran­di socie­tà mul­ti­na­zio­na­li – Dole, Chi­qui­ta e Del Mon­te – che dete­ne­va­no cir­ca il 60% del­le espor­ta­zio­ni. Que­sta per­cen­tua­le è note­vol­men­te dimi­nui­ta negli anni – tan­to che le tre azien­de nel 2013 sono arri­va­te a dete­ne­re cir­ca il 36% del­le espor­ta­zio­ni mon­dia­li – a cau­sa di cam­bi strut­tu­ra­li nel mer­ca­to: ad esem­pio l’aumento del­la con­cor­ren­za regio­na­le, l’introduzione del tra­spor­to con­tai­ne­riz­za­to e il cam­bia­men­to nel­le pre­fe­ren­ze dei con­su­ma­to­ri (FAO, 2014,1). Ad oggi, que­ste azien­de si occu­pa­no del tra­spor­to, stoc­cag­gio e distri­bu­zio­ne del pro­dot­to, men­tre si sono pro­gres­si­va­men­te stac­ca­te dal­la pro­du­zio­ne, sti­pu­lan­do dei con­trat­ti di for­ni­tu­ra – par­ti­co­lar­men­te strin­gen­ti in ter­mi­ni di qua­li­tà del pro­dot­to e tem­pi di con­se­gna – con pro­dut­to­ri indi­pen­den­ti. In que­sto modo tut­ta la respon­sa­bi­li­tà dei rischi di pro­du­zio­ne – lega­ti all’incertezza del­le con­di­zio­ni cli­ma­ti­che e fito­sa­ni­ta­rie – e dei costi socia­li e ambien­ta­li rica­de esclu­si­va­men­te sui pro­dut­to­ri loca­li (Veri­té, 2021). 

Il disin­ve­sti­men­to pro­gres­si­vo del­le gran­di impre­se è sta­to anche una con­se­guen­za del­le lot­te sin­da­ca­li che han­no por­ta­to a aumen­ti sala­ria­li e stan­dard più ele­va­ti nel­le con­di­zio­ni di lavo­ro, per cui le mul­ti­na­zio­na­li han­no subi­to for­ti pres­sio­ni inter­na­zio­na­li. L’esternalizzazione del­la pro­du­zio­ne ha dun­que per­mes­so di aggi­ra­re il pro­ble­ma, ridu­cen­do i costi ope­ra­ti­vi ed evi­tan­do le respon­sa­bi­li­tà lega­li e socia­li deri­van­ti dal­la pre­sen­za diret­ta sul ter­ri­to­rio. 

Le bana­ne sono Sto­ria

Non sono sme­ral­di né dia­man­ti. Non è oro e non è nean­che gial­lo. È ver­de, sem­mai. Se si sor­vo­la il ter­ri­to­rio set­ten­trio­na­le del­la Colom­bia si distin­guo­no due gra­da­zio­ni di ver­de. Una nel­la zona nord-occi­den­ta­le, più scu­ra, sel­vag­gia: la sel­va del Darién, la Colom­bia che si restrin­ge in un ist­mo – el tapòn – pri­ma di diven­ta­re Pana­ma. Dall’alto non si vede, ma lì den­tro miglia­ia di migran­ti – la mag­gior par­te vene­zue­la­ni – attra­ver­sa­no il con­fi­ne sen­za stra­de per­cor­ri­bi­li tra Sud e Cen­tro Ame­ri­ca, affron­tan­do una del­le fore­ste più sel­vag­ge e peri­co­lo­se del mon­do (HRW, 2024), come una cor­ren­te che si strin­ge per poi river­sar­si in Pana­ma, Nica­ra­gua, Gua­te­ma­la, il lun­go Mes­si­co fino alla Gran­de Fron­tie­ra Ame­ri­ca­na. A destra del Darién, un altro ver­de, più chia­ro e ordi­na­to, una natu­ra antro­piz­za­ta, qua­si una ver­sio­ne tro­pi­ca­le vista dall’alto di un giar­di­no all’inglese: etta­ri ed etta­ri di pian­ta­gio­ni di bana­ne, su fino a per­der­si nel Mar dei Carai­bi.  Dall’alto non si vede, ma lì den­tro ci sono per­so­ne che nasco­no, vivo­no, lavo­ra­no e muo­io­no in una del­le zone rite­nu­te, negli anni, fra le più peri­co­lo­se del pae­se, la Colom­bia del nord. 

Le pri­me pian­ta­gio­ni di bana­ne com­pa­io­no in Colom­bia – a Cié­na­ga, per la pre­ci­sio­ne – nel 1885 per mano di José Manuel Gon­za­lez Ber­mu­dez. Le pro­prie­tà pas­sa­ro­no ben pre­sto nel­le mani di com­pa­gnie sta­tu­ni­ten­si, fino alla for­ma­zio­ne nel 1899 del­la Uni­ted Fruit Com­pa­ny (UFC). Nel giro di un decen­nio, si instau­ra l’asse com­mer­cia­le che dal­le umi­de zone dell’Urabá por­ta le bana­ne ver­so le coste del­la Mad­ga­le­na e da lì ver­so i por­ti sta­tu­ni­ten­si ed euro­pei (Vilo­ria de la Hoz, 2009, 33). È l’inizio di un com­mer­cio sto­ri­co, che nono­stan­te i con­flit­ti arma­ti, le epi­de­mie agri­co­le e le con­te­sta­zio­ni sin­da­ca­li non cono­sce­rà bat­tu­te di arre­sto, sino a segna­re il ter­ri­to­rio e le per­so­ne che ci vivo­no nel­la for­ma e nel desti­no: Ura­bá diven­ta uffi­cial­men­te ‘la región de las bana­nas’. Nel 1966, a segui­to di una cri­si agri­co­la e di poli­ti­che eco­no­mi­che più strin­gen­ti sul­le espor­ta­zio­ni, la UFC ces­sa le sue atti­vi­tà diret­te in Ura­bá, ope­ran­do una ‘disin­te­gra­zio­ne ver­ti­ca­le’ del suo mono­po­lio, tra­mi­te la ven­di­ta del­le pian­ta­gio­ni e il pas­sag­gio al com­par­to di mar­ke­ting e ven­di­ta (Hou­gh, 2019, 516). A par­ti­re dagli anni ‘70 i pro­dut­to­ri loca­li si rior­ga­niz­za­no più auto­no­ma­men­te e nasce Augu­ra (Aso­cia­ción de Bana­ne­ros de Colom­bia). Le con­di­zio­ni di lavo­ro sono spes­so dure e pre­ca­rie ed i sala­ri bas­si, poi­ché la ten­den­za di Augu­ra è quel­la di abbas­sa­re al mini­mo i costi di pro­du­zio­ne per aumen­ta­re i pro­fit­ti; è così che la regio­ne divie­ne un epi­cen­tro spe­ri­men­ta­le del­la lot­ta sin­da­ca­le (Buche­li, 2005, 149). 

Ad oggi, nel ful­cro bana­ne­ro di Ura­bá – che com­pren­de i muni­ci­pi di Tur­bo, Care­pa, Apar­ta­dó e Chi­go­ro­dó – si con­cen­tra­no cir­ca 34.000 dei 50.000 etta­ri di pian­ta­gio­ni di bana­ne dell’intera Colom­bia; il resto si tro­va più a nord, nel­la regio­ne di San­ta Mar­ta (AUGU­RA, 2022). Gli anni di lot­te e riven­di­ca­zio­ni han­no por­ta­to Ura­bá ad esse­re attual­men­te una del­le regio­ni in cui i sin­da­ca­ti sono più atti­vi e rico­no­sciu­ti, con con­se­guen­ti van­tag­gi per i lavo­ra­to­ri. Le con­di­zio­ni di lavo­ro nel­le bana­ne­re e di vita nel­le comu­ni­tà annes­se sono gene­ral­men­te per­ce­pi­te dagli ope­rai come buo­ne – tal­vol­ta anche mol­to buo­ne, tan­to da esse­re un’occupazione ambi­ta. I tur­ni sono lun­ghi e pos­so­no arri­va­re anche a dodi­ci ore, ma ciò è dovu­to anche all’adattamento alle con­di­zio­ni cli­ma­ti­che del con­te­sto – tut­te le atti­vi­tà lavo­ra­ti­ve ini­zia­no mol­to pre­sto la mat­ti­na per sfrut­ta­re le ore più fre­sche ed il rit­mo duran­te il gior­no è più len­to. In com­pen­so i sala­ri sono più alti del sala­rio mini­mo, la men­sa è inclu­sa e tal­vol­ta anche l’assistenza sani­ta­ria. Tut­ta­via que­ste con­di­zio­ni pos­so­no varia­re mol­to in altre regio­ni, ad esem­pio nel­la Mad­ga­le­na, dove le pian­ta­gio­ni sono più pic­co­le, ci sono più inter­me­dia­ri e le azien­de espor­ta­tri­ci sono meno sog­get­te a cer­ti­fi­ca­zio­ni di soste­ni­bi­li­tà. 

Le bana­ne sono Con­flit­to

« “Eran más de tres mil [lo muer­tos n.d.r] – fue todo cuan­to dijo José Arca­dio Segun­do-. Aho­ra estoy segu­ro que eran todos los que esta­ban en la esta­ción” 

Gabriel Gar­cía Már­quez, Cien años de sole­dad (Mar­quez 1967, 364) »

“Era­no più di tre­mi­la [i mor­ti n.d.r] – fu tut­to ciò che dis­se José Arca­dio Segun­do – Ades­so sono sicu­ro che era­no tut­ti quel­li che sta­va­no alla sta­zio­ne.” 

Gabriel Gar­cía Már­quez, Cent’anni di soli­tu­di­ne (Mar­quez 1988, 150)

L’episodio che Mar­quez ci rac­con­ta, in Cent’anni di soli­tu­dine (1967), è pas­sa­to alla sto­ria come “la masa­cre de las bana­ne­ras”. Nel novem­bre del 1928, a Cié­na­ga, dipar­ti­men­to del­la Mag­da­le­na,  cen­ti­na­ia di ope­rai del­la Uni­ted Fruit Com­pa­ny – che deten­ne il mono­po­lio del com­mer­cio bana­ne­ro fino al 1966 – ini­zia­ro­no uno scio­pe­ro per chie­de­re miglio­ri con­di­zio­ni di lavo­ro. Il 5 dicem­bre, dopo set­ti­ma­ne di for­te pres­sio­ne e minac­cia da par­te dell’impresa ame­ri­ca­na, il gover­no gui­da­to dal con­ser­va­to­re Mén­dez die­de il per­mes­so all’esercito di repri­me­re i con­te­sta­to­ri con la for­za (Díaz Jara­mil­lo, 2019). Bana­ne e san­gue sono lega­te nel­la memo­ria sto­ri­ca e indi­vi­dua­le; mol­te sono le testi­mo­nian­ze ed i ricor­di di atti di vio­len­za avve­nu­ti den­tro le stes­se pian­ta­gio­ni, spes­so uti­liz­za­te anche per l’occultamento dei cada­ve­ri. 

Quel­la che vie­ne defi­ni­ta l’ultima ‘guer­ra civi­le’ colom­bia­na infiam­ma il pae­se dagli anni ’60 e, in un cer­to sen­so, si può dire sia tut­to­ra in cor­so. Si trat­ta di un con­flit­to inte­sti­no, fra­tri­ci­da e bru­ta­le, tra guer­ril­le­ros da una par­te – le FARC, Fuer­zas Arma­das Revo­lu­cio­na­rias de Colom­bia, ovve­ro grup­pi di ribel­li arma­ti – e para­mi­li­ta­res dall’altra – la AUC, Auto­de­fen­sas Uni­das de Colom­bia, for­ma­ta da civi­li arma­ti dal gover­no con­tro i guer­ri­glie­ri. Innu­me­re­vo­li atti di bar­ba­rie sono sta­ti com­mes­si dai qua­li si sti­ma­no più di 450.000 mor­ti e 100.000 desa­pa­re­ci­dos (Comi­sión de la Ver­dad, 2022, 179), la pal­la del­la vio­len­za è rim­bal­za­ta più vol­te fra le par­ti coin­vol­te, legan­do­si a dop­pio filo alle armi, alla cocai­na, agli sme­ral­di, alla ter­ra. E in par­ti­co­la­re alla ter­ra di Ura­bá. 

La cit­ta­di­na di Tur­bo, por­to del­la regio­ne di Anti­o­quia, è lo sboc­co natu­ra­le sul gol­fo di Ura­bá. Da qui, ogni gior­no, da decen­ni, par­to­no i con­tai­ner che por­ta­no le bana­ne nel resto del mon­do. Ma non solo. La posi­zio­ne stra­te­gi­ca ha fat­to sì che que­sto diven­tas­se lo sno­do prin­ci­pa­le per l’esportazione del­la cocai­na e l’introduzione di armi nel­la regio­ne, fin dagli anni ‘70 con il con­so­li­da­men­to del­la pre­sen­za del­le FARC nel gol­fo. I grup­pi di guer­ril­la tro­va­ro­no ter­re­no fer­ti­le nel mal­con­ten­to dei lavo­ra­to­ri del­le bana­ne­ras, ed il loro appog­gio fu fon­da­men­ta­le nel­le lot­te sin­da­ca­li (Hou­gh, 2019, 518). A par­ti­re dagli anni ‘80-’90, con l’ingresso di grup­pi arma­ti para­mi­li­ta­ri dell’AUC, il ter­ri­to­rio diven­ta l’infelice tea­tro del con­flit­to arma­to (Cen­tro Nacio­nal de Memo­ria Histó­ri­ca, 2022, 118). Tur­bo, infat­ti, detie­ne anche un altro tri­ste record: è il muni­ci­pio colom­bia­no con il più alto nume­ro – più di 2500 – di richie­ste di resti­tu­zio­ne del­la ter­ra da par­te degli pic­co­li agri­col­to­ri – i cam­pe­si­nos (Gar­cía et al., 2017):

 Los para­mi­li­ta­res lle­ga­ban a un pue­blo, acu­sa­ban a algu­nos cam­pe­si­nos de cola­bo­rar con la guer­ril­la y los mata­ban en la pla­za, delan­te de todos. Hubo mucha masa­cre. Enton­ces lle­ga­ban los comi­sio­ni­stas o los testa­fer­ros de los gran­des empre­sa­rios. ¿Y uste­des qué van a hacer con las tier­ras? Y cla­ro, los cam­pe­si­nos ven­dían. ¡Cómo no iban a ven­der! Pero lo hacían por muy poca pla­ta. Lo úni­co que que­rían era salir de allí”  

“I para­mi­li­ta­ri arri­va­va­no in un vil­lag­gio, accu­sa­va­no alcu­ni con­ta­di­ni di col­la­bo­ra­re con la lot­ta arma­ta e li ucci­de­va­no in mez­zo alla piaz­za, davan­ti a tut­ti. Ci furo­no mol­te stra­gi. Poi arri­va­va­no gli inter­me­dia­ri e i pre­sta­no­me dei gran­di impre­sa­ri [N.d.R. bana­ne­ri]. ‘Che cosa vole­te fare con le ter­re?’, chie­de­va­no. E chia­ra­men­te, i con­ta­di­ni ven­de­va­no. Come pote­va­no non far­lo! Però lo face­va­no per pochis­si­mo dena­ro. L’unica cosa che vole­va­no era andar­se­ne di lì”.  

Car­los Páez di ‘Tier­ra y Paz’, asso­cia­zio­ne di con­ta­di­ni sen­za ter­ra in Ura­bá (da un’intervista all’interno di Gar­cía et al., 2017).

Ed ecco per­ché i nomi dei ver­ti­ci del­le gran­di impre­se bana­ne­re sono sem­pre gli stes­si. Nel 2004 la Chi­qui­ta è usci­ta dal pae­se dopo esse­re sta­ta accu­sa­ta di lega­mi con i grup­pi arma­ti para­mi­li­ta­ri. È sta­ta pro­ces­sa­ta nel 2007 e costret­ta a paga­re una mul­ta di 25 milio­ni di dol­la­ri al Dipar­ti­men­to di Giu­sti­zia degli Sta­ti Uni­ti (U.S. Depart­ment of justi­ce, 2007). Con buo­na pace del­le vit­ti­me colom­bia­ne. 

“Ese dine­ro se uti­li­zó para com­prar armas, (…) muni­ción, se uti­li­zó para pagar el suel­do de los mucha­chos, la boni­fi­ca­ción que se les daba. Se uti­li­zó para com­prar comi­da, uni­for­mes, mate­rial de inten­den­cia. Enton­ces desde lue­go sir­vió para matar gen­te en Ura­bá”.

“Quel dena­ro fu uti­liz­za­to per com­pra­re armi, muni­zio­ni, fu usa­to per paga­re il sala­rio dei ragaz­zi, i bonus che gli dava­mo. Fu uti­liz­za­to per com­pra­re cibo, uni­for­mi, mate­ria­le di ammi­ni­stra­zio­ne. Quin­di, cer­ta­men­te, ser­vì per ucci­de­re per­so­ne in Ura­bá.”

Ever Velo­za, alias ‘HH’, coman­dan­te para­mi­li­ta­re del Blo­que Bana­ne­ro, con­fes­sio­ne uffi­cia­le del 2011 (Fisca­lía Gene­ral de la Nación, 2013, 300)

Quest’uso del­la for­za pro­trat­to nel tem­po, giu­sti­fi­ca­to dal­la pau­ra dei guer­ril­le­ros ed appog­gia­to dal gover­no nell’interesse dei ric­chi impren­di­to­ri – los ricos – per per­pe­tua­re il con­trol­lo su ter­ri­to­ri e grup­pi socia­li è una pecu­lia­ri­tà del con­flit­to colom­bia­no. La cosid­det­ta resi­sten­cia guer­ril­le­ra – inte­sa come rivol­ta al pote­re costi­tui­to – ha ori­gi­ni anti­che e nasce come movi­men­to di libe­ra­zio­ne dai con­qui­sta­do­res. Per que­sto il ter­mi­ne guer­ril­la fu poi asso­cia­to a movi­men­ti arma­ti nati nel XX seco­lo in rispo­sta a disu­gua­glian­ze socia­li e repres­sio­ni sta­ta­li. Seb­be­ne ne sia­no esi­sti­te fran­ge più ideo­lo­gi­che, sono quel­le più vio­len­te ad aver semi­na­to il ter­ro­re tra gli anni ‘60 fino ai pri­mi anni del 2000, tra seque­stri di per­so­na ed estor­sio­ni (HCHR, 2013). La per­ce­zio­ne rea­le di insi­cu­rez­za del­la popo­la­zio­ne è sta­ta ali­men­ta­ta dal­la nar­ra­zio­ne media­ti­ca, cosic­ché l’azione para­mi­li­ta­re è sta­ta rite­nu­ta non solo neces­sa­ria, ma per­si­no giu­sti­fi­ca­ta fino nei suoi atti estre­mi, pur­ché fos­se eli­mi­na­to fino all’ultimo guer­ril­le­ro. Ed effet­ti­va­men­te l’AUC que­sto sco­po l’ha per­se­gui­to bene, solo che il fine per cui era sta­ta crea­ta non era la libe­ra­zio­ne, ma il con­trol­lo, con le con­se­guen­ze già descrit­te. Ne è esem­pio il tre­men­do feno­me­no dei fal­sos posi­ti­vos, ragaz­zi e per­fi­no bam­bi­ni ucci­si e spac­cia­ti per guer­ril­le­ros, solo per con­ti­nua­re a giu­sti­fi­ca­re la pre­sen­za e l’a­zio­ne para­mi­li­ta­re (HRW, 2015). Il feno­me­no del­le gio­va­ni mor­ti sen­za rispo­sta con­ti­nua a esi­ste­re, soprat­tut­to in Ura­bà, omi­ci­di che non tro­va­no con­dan­na pub­bli­ca né chia­ra giu­sti­fi­ca­zio­ne (El Colom­bia­no, 2023).

Il con­trol­lo para­mi­li­ta­re è anco­ra mol­to for­te, anche dopo gli accor­di di pace con le FARC del 2016, soprat­tut­to nel Nord, con l’emergere di nuo­vi grup­pi arma­ti come il Clan del Gol­fo (InSight Cri­me, 2025). Ricor­do Vic­to­ria che mi dice che il signo­re tan­to gen­ti­le che ci aiu­ta­va quan­do ci si fer­ma­va il moto­ri­no pote­va esse­re un para­mi­li­ta­re che non avreb­be esi­ta­to a far­la fuo­ri al momen­to oppor­tu­no – lei all’epoca era in cam­pa­gna elet­to­ra­le come can­di­da­ta al con­si­glio comu­na­le ed ave­va già rice­vu­to del­le minac­ce. La mia impres­sio­ne è che le gio­va­ni gene­ra­zio­ni sia­no con­sa­pe­vo­li del­la que­stio­ne e che dopo anni di gover­ni cor­rot­ti e filo-para­mi­li­ta­ri – Uri­be, Duque –  ripon­ga­no mol­ta spe­ran­za nell’attuale pre­si­den­te Gusta­vo Petro, il pri­mo di una coa­li­zio­ne di sini­stra dopo decen­ni – fra l’altro mili­tan­te in gio­ven­tù nel­la guer­ril­la urba­na M‑19. Ciò non toglie che a livel­lo gene­ra­le si trat­ta di un popo­lo feri­to e anco­ra ran­co­ro­so, una sof­fe­ren­za che è ini­zia­ta come quel­la di mol­ti altri pae­si col colo­nia­li­smo, non sana­ta e quin­di river­sa­ta poi all’interno in una guer­ra fra­tri­ci­da nel vero sen­so del ter­mi­ne. Una feri­ta che è anco­ra un osta­co­lo alla crea­zio­ne di una pace rea­le. Basti pen­sa­re che solo nel 2016, al refe­ren­dum che chie­de­va se si voles­se o no la pace con le FARC, vin­se il No – risul­ta­to che poi non fu con­si­de­ra­to dall’allora pre­si­den­te San­tos. Ma la que­stio­ne non si è affat­to con­clu­sa con gli accor­di di pace uffi­cia­li. 

Tra tut­te, la que­stio­ne del­la ter­ra è sicu­ra­men­te una del­le più sen­ti­te. A par­ti­re dagli anni ‘80, l’Esercito Popo­la­re di Libe­ra­zio­ne (EPL) appog­giò e pro­mos­se la riap­pro­pria­zio­ne dei ter­re­ni non col­ti­va­ti da par­te dei cam­pe­si­nos sen­za ter­ra (Cen­tro Nacio­nal de Memo­ria Histó­ri­ca. 2016). Tut­ta­via anco­ra ad oggi in Colom­bia il 14% dei pro­prie­ta­ri pos­sie­de l’ 80% del­le ter­re (Oxfam, 2013). Petro ha fat­to tan­te pro­mes­se in cam­pa­gna elet­to­ra­le sul­la que­stio­ne, ma nel frat­tem­po capi­ta che ci sia­no inva­sio­ni ed occu­pa­zio­ni ille­ga­li – fomen­ta­te pro­ba­bil­men­te da para­mi­li­ta­ri – nel­le pro­prie­tà pri­va­te di alcu­ne per­so­ne di clas­se media, che han­no l’effetto di scre­di­ta­re le richie­ste legit­ti­me, asso­cian­do il feno­me­no a disor­di­ni socia­li (Sema­na, 2022).

Le bana­ne sono Comu­ni­tà

Emar­gi­na­re, ‘por­re ai mar­gi­ni’. 

Desti­no vuo­le che que­sto ter­ri­to­rio ai mar­gi­ni ci sia già, quel­li fisi­ci, ter­re­stri. Uno stret­to pas­sag­gio di ter­ra da un lato, e il mare dall’altro. 

Si apre già sull’Oltre – il mare e quell’America tan­to sogna­ta –, ma è sem­pre Colom­bia; è soprat­tut­to Colom­bia. «Come sono lì?» – mi chie­de­ran­no poi a Bogo­tà i fami­lia­ri di Lau­ra, l’amica colom­bia­na che mi ospi­ta nel­la secon­da par­te del viag­gio. Vivo­no in una bel­la vil­let­ta cir­con­da­ta da alte mura e filo spi­na­to. «Sono più neri di noi, vero? Quan­te armi hai visto per stra­da? Per­ché sei anda­ta lì?». Eppu­re, riflet­to, sono colom­bia­ni anche loro, sono tut­ti par­te del mede­si­mo pae­se in cui con­vi­vo­no più di 100 grup­pi etni­ci – tra mesti­zi, bian­chi, afro­di­scen­den­ti e popo­la­zio­ni indi­ge­ne  (DANE, 2019) – e soprat­tut­to in cui le espor­ta­zio­ni di bana­ne con­ti­nua­no a gene­ra­re qua­si 900 milio­ni di dol­la­ri l’anno (Sta­ti­sta, 2024). È la sto­ria più vec­chia del mon­do, vera a tut­te le lati­tu­di­ni: costrui­re un’immagine spa­ven­to­sa e ste­reo­ti­pa­ta dei nostri simi­li ci aiu­ta a sen­tir­ci meno coin­vol­ti, anche nel­le nostre respon­sa­bi­li­tà.

Eppu­re esi­sto­no. Si sti­ma che solo nei 12.000 km2 di Ura­bá viva­no più di 500.000 per­so­ne, di cui il 47% in comu­ni­tà rura­li. La mag­gio­ran­za del­la popo­la­zio­ne ha meno di 30 anni (CTPA, 2020, 2). L’industria bana­ne­ra con le sue 340 pian­ta­gio­ni gene­ra più di 100.000 impie­ghi (tra diret­ti e indi­ret­ti) nel­la regio­ne. La retri­bu­zio­ne nel set­to­re è supe­rio­re al sala­rio medio a livel­lo nazio­na­le. Il lavo­ro nel­le pian­ta­gio­ni è in pre­va­len­za maschi­le, essen­do l’impiego fem­mi­ni­le mino­re del 10% sul tota­le (Pena­gos, 2017, 51).

Le comu­ni­tà rura­li sono qua­si invi­si­bi­li anche dall’alto, si per­do­no nel ver­de. Gli uomi­ni esco­no pri­ma dell’alba, le don­ne per lo più riman­go­no tra le quat­tro mura di casa, guar­da­no i bam­bi­ni, pre­pa­ra­no il cibo, aspet­ta­no il ritor­no degli uomi­ni: fan­no scor­re­re il tem­po. Ma qui il tem­po sem­bra eter­no ed immu­ta­bi­le: le sta­gio­ni non si alter­na­no, ce n’è solo una con una tem­pe­ra­tu­ra media di 30°C (per­ce­pi­ta 40°C) e più dell’80% di umi­di­tà. Un tem­po la sta­gio­ne del­le piog­ge era più defi­ni­ta, ades­so può pio­ve­re anche tut­ti i gior­ni con pun­tua­li­tà ora­ria. L’unico vero segno evi­den­te del­lo scor­re­re del tem­po è la cre­sci­ta dei pic­co­li uma­ni, in nume­ro e in età.

La lun­ga mat­ti­na­ta di scuo­la è già comin­cia­ta. Le atti­vi­tà di edu­ca­zio­ne sono tra le prin­ci­pa­li man­sio­ni dei volon­ta­ri di Eco­ló­gi­ca; le lezio­ni si divi­do­no gene­ral­men­te in una par­te dedi­ca­ta all’educazione ambien­ta­le – in par­ti­co­la­re qua­li sono e come si rici­cla­no i rifiu­ti che pro­du­co­no – e una par­te di lin­gua stra­nie­ra, diver­sa a secon­da del­la pro­ve­nien­za del volon­ta­rio. Ci tro­via­mo nel­la comu­ni­tà El Teso­ro, nel­le vici­nan­ze di Care­pa. Sono l’unica volon­ta­ria al momen­to, quin­di sono immer­sa in una cla­se di ita­lia­no. C’è una cosa uni­ver­sal­men­te vali­da in ogni ango­lo del mon­do, per­si­no in una pic­co­la scuo­la rura­le in mez­zo alle pian­ta­gio­ni di bana­ne: il suo­no del­la cam­pa­nel­la del­la ricrea­zio­ne spri­gio­na un’energia repres­sa di dif­fi­ci­le con­te­ni­men­to. Chi può si com­pra qual­co­sa da man­gia­re o da bere – rigo­ro­sa­men­te non acqua, non c’è acqua in tut­ta la scuo­la nean­che nel­la pau­sa pran­zo, solo bibi­te zuc­che­ra­te. Il cal­do e l’umidità oppri­mo­no, ma loro sem­bra­no non ren­der­se­ne con­to, è il mira­co­lo dell’adattamento fisio­lo­gi­co del cor­po alle con­di­zio­ni ester­ne. I più curio­si e meno timi­di si avvi­ci­na­no, chie­do­no dell’Italia, dov’è, come ci si arri­va, quan­to costa un bigliet­to in pesos, come si dice pol­lo, scar­pe, albe­ro, bam­bi­no, anda­re in bici­clet­ta. Si rien­tra in clas­se, ini­zia la lezio­ne, il tono di voce si alza e si abbas­sa modu­lan­do­si sul livel­lo di par­te­ci­pa­zio­ne ed esu­be­ran­za. Ad un cer­to pun­to però nean­che la voce ce la fa, la clas­se si fer­ma, una pau­sa for­za­ta e abi­tu­di­na­ria in cui nes­su­no ha più voglia di fare un gran­ché. Qual­cu­no guar­da fuo­ri dal­la fine­stra, qual­cu­no si tap­pa le orec­chie; in cor­ti­le, la pre­si­de esce, guar­da il cie­lo. «Ricor­da­te­vi di fare foto e video» – dice alle bidel­le – «anche oggi trop­po vici­ni. Come sem­pre.»          I cari­chi di pesti­ci­di ven­go­no sca­ri­ca­ti sul­le pian­ta­gio­ni dal­le 3 alle 4 vol­te a set­ti­ma­na da aerei car­go a bas­sis­si­ma quo­ta. Lo sca­ri­co dovreb­be avve­ni­re a debi­ta distan­za dai vil­lag­gi abi­ta­ti. Ciò nono­stan­te, le rego­le spes­so non ven­go­no rispet­ta­te, tan­ti bam­bi­ni pre­sen­ta­no rush cuta­nei e le fal­de acqui­fe­re a cui acce­do­no le comu­ni­tà sono spes­so con­ta­mi­na­te (La Liga Con­tra el Silen­cio, 2020). La pre­si­de rien­tra, chiu­de la por­ta del suo uffi­cio; sul­la pare­te ester­na, una gran­de scrit­ta:

Los dere­chos huma­nos son para todos noso­tros”.

Le bana­ne sono Dirit­ti?

Da cir­ca 20 anni anche nel set­to­re bana­ne­ro, in Colom­bia, si è dif­fu­sa sem­pre di più la moda­li­tà di mer­ca­to cono­sciu­ta come com­mer­cio equo e soli­da­le o fair tra­de – l’etichetta più cono­sciu­ta e dif­fu­sa è Fair­Tra­de Inter­na­tio­nal (Fair­Tra­de Foun­da­tion). Que­sto siste­ma offre mag­gio­ri tute­le soprat­tut­to a pic­co­li pro­dut­to­ri appar­te­nen­ti a coo­pe­ra­ti­ve indipendenti,ad esem­pio: la garan­zia di sala­ri equi e buo­ne con­di­zio­ni di lavo­ro per gli ope­rai del­le pian­ta­gio­ni; la tute­la dei dirit­ti sin­da­ca­li; la pos­si­bi­li­tà di finan­zia­men­ti anti­ci­pa­ti per pro­dut­to­ri e impor­ta­to­ri, in caso di anda­men­to nega­ti­vo del­la pro­du­zio­ne; il non uti­liz­zo di mano­do­pe­ra infan­ti­le; un’agricoltura soste­ni­bi­le che limi­ti l’uso di pesti­ci­di chi­mi­ci e che con­tri­bui­sca a pro­teg­ge­re e rispet­ta­re l’ambiente natu­ra­le. Inol­tre, all’impresa part­ner del com­mer­cio fair tra­de, è garan­ti­to il paga­men­to di un prez­zo equo, al ripa­ro dal­le flut­tua­zio­ni del mer­ca­to. Que­sto prez­zo può arri­va­re fino a sei vol­te quel­lo paga­to dagli inter­me­dia­ri loca­li e non può comun­que mai scen­de­re sot­to un mini­mo pre­fis­sa­to (Fair­Tra­de Ita­lia). A livel­lo eco­no­mi­co, per ogni cas­sa di bana­ne espor­ta­ta, l’organizzazione fair tra­de paga 1$ alle impre­se bana­ne­re; i fon­di devo­no esse­re rein­ve­sti­ti in pro­get­ti di svi­lup­po per le comu­ni­tà, attra­ver­so il finan­zia­men­to di strut­tu­re qua­li scuo­le e assi­sten­za medi­ca di base, così come pro­gram­mi per la tute­la ambien­ta­le, il miglio­ra­men­to del­la qua­li­tà e la con­ver­sio­ne al bio­lo­gi­co (Fair­Tra­de Ita­lia, 2022). 

Si trat­ta, nel com­ples­so, di una manie­ra più giu­sta di gesti­re una pro­du­zio­ne e un com­mer­cio estre­ma­men­te radi­ca­ti sul ter­ri­to­rio, da cui dipen­de tut­to­ra la sus­si­sten­za di miglia­ia di per­so­ne. Tut­ta­via, il siste­ma fair tra­de resta suscet­ti­bi­le a miglio­ra­men­ti e neces­si­ta di costan­ti riscon­tri sull’effettivo bene­fi­cio appor­ta­to alle comu­ni­tà. I con­trol­li sul rispet­to degli stan­dard nel­le con­di­zio­ni di lavo­ro ven­go­no gene­ral­men­te svol­ti da enti indi­pen­den­ti, come ad esem­pio la tede­sca FLO­CERT. Inol­tre, ad esem­pio, il pas­sag­gio ad un’agricoltura più soste­ni­bi­le e meno impat­tan­te sul­l’am­bien­te nel caso del­le col­ti­va­zio­ne dei bana­ni è estre­ma­men­te dif­fi­ci­le, poi­ché il pre­im­po­sta­to siste­ma mono­col­tu­ra­le su lar­ga sca­la neces­si­ta di un uso sel­vag­gio di pesti­ci­di per scon­giu­ra­re epi­de­mie (EWG, 2023). Ulti­ma, ma non cer­to per impor­tan­za, la que­stio­ne del­la con­ta­mi­na­zio­ne dell’aria e dell’acqua e del­le pato­lo­gie deri­van­ti per i lavo­ra­to­ri e i mem­bri del­le comu­ni­tà. La stes­sa orga­niz­za­zio­ne CLAC Comer­cio Justo (CLAC), part­ner di Fair­Tra­de in Ame­ri­ca Lati­na, atti­va in pro­get­ti per l’inclusione e i dirit­ti dei lavo­ra­to­ri, non entra nel­lo spe­ci­fi­co del tema del­la salu­te. Cer­ta­men­te non è una que­stio­ne di faci­le riso­lu­zio­ne, poi­ché met­te­reb­be in discus­sio­ne la strut­tu­ra stes­sa del mer­ca­to. 

È il para­dos­so del siste­ma capi­ta­li­sti­co: le for­me di dipen­den­za sono così com­ples­se che ogni cam­bia­men­to, per quan­to neces­sa­rio, dovreb­be avve­ni­re in modo gra­dua­le e con­trol­la­to, tenen­do con­to del miglio­ra­men­to del­le con­di­zio­ni di vita del con­te­sto stes­so. Ma si può dav­ve­ro cam­bia­re un siste­ma ormai costi­tui­to da quel­la che è sta­ta una ricer­ca del pro­fit­to sen­za pen­sa­re alle con­se­guen­ze, sen­za gra­va­re su colo­ro che già ne stan­no suben­do le con­se­guen­ze? Come si pos­so­no miglio­ra­re o con­ver­ti­re atti­vi­tà pro­dut­ti­ve di tale por­ta­ta, sen­za che que­sto por­ti a per­di­te eco­no­mi­che che ine­vi­ta­bil­men­te rica­dran­no sul­la gen­te? Il che vale ovvia­men­te non solo per le bana­ne, ma per tan­te mono­col­tu­re di pro­dot­ti usa­ti su sca­la glo­ba­le, come cacao, caf­fè, coto­ne… Non pos­sia­mo aspet­tar­ci che il cam­bia­men­to par­ta dal­le mul­ti­na­zio­na­li, la sto­ria – anche quel­la di Ura­bá – ci ha inse­gna­to però che, per quan­to avver­se sia­no le con­di­zio­ni al con­tor­no, l’autorganizzazione e la voglia di cam­bia­men­to pos­so­no esse­re un rime­dio all’assuefazione.

Ed è qual­co­sa che ha a che fare con il valo­re dato alla vita. Spes­so sen­ten­do rac­con­ta­re le sto­rie del con­flit­to, mi sono chie­sta qua­le fos­se la per­ce­zio­ne del­la pro­pria vita di una per­so­na cre­sciu­ta con un’abitudine quo­ti­dia­na alla mor­te e alla vio­len­za. Come acca­de anche in con­te­sti di vul­ne­ra­bi­li­tà più vici­ni al nostro, spes­so il risul­ta­to è quel­lo di uno sta­to di iner­zia – sia fisi­ca che mora­le – o quel­la che Vic­to­ria chia­ma­va, rife­ren­do­si al suo con­te­sto, la men­ta­li­tà del­la pover­tà: per­so­ne pove­re che vedo­no con ver­go­gna i ten­ta­ti­vi dei figli di usci­re dal­le situa­zio­ni di disa­gio – come il caso del­la col­la­bo­ra­tri­ce di Eco­ló­gi­ca, rac­co­gli­tri­ce di rifiu­ti di stra­da e osteg­gia­ta dal­la fami­glia quan­do ha deci­so di fare lo stes­so lavo­ro ma con un rego­la­re con­trat­to. Si trat­ta cer­ta­men­te di una dina­mi­ca instau­ra­ta da inte­res­si spe­ci­fi­ci, che van­no se voglia­mo anche al di là del­le respon­sa­bi­li­tà dei sin­go­li, però rien­tra tra i fat­to­ri che limi­ta­no la pos­si­bi­li­tà di cam­bia­men­to. Ma da qual­che par­te biso­gna pur par­ti­re.

Spes­so al mat­ti­no, pre­pa­ran­do la cola­zio­ne pri­ma di anda­re a lavo­ro, vedo le bana­ne nel por­ta­frut­ta, le vedo anne­rir­si. Mi astrag­go e riflet­to su come cam­bie­reb­be la vita di tut­te le per­so­ne che ho cono­sciu­to se una par­te di mon­do smet­tes­se di com­pra­re quel­lo che per noi è un sem­pli­ce frut­to. Ripen­so alle paro­le di Vic­to­ria, a quan­do con me ver­sa­va lacri­me ama­re, dicen­do che il suo pae­se non cam­bie­rà mai per­ché non vuo­le, come se l’indolenza e l’abitudine alla vio­len­za fos­se­ro mischia­ti allo stes­so san­gue che scor­re nel­le vene del­la gen­te. Ma, men­tre lo dice­va, scor­ge­vo in fon­do ai suoi occhi bagna­ti un radi­ca­men­to che io ho per­so – o for­se non ho mai avu­to – l’amore pro­fon­do per i sogni infi­ni­ti, per quell’aria cal­da e umi­da, per quel­la ter­ra inten­sa e strug­gen­te.

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