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Gennaio
5 Gennaio 2023

CROL­LO VER­TI­CA­LE

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Nono­stan­te la cata­stro­fe fos­se immi­nen­te, la cit­tà era in fer­men­to. Un bru­li­chio la per­cuo­te­va di gio­va­ni e dise­re­da­ti, di otti­mi­sti rin­ne­ga­ti e pes­si­mi­sti sod­di­sfat­ti. Una mino­ran­za era inve­ce fug­gi­ta, ten­tan­do di sal­var­si. Era­no i pochi che non pote­va­no sop­por­ta­re la vista di una Mila­no impaz­zi­ta, a sen­tir loro, dove gli abi­tan­ti affol­la­va­no le stra­de solo dal­le cin­que del­la sera fino all’alba, di cor­sa non per i lavo­ri, le mostre o gli ape­ri­ti­vi, ma per far bal­do­ria o sac­cheg­gia­re i nego­zi d’alta moda. La mag­gior par­te degli abi­tan­ti era dera­glia­ta dai bina­ri del­la civi­le con­ven­zio­ne, al pari dei tram color d’arancio che, gui­da­ti ora­mai solo dagli ubria­chi o dai curio­si, gia­ce­va­no ribal­ta­ti sul fian­co per le vie del­la cit­tà, come car­cas­se d’elefanti. La Gran­de Rag­ge­ra, un tem­po roti­smo dili­gen­te dell’economia inter­na­zio­na­le, vor­ti­ca­va ora impaz­zi­ta come una giran­do­la che capi­ti in mano alla fre­ne­sia d’un bam­bi­no. A gui­da­re i festeg­gia­men­ti era­no i gran­di balor­di mila­ne­si, ani­ma­li da festa ric­chi e spen­sie­ra­ti, final­men­te libe­ri dal­le pres­sio­ni paren­ta­li riguar­do a scial­bi futu­ri rispet­ta­bi­li. Li pote­vi subi­to rico­no­sce­re come mastri festa­io­li, dal­le cami­cie colo­ra­te aper­te sopra i pet­ti gla­bri, e dal­la dime­sti­chez­za con cui diri­ge­va­no le fol­le ver­so i loca­li dai magaz­zi­ni più for­ni­ti, o nei salot­ti dove sape­va­no di poter tro­va­re le dro­ghe, tra le più sva­ria­te. Nes­su­no com­pra­va, nes­su­no ven­de­va, ognu­no ruba­va e poi con­di­vi­de­va. Tan­to, in pochi mesi, set­ti­ma­ne, for­se gior­ni, a vol­te sem­bra­va che doves­se suc­ce­de­re di lì a poco, tut­to sareb­be sva­ni­to nel nul­la.

La noti­zia era arri­va­ta così, all’improvviso. Da qual­che mese, a Mila­no era­no in cor­so i pre­pa­ra­ti­vi per le Olim­pia­di Inver­na­li. La cit­tà si smon­ta­va e divo­ra­va, per rico­struir­si anco­ra più ambi­zio­sa. Essa era luce, ema­na­ta da nuo­vi e fiam­man­ti grat­ta­cie­li di cri­stal­lo, nell’oscurità di un’Italia sem­pre più in cri­si; una cri­si da cui l’amministrazione, peral­tro, sep­pe magi­stral­men­te trar­re van­tag­gio. In un guiz­zo di genio impren­di­to­ria­le, il Comu­ne ave­va acqui­sta­to in sal­do da un pic­co­lo pae­se dell’Abruzzo la sua por­zio­ne di Mare Adria­ti­co. Que­sta fu subi­to uti­liz­za­ta in una gran­de ope­ra archi­tet­to­ni­ca che, per man­can­za di fan­ta­sia, si finì per chia­ma­re “Mare Ver­ti­ca­le”: un gigan­te cilin­dro di vetro dal­le fon­da­men­ta di cemen­to, con den­tro con­te­nu­to il mare abruz­ze­se. Tut­ta­via, nel mara­sma di pro­get­ti e can­tie­ri, il cilin­dro ven­ne depo­si­ta­to in qual­che peri­fe­ria, e lì, dimen­ti­ca­to. Come di sopra, anche di sot­to la Bestia Lom­bar­da pro­se­gui­va la sua muta. Le linee del­la metro­po­li­ta­na ven­ne­ro este­se fino a Cha­mo­nix, San­ta Mar­ghe­ri­ta e la Rivie­ra Roma­gno­la, e altre due ven­ne­ro aper­te pro­met­ten­do di col­le­ga­re la cit­tà fino al Salen­to e alla Sar­de­gna. Tut­to que­sto costrui­re sopra e buca­re sot­to, tut­ta­via, tra­sfor­mò Mila­no in un gigan­te dal cor­po di cemen­to e i pie­di di polen­ta. Alcu­ne scos­se di ter­re­mo­to ini­zia­ro­no a far vibra­re la cit­tà. I pri­mi a col­le­ga­re lo svi­lup­po edi­li­zio al dis­se­sto geo­lo­gi­co, furo­no ovvia­men­te tac­cia­ti di pes­si­mi­smo, e zit­ti­ti. Quan­do le scos­se non si pote­ro­no più igno­ra­re, si veri­fi­cò la più gran­de del­le bef­fe. Inge­gne­ri, geo­lo­gi e urba­ni­sti dovet­te­ro con­ve­ni­re: le fon­da­men­ta del­la cit­tà era­no ormai ridot­te a gro­vie­ra, e Mila­no sta­va per spro­fon­da­re; con­dan­na­ta dal suo stes­so peso, aggiun­se­ro i die­to­lo­gi. In quel mag­gio la neb­bia era ormai sva­ni­ta, e ave­va depo­si­ta­to su tut­to un velo di tetra e dispe­ra­ta chia­rez­za.

Ci furo­no cor­tei, con­ve­gni e riu­nio­ni per invo­ca­re una solu­zio­ne, recla­ma­re il dirit­to alla soprav­vi­ven­za. Intan­to, ven­ne­ro orga­niz­za­te gran­di mostre con ope­re invia­te da arti­sti di tut­to il mon­do. Que­sto distras­se per un po’ i mila­ne­si, fin­ché non si capì che gli “arti­sti”, stan­chi di paga­re le spe­se di depo­si­to, ave­va­no rega­la­to ai musei i loro lavo­ri peg­gio­ri, spe­ran­do final­men­te di disfar­se­ne nel­la vora­gi­ne che avreb­be inghiot­ti­to la cit­tà. I gran­di nego­zi del cen­tro, intuen­do a loro vol­ta che da lì a qual­che mese non se ne sareb­be­ro fat­ti asso­lu­ta­men­te nul­la di tut­ti quei capi di alta moda, impi­la­ti in magaz­zi­ni chi­lo­me­tri e chi­lo­me­tri sot­to­ter­ra, comin­cia­ro­no a fare offer­te scan­da­lo­se. Ma pre­sto, nei mila­ne­si sce­ma­ro­no con­tem­po­ra­nea­men­te l’impeto del­la pro­te­sta, l’interesse per i ver­nis­sa­ge e la pazien­za nel­le file alla cas­sa.

Di comu­ne e taci­to accor­do, i cit­ta­di­ni di ogni clas­se socia­le comin­cia­ro­no a impos­ses­sar­si del­le stra­de sgom­bre dai poli­ziot­ti (i pri­mi a tor­na­re dal­le loro fami­glie, in giro per l’Italia), a per­de­re l’abitudine all’acquisto e a pra­ti­ca­re un’economia del godi­men­to. Chi fos­se arri­va­to di quei tem­pi, sareb­be sta­to accol­to da un’atmosfera gaia, dal can­to di un popo­lo deci­so final­men­te a ado­pe­ra­re tut­ta l’abbondanza di cui fino­ra era sta­to custo­de, addet­to alle puli­zie, oppu­re umi­le e inco­scien­te accu­mu­la­to­re. I gros­si com­ples­si, pri­ma sven­du­ti e poi abban­do­na­ti, in zona Casci­na Mer­la­ta, Pero, ma anche i tran­sa­tlan­ti­ci bian­chi di City­Li­fe, pian pia­no pre­se­ro vita, popo­lan­do­si di gio­va­ni pro­vin­cia­li, da sem­pre amma­lia­ti dal mito di Mila­no. Migra­ro­no gio­va­ni da ogni par­te del­la Regio­ne e d’Italia, che subi­to appro­fit­ta­ro­no del­la situa­zio­ne per dare vita a feste sca­te­na­te. Que­ste pri­ma si ten­ne­ro nei posti cano­ni­ci, come Piaz­za Leo­nar­do, o la cima del­la Mon­ta­gnet­ta di San Siro, e in esta­te una comu­ne di arti­sti e cir­cen­si mon­tò spet­ta­co­li e ten­do­ni nel gran­de Bosco In Cit­tà, alla peri­fe­ria Ove­st. Nel­le ric­che case del cen­tro, occhi e orec­chie bor­ghe­si spe­ra­va­no che la foga di vita del­le peri­fe­rie faces­se brec­cia nei bastio­ni per por­ta­re un po’ di dio­ni­sia­ca foga anche sui san­pie­tri­ni di por­fi­do, oltre che nei par­chi resi sab­bio­si da diver­se sta­gio­ni di sic­ci­tà. Ma per il cen­tro, i ragaz­zi ave­va­no in pia­no una gran­de festa, la festa defi­ni­ti­va, la festa dell’Apocalisse. Di que­sta festa si ini­ziò a fan­ta­sti­ca­re da Niguar­da a Rogo­re­do, fin­ché la voce non scon­fi­nò, rag­giun­gen­do le più remo­te peri­fe­rie d’Italia. Non era tut­ta­via per la festa che, da Tor­to­re­to Lido, una mat­ti­na di giu­gno anche Mari­na si ritro­vò in cit­tà.

In Piaz­za Duca d’Aosta, Mari­na ricon­trol­lò sul cel­lu­la­re le indi­ca­zio­ni per rag­giun­ge­re il Bosco in Cit­tà dal­la Sta­zio­ne Cen­tra­le. Un vec­chio amo­re fini­to male l’aveva con­tat­ta­ta e l’aspettava là, al cam­po dei cir­cen­si. Non era di cer­to per rive­de­re lui, però, che Mari­na era usci­ta dal­la sua came­ret­ta buia. Non era faci­le per lei tor­na­re a Mila­no, dopo quei mesi dif­fi­ci­lis­si­mi tra­scor­si in un geli­do squat di Cor­vet­to, con il suo amo­re fini­to male, ten­tan­do di cavar­se­la facen­do enor­mi e sce­ni­che bol­le di sapo­ne ai sema­fo­ri o nel­le piaz­ze. Rifles­so nel­le bol­le, Mari­na vede­va il suo mare, la sua spiag­gia, e il tre­no che l’avrebbe ripor­ta­ta indie­tro. Tor­nan­do a Tor­to­re­to, si era ras­se­gna­ta alla vita di suo padre, lavo­ran­do come came­rie­ra in uno sta­bi­li­men­to bal­nea­re nei mesi esti­vi, e arran­gian­do­si con vari espe­dien­ti duran­te l’inverno. Un prez­zo accet­ta­bi­le, in cam­bio del suo­no del­la risac­ca a dispo­si­zio­ne in ogni momen­to, o del­la fre­scu­ra rige­ne­ran­te dei tuf­fi da mag­gio ad otto­bre; un prez­zo inu­ti­le, da quan­do Mila­no ave­va com­pra­to il mare.

Cadu­ta in uno scon­for­to tota­le, Mari­na si era rin­chiu­sa in came­ra, pri­va di ogni desi­de­rio, e ave­va già per­so chi­li e colo­re sul viso, quan­do le era arri­va­to quel mes­sag­gio. “L’ho tro­va­to”, le ave­va scrit­to quel vec­chio amo­re. Un desi­de­rio bru­cian­te ave­va ini­zia­to a scal­dar­le il pet­to, una spin­ta all’esistenza come non la sen­ti­va da anni, libe­ra da cal­co­li o pre­mu­re; e così, ecco­la cam­mi­na­re deci­sa per Piaz­za Duca D’Aosta, al con­tem­po inti­mo­ri­ta dal­lo stra­no silen­zio che l’avvolgeva. Le arri­vò una chia­ma­ta dal padre, pre­oc­cu­pa­to per la par­ten­za repen­ti­na del­la figlia ver­so la cit­tà pros­si­ma all’implosione. Per tut­ta rispo­sta, Mari­na but­tò il tele­fo­no in un cesti­no, e sce­sa gli sca­li­ni del metrò tro­vò i con­trol­lo­ri che gio­ca­va­no a cal­cio ten­nis usan­do i tor­nel­li come rete. Una vol­ta sce­sa, si siste­mò a metà ban­chi­na, in atte­sa del tre­no. Pas­sò il pri­mo, che pro­se­guì però la sua cor­sa a fol­le velo­ci­tà lascian­do Mari­na total­men­te stra­ni­ta sul­la ban­chi­na. Dai por­tel­lo­ni spa­lan­ca­ti le era par­so di vede­re uomi­ni e don­ne vesti­ti — se vesti­ti- in modo sgar­gian­te, inten­ti a spo­gliar­si e amo­reg­gia­re con i vici­ni di destra, di sini­stra, di sopra e di sot­to.

Pas­sa­ro­no anco­ra un paio di tre­ni, pri­ma che Mari­na si deci­des­se a cata­pul­tar­si nel vago­ne in movi­men­to. Fu come tuf­far­si in un giro­ne infer­na­le di sudo­re, gemi­ti e pel­li suda­te bian­chic­ce di neon. Chiu­se gli occhi e si tap­pò le orec­chie, per pro­teg­ger­si dal rom­bo assor­dan­te del tre­no ma, nel buio del­le pal­pe­bre, subi­to avver­tì qual­co­sa di umi­do pre­mer­le con for­za le lab­bra. Una for­za ina­spet­ta­ta si fece lar­go nel­la sua pau­ra, quin­di un pugno, nel­lo sto­ma­co impre­pa­ra­to del suo sedut­to­re. Nono­stan­te man­cas­se da qual­che anno da Mila­no, non ave­va per­so gli anti­cor­pi alla sfron­ta­ta con­fi­den­za dei visci­di del­la metro. Quan­do aprì gli occhi, un ragaz­zet­to di diciot­to anni gia­ce­va a ter­ra dolo­ran­te e, par­ti­co­la­re che la ter­ro­riz­zò, sghi­gnaz­zan­do con bian­che zan­ne di gio­va­ne pre­da­to­re. A Gio­ia, il tre­no si fer­mò. Sul­la ban­chi­na una ban­da di tam­bu­ri e otto­ni sta­va improv­vi­san­do un jazz, e tut­ti usci­ro­no per con­ce­der­si un bal­lo, o per fare pipì nei cesti­ni del­la metro. La musi­ca distras­se Mari­na facen­do­la bal­la­re, men­tre attor­no nasce­va una festa di lar­ghi fian­chi e mani che la cer­ca­va­no per far­la rotea­re. Final­men­te più leg­ge­ra, per­se però un poco di atten­zio­ne, rica­den­do fra le brac­cia ossu­te e pal­li­de del suo aggres­so­re.

“Bal­li spes­so sul­le ban­chi­ne?”

Mari­na distol­se a fati­ca lo sguar­do da que­gli occhi ver­de muco. Sot­to i ric­ci unti del visci­do, le pupil­le si fece­ro di fuo­co.

“Cosa fai, non mi guar­di? Io ti amo…Guardami!”

Un gri­do squar­ciò l’aria, la musi­ca si inter­rup­pe, e fu quin­di la fol­la a sal­va­re Mari­na, in un flus­so imbiz­zar­ri­to che stre­pi­tan­do ten­ta­va di rien­tra­re nei vago­ni. Lesta, la ragaz­za si libe­rò dal­la pre­sa del suo sedut­to­re, e fece per usci­re dal­la sta­zio­ne. Sul­le sca­le, tut­ta­via, inciam­pò sul cra­nio spap­po­la­to del sas­so­fo­ni­sta; il sax gli pene­tra­va il pala­to fino su al cer­vel­lo, e i bul­bi ocu­la­ri iniet­ta­ti di san­gue gli stra­bor­da­va­no dal­le orbi­te. Mari­na, para­liz­za­ta, sen­tì i cona­ti risa­lir­le dal­lo sto­ma­co, men­tre lascia­va che la gher­mis­se­ro le stes­se mani ossu­te da cui era appe­na fug­gi­ta. Nel tre­no il san­gue dell’omicidio ave­va sciac­qua­to via ogni libi­do. Anche il tono del ragaz­zo si fece più som­mes­so, ora che al posto del­le urla di godi­men­to c’era un bru­sio da ora di pun­ta. Si rivol­se a Mari­na, anco­ra pal­li­da di nau­sea.

“Dove stai andan­do?”

“Al Bosco…”

Mari­na vomi­tò. Il ragaz­zo scop­piò a ride­re, e veden­do­la debo­le e indi­fe­sa, le rubò un altro bacio a stam­po. Libe­ra­to lo sto­ma­co dal ter­ro­re, Mari­na gli mol­lò un sono­ro schiaf­fo, che fece vibra­re di ver­go­gna e rab­bia il viso but­te­ra­to del mar­pio­ne. Poi a Gari­bal­di la cor­sa del tre­no si inter­rup­pe bru­sca­men­te, per un’ulteriore fol­lia dell’autista di tur­no, facen­do cade­re rovi­no­sa­men­te Mari­na ed il suo gomi­to appun­ti­to sui testi­co­li del ragaz­zo. La testa di lui rima­se incol­la­ta al pavi­men­to del tre­no rico­per­to di spu­ti, sper­mi e pre­ser­va­ti­vi usa­ti, e Mari­na ne appro­fit­tò per fug­gi­re, su per gli sca­li­ni del­la sta­zio­ne. Si dires­se alla ban­chi­na del­la Lil­la e da lì, essen­do la linea auto­ma­ti­ca, arri­vò sen­za ulte­rio­ri scos­so­ni fino allo Sta­dio. Usci­ta dal­la metro­po­li­ta­na, ini­ziò a cam­mi­na­re in dire­zio­ne oppo­sta al cen­tro, per rag­giun­ge­re l’accampamento dei cir­cen­si. Il tra­mon­to, roven­te e afo­so, ini­zia­va ad abboz­za­re qual­che sfu­ma­tu­ra di fron­te allo sguar­do tri­ste e stan­co di Mari­na, e un odo­re acre di smog si mischia­va ad un for­te puz­zo di cam­pa­gna.

Mari­na si sdraiò ad una ban­chi­na del bus, esau­sta. Con la fron­te appog­gia­ta al vetro del­la ban­chi­na, avver­ti­va il rom­bo del­le mac­chi­ne che, nel­la dire­zio­ne oppo­sta, sfrec­cia­va­no a velo­ci­tà inu­si­ta­te lun­go il ret­ti­li­neo che col­le­ga Via Nova­ra alla Piaz­za Zavat­ta­ri. Nel­la dire­zio­ne di Mari­na, la stra­da era deser­ta, e com­ple­ta­men­te coper­ta di mer­da di caval­lo e di paglia. A un cer­to pun­to, si udì un trot­to caden­za­to. Appar­ve una curio­sa caro­va­na di caval­li, cava­lie­re e cava­lie­ri. Una fan­ti­na in com­ple­to blu gui­da­va la spe­di­zio­ne come un’amazzone bor­ghe­se. Fu lei che, for­se inna­mo­ra­ta del­la pic­co­la abruz­ze­se, for­se impie­to­si­ta, cari­cò Mari­na sul suo caval­lo, ras­si­cu­ran­do­la con dol­ci carez­ze quan­do la sen­ti­va far­ne­ti­ca­re “Bosco, bosco…”. Sul­la soglia di un gran­de par­co, la caro­va­na si inter­rup­pe. Esse­ri uma­ni e caval­li si scam­bia­ro­no uno sguar­do di inte­sa, ten­den­do un filo che uni­va musi sbuf­fan­ti e sor­ri­si entu­sia­sti; un filo che a una cer­ta si rup­pe. I caval­li impaz­zi­ro­no, e comin­cia­ro­no a caval­ca­re lun­go il Par­co di Tren­no, sot­to il cie­lo bru­no del­la Pia­nu­ra Pada­na. “Libe­ri dove­te esse­re! Libe­ri!”

Mari­na fu rivi­ta­liz­za­ta dal­le urla dell’amazzone. In lon­ta­nan­za, vide che i caval­li si imbiz­zar­ri­va­no all’altezza di risa­ie in sec­ca, dove disar­cio­na­va­no i pro­pri cava­lie­ri sopra sof­fi­ci muc­chi di ster­pa­glie. Anche la sua giu­men­ta bian­ca acce­le­ra­va il pas­so ver­so quel­la casca­ta uma­na. Quan­do si alzò sul­le zam­pe poste­rio­ri, Mari­na vide i con­tor­ni del­la luna che ini­zia­va­no a sta­gliar­si nel cie­lo sera­le. Con­ti­nuò a guar­dar­li da ter­ra, dolo­ran­te ma feli­ce. Di fian­co a lei, sta­va­no i con­fi­ni albe­ra­ti del Bosco, da cui vide sta­gliar­si dei sot­ti­li pen­nac­chi di fumo. I caval­li le indi­ca­ro­no la stra­da scap­pan­do lun­go un sen­tie­ro ster­ra­to che si per­de­va nell’oscurità del­le fra­sche. Tut­ti i cava­lie­ri, dolo­ran­ti, si guar­da­va­no l’un l’altro sen­za capi­re cosa stes­se suc­ce­den­do; solo l’amazzone, esta­sia­ta, sdra­ia­ta a ter­ra sor­ri­de­va alla luna.

Entra­ta nell’accampamento, fece un velo­ce giro di rico­gni­zio­ne, per tro­va­re i suoi. Un grup­po di ragaz­zi gio­ca­va con il fuo­co, destreg­gian­do­si in gio­chi d’abilità al rit­mo sor­do di un tam­bu­ro. Le ten­de era­no siste­ma­te sia nel­le lar­ghe radu­re, che in alcu­ni pun­ti meno fit­ti del bosco. Non dis­se una paro­la, sem­pli­ce­men­te si avvi­ci­nò a un grup­po di uomi­ni, in mez­zo a cui una pen­to­la bor­bot­ta­va chiac­chie­ran­do con il fuo­co scop­piet­tan­te. Ini­ziò a cer­ca­re i suoi occhi, i suoi baf­fi, le sue soprac­ci­glia e il suo men­to affi­la­to; li vide ride­re e scher­za­re, con una ragaz­zi­na dai capel­li azzur­ri. Mari­na si avvi­ci­nò len­ta­men­te a quel Genio del­la lam­pa­da, con i suoi pan­ta­lo­ni lar­ghi e il gilet sma­ni­ca­to, sbot­to­na­to sui pet­to­ra­li mar­chia­ti dal ricor­do di una vec­chia ustio­ne, rime­dia­ta gio­co­lan­do. Gli lan­ciò uno sguar­do duro e anco­ra gelo­so, nono­stan­te il tem­po; lui si girò, e lei capì che non l’aspettava.

“Sei venu­ta…”

“Già. Dov’è?”

“Non so se abbia­mo tem­po”

“Cosa signi­fi­ca?”

“Li hai visti i caval­li? I caval­li non men­to­no mai”

“Se è per que­sto ho visto anche le per­so­ne. Que­sta cit­tà è diven­ta­ta un fot­tu­to casi­no, nes­su­no fa più caso a nien­te, è come se si voles­se­ro ammaz­za­re dal pia­ce­re”

“I caval­li era­no sem­pre sta­ti sere­ni. Beri­sha, che ha fat­to lo stal­lie­re, dice che potreb­be­ro aver sen­ti­to qual­co­sa”

Uno stor­mo di airo­ni, poia­ne, pic­chi, inter­rup­pe il Genio e si levò dal bosco, scia­man­do via ver­so Set­ti­mo come la fol­la fuo­ri da San Siro al fina­le di par­ti­ta. Il cam­po per un atti­mo si quie­tò, per­ché a tut­ti era ormai chia­ro. Un fer­men­to nuo­vo ani­mò la pic­co­la comu­ni­tà. Le ten­de comin­cia­ro­no a smon­tar­si, e i bivac­chi ad esse­re abban­do­na­ti.

“Dove van­no tut­ti?”

“Van­no in Piaz­za Affa­ri”

“Per­chè?”

“Per la festa. Devo anda­re Mari­na, mi dispia­ce.”

Lui cer­cò di oltre­pas­sar­la, ma lei pron­ta­men­te lo strat­to­nò per il gilet, con deci­sio­ne. Il Genio le ribat­té con­ci­ta­to.

“Cosa c’è?”

“Pri­ma voglio veder­lo”

“Non c’è tem­po, lo capi­sci?”

Lei con uno sguar­do pene­tran­te gli irri­gi­dì le ciglia, ful­mi­nan­do­ne ogni bat­ti­to.

“Tu mi hai por­ta­to qui, a vive­re in case occu­pa­te e a fare l’artista di stra­da nel­la cit­tà più costo­sa del mon­do. Tu mi hai lascia­to, costrin­gen­do­mi a dar ragio­ne ai miei geni­to­ri. Ora tu mi por­te­rai a veder­lo per l’ultima vol­ta, o pre­ci­pi­ta­re nel vuo­to sarà l’ultimo dei tuoi pro­ble­mi”.

Il Genio ras­se­gna­to la pre­se per un brac­cio, e si avviò. Lei lo fer­mò; da un’artista indaf­fa­ra­to, rubò un Tri­string, un attrez­zo for­ma­to da due lun­ghe stec­che uni­te da un cer­chio di cor­da bagna­ta, e un sec­chio, col­mo d’acqua e sapo­ne. Il Genio, sem­pre più spa­zien­ti­to, la tra­sci­nò fin den­tro al bosco, i cui tron­chi e gli sta­gni gia­ce­va­no, per sem­pre bui e silen­zio­si: anche le raga­nel­le e le luc­cio­le sem­bra­va­no infat­ti fug­gi­te. Una scos­sa di ter­re­mo­to spa­ven­tò il Genio, che aumen­tò il pas­so affer­ran­do Mari­na per il pol­so. La tra­sci­na­va di qua e di là, evi­tan­do­le i fron­ta­li con i tron­chi e i rami spor­gen­ti. In una radu­ra più ampia, oltre le risa­ie e i capan­no­ni indu­stria­li, si fer­mò, e appar­ve, final­men­te, il cilin­dro per­du­to. In lon­ta­nan­za, per chi­lo­me­tri e chi­lo­me­tri in altez­za, alcu­ne onde del Mare Adria­ti­co lan­gui­va­no distan­ti in un’enorme pri­gio­ne tra­spa­ren­te. Mari­na le rico­nob­be da come l’ultimo velo rosa­to di tra­mon­to vi si spec­chia­va den­tro. Vede­re lì il suo mare, come un poe­ta a cui abbia­no moz­za­to la lin­gua e le dita, le graf­fiò il pet­to, poi la gola e le guan­ce, con un pian­to ras­se­gna­to, silen­zio­so. Anche il Genio, dac­ché era di fret­ta, si mise a con­tem­pla­re.

“Avrei tan­to volu­to fare un ulti­mo bagno…”

“Pri­ma di dimen­ti­car­se­lo face­va­no paga­re un bigliet­to”

“Io l’ultimo bagno l’ho fat­to il gior­no pri­ma che se lo por­tas­se­ro via; ho rischia­to di fini­re in una di quel­le gros­se reti che han­no usa­to per pulir­lo dai gran­chi, dal­le tra­ci­ne e dai rifiu­ti”

I due rise­ro di gusto, quan­do una nuo­va scos­sa li zit­tì. Irre­quie­ta, Mari­na pre­se il Tri­string e il sec­chio, e ini­ziò a pla­sma­re nell’aria gros­se bol­le di sapo­ne, come quan­do bigia­va la scuo­la per gio­co­la­re in spiag­gia; o come a quel radu­no di cir­cen­si, dove il Genio guar­dan­do­la si era inna­mo­ra­to di lei. Tor­nò sere­na e distac­ca­ta, come non lo era da tem­po. Ma un peso cur­va­va i suoi occhi tri­sti. Il Genio, rapi­to, le pas­sa­va una mano fra i capel­li, ten­tan­do di deci­frar­ne l’espressione.

“Cosa c’è Mari­na?”

“Ho pau­ra”

“Non sare­sti dovu­ta veni­re. Giu­ra­sti di non tor­na­re mai più, ho sba­glia­to a ten­tar­ti”

“Ave­vo anche giu­ra­to che non avrei mai più cre­du­to ai cir­cen­si mila­ne­si che mi dico­no di lavo­ra­re in un cir­co, e inve­ce fan l’elemosina ai sema­fo­ri. Sto scher­zan­do. Sape­vo che dice­vi la veri­tà, que­sta vol­ta. E comun­que tu non cen­tri nul­la. Vole­vo salu­ta­re il mare”. Il Genio vol­le ven­di­car­si di quel distac­co.

“Sare­sti dovu­ta rima­ne­re a casa”

Inner­vo­si­ta, Mari­na tirò sugli stin­chi del Genio un for­te col­po con il Tri­string. Il Genio stiz­zi­to non rea­gì, di fron­te ad una rab­bia che sen­ti­va come giu­sta e natu­ra­le, un ful­mi­ne duran­te il tem­po­ra­le. Ten­tò solo di giu­sti­fi­car­si.

“Sarà solo Mila­no a spro­fon­da­re, tu pote­vi sal­var­ti!”

“Ma dove fini­sce Mila­no?” gli sbrai­tò Mari­na in viso, urlan­do­gli la rab­bia di una Peri­fe­ria gran­de come l’Italia. “Non sono for­se Mila­no le vostre sta­zio­ni del­la metro, dis­se­mi­na­te per tut­to il Pae­se? Rie­sci a imma­gi­na­re cosa gli suc­ce­de­rà, quan­do i bina­ri ver­ran­no risuc­chia­ti dal­la vostra vora­gi­ne?”

Una scos­sa fece oscil­la­re il Mare Ver­ti­ca­le, un’altra lo sbi­lan­ciò defi­ni­ti­va­men­te. Mari­na si zit­tì, emo­zio­na­ta dal­la cadu­ta del gigan­te.

“Dob­bia­mo anda­re, Mari­na!” dis­se il Genio, com­ple­ta­men­te nel pani­co.

Mari­na, infor­ca­ti gli attrez­zi del mestie­re, rico­min­ciò a fare bol­le di sapo­ne.

“Ti sem­bra il momen­to di fare le bol­le, Mari­na? Le farai alla festa!”

“Ma io le voglio fare ora” rispo­se lei, can­di­da. Come un meteo­ri­te, d’improvviso il cilin­dro ter­mi­nò la sua cadu­ta in un’esplosione deva­stan­te. Uno scro­scio di vetri piov­ve sui due gio­va­ni, e da lon­ta­no, lo scia­bor­dio di un’onda ano­ma­la diret­ta ver­so il Bosco diven­ta­va sem­pre più simi­le ad un rug­gi­to di mil­le leo­ni. Il Genio si ras­se­gnò e in ginoc­chio ini­ziò a pre­ga­re, così inten­sa­men­te che quan­do una voce gli sus­sur­rò all’orecchio, pen­sò di aver­la sogna­ta.

“Entra”

Quan­do aprì gli occhi, Mari­na sor­ri­de­va dall’interno di una gigan­te­sca bol­la di sapo­ne, tenen­do aper­to un var­co con l’aiuto del­le stec­che. Entra­to il Genio, subi­to la bol­la si librò nell’aria, leg­ge­ra; in quel momen­to, l’onda appar­ve in tut­ta la sua deva­stan­te caval­ca­ta ver­so la cit­tà. Mila­no, intan­to, non si era accor­ta di nul­la. Ini­zial­men­te, a Mari­na e il Genio par­ve qua­si deser­ta, fin­ché la bol­la non rag­giun­se il cen­tro. Sui Navi­gli, Ade, Eros e Bac­co cele­bra­va­no la mor­te, in bagor­di ebbri e avvi­naz­za­ti. I pon­ti sui Cana­li ormai eran tram­po­li­ni, e non si pote­va vede­re uno spa­zio libe­ro in mez­zo ai cor­pi nudi che popo­la­va­no tut­ta la Piaz­za XXIV Mag­gio, roto­lan­do sui san­pie­tri­ni o schiu­man­do nel­le acque del­la Dar­se­na. Essa era ormai ridot­ta ad una cal­ca di ani­me dan­na­te, sbal­lot­ta­te nel­la furio­sa bufe­ra di cor­pi di quel gigan­te bac­ca­na­le, illu­mi­na­te dal­le fiam­me dei falò e le luci aran­cio­ni dei lam­pio­ni. Inve­ce, nel­le varie vie che taglian­do le cir­con­val­la­zio­ni con­flui­sco­no nel cen­tro, un grup­po di inva­sa­ti si face­va brac­ca­re da camion dell’Amsa lan­cia­ti a tut­ta velo­ci­tà, come da tori fra le stra­de di Pam­plo­na. In Piaz­za Duo­mo, il Genio e Mari­na atter­ra­ro­no.

La cat­te­dra­le, nei suoi mar­mi mae­sto­si, sem­bra­va rim­pro­ve­ra­re la piaz­za vuo­ta di non aver per­se­gui­to la via del­la spe­ran­za e del­la con­ser­va­zio­ne; la Madu­ni­na, pare­va inve­ce aver­ne pie­tà. Come pre­vi­sto, il cuo­re del­la festa era la Piaz­za degli Affa­ri. Mari­na fece scop­pia­re la bol­la con le lab­bra, e si fece gui­da­re dal Genio. Quan­do arri­va­ro­no, la festa era al suo cul­mi­ne: i gio­co­lie­ri ani­ma­va­no con i loro gio­chi la piaz­za in moti vor­ti­co­si di acro­ba­zie, gli atto­ri reci­ta­va­no le loro ulti­me tra­ge­die riden­do a cre­pa­pel­le, men­tre i musi­ci inin­ter­rot­ta­men­te dro­ga­va­no i musco­li e le orec­chie del­la fol­la di mil­le gene­ri che si mischia­va­no in una con­fu­sio­ne asso­lu­ta e per­fet­ta. Quel­la Piaz­za era come Mari­na ave­va cono­sciu­to Mila­no; c’era il mon­do a guar­da­re, il mon­do a suo­na­re, il mon­do a reci­ta­re, e il mon­do pron­to a dimen­ti­ca­re per rico­min­cia­re. Il ter­ro­re del­la fine sem­bra­va uno dei tan­ti saba­to sera mila­ne­si, quel­li che, pri­ma del­la Cata­stro­fe, ser­vi­va­no agli impie­ga­ti per sfo­ga­re l’ansia e la fru­stra­zio­ne, e per vive­re, alme­no una sera a set­ti­ma­na, l’illusione del­la liber­tà. Qual­cu­no si arram­pi­cò sul­la scul­tu­ra di Cat­te­lan, e vi stac­cò a pic­co­na­te anche l’unico dito rima­sto, per lan­ciar­lo in mez­zo alla fol­la, pri­van­do la sta­tua del suo signi­fi­ca­to, e quin­di del­la sua accu­sa a quel­la Mila­no moren­te ed impaz­zi­ta. Di fron­te a que­sta sce­na, Mari­na s’impaurì del nul­la, del­la mor­te, dell’abisso.

Il Genio del­la lam­pa­da era scom­par­so, lascian­do­la da sola. Le scos­se si fece­ro via via più poten­ti, si sen­ti­ro­no crol­la­re i palaz­zi sem­pre più vici­no alla Piaz­za, e le per­so­ne ini­zia­ro­no a gira­re in cer­chio in un Sab­ba infer­na­le, in un’ultima cele­bra­zio­ne col­let­ti­va di quel sui­ci­dio di mas­sa. Mari­na avver­tì che anche il Mare sta­va avan­zan­do, e quan­do la Madu­ni­na dora­ta cedet­te sopra le mace­rie del Duo­mo in rovi­na, sen­za nem­me­no pen­sar­ci si sal­vò, libran­do­si in un’altra bol­la di sapo­ne. Non vide nul­la di ciò che le suc­ces­se sot­to. Un boa­to mai sen­ti­to coprì ogni altro rumo­re, e in un secon­do fu il silen­zio, e la mor­te. Non sape­va per quan­to tem­po la sua bol­la aves­se vaga­to nel­la not­te. Si era addor­men­ta­ta, ma anche una vol­ta sve­glia gli occhi le era­no rima­sti ser­ra­ti per il ter­ro­re. Immer­si nel­la not­te, i pen­sie­ri di Mari­na si era­no fat­ti anco­ra più cupi. For­se sareb­be sta­to meglio lasciar­si anda­re, festeg­gia­re, per­der­si nell’edonismo sfre­na­to e ras­se­gna­to, for­se non sareb­be sta­to giu­sto, ma lei sareb­be sta­ta per lo meno feli­ce, o alme­no nel­le con­di­zio­ni di inse­gui­re una pre­sun­ta feli­ci­tà!

Ora che inve­ce ave­va volu­to soprav­vi­ve­re a Mila­no e a tut­to ciò che Mila­no si era tra­sci­na­ta die­tro, che cosa le sareb­be rima­sto? Dove sareb­be fini­ta? Come fos­se sta­ta in gra­do di ascol­tar­ne i timo­ri, la bol­la smi­se dol­ce­men­te di vaga­re nell’aria, pog­gian­do Mari­na su una super­fi­cie sof­fi­ce. Una vol­ta aper­ti gli occhi, davan­ti le appar­ve il mare, e un’alba mera­vi­glio­sa e azzur­ra. Libe­ro dal­la sua pri­gio­ne di cri­stal­lo, e dell’indifferenza dei mila­ne­si, il mare di Tor­to­re­to si era pre­so la cit­tà. Qui e là rovi­ne di palaz­zi vaga­va­no come relit­ti del­la civil­tà, e qual­che cor­po nudo ripo­sa­va, sere­no, ondeg­gian­do dol­ce­men­te. La Madu­ni­na alla deri­va urtò la bol­la, il viso bril­lan­te e sere­no rivol­to ver­so il cie­lo. Il mare salu­tò Mari­na, con un sal­to di del­fi­ni. Mari­na fu inde­ci­sa se strug­ger­si per la distru­zio­ne, o per la bel­lez­za; ma infi­ne sor­ri­se al mare, e deci­se che se lo fareb­be fat­to basta­re, tuf­fan­do­si nel­le acque bacia­te dal sole.

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