A ORGIA DOS LOUCOS
Sono le sei di mattina del 22 febbraio 2025, ci avviciniamo alla fine dell’estate mozambicana, tre mesi a partire da fine novembre a inizio marzo di caldo afoso e piogge torrenziali. Mi rigiro svogliatamente per qualche secondo tra le lenzuola umide, poi, recuperate le energie, scosto la zanzariera, indosso lo zaino già pronto dalla sera prima ed esco dal bungalow. L’alba ha già fatto capolino da un po’ nel villaggio turistico di Tofo, dove abbiamo passato qualche giorno con una compagnia di amici del Servizio Civile. Rimango per un attimo in compagnia del fragore della risacca, finché dopo pochi minuti non arriva anche M, la mia compagna di viaggio.
Usciamo alle sei e mezza e alle sette siamo già sullo chapa. Non mi dilungherò su questo particolare, alla fine in molti racconti sull’Africa il mezzo di trasporto più comune è sempre lo stesso, un furgone sullo stile dei Caravelle Volkswagen riadattato per farci entrare una ventina di persone, in cinque file da quattro passeggeri l’una. Un’asta di metallo percorre tutto il lato destro all’interno del veicolo e mi impedisce di appoggiarmi al finestrino. Perché è saldata lì? Per scoraggiare i ladri? Forse lo chapa rimane tanto tempo fermo con merce dentro? Ci sta che si rubino pure i sedili se non stanno attenti.
Da quando sono arrivato, ho assistito o avuto notizia di furti per me piuttosto singolari: lampadine, cavi per ricaricare le batterie delle auto, singoli pezzi di ricambio dai computer dall’aula di informatica dell’Istituto Agrario di Namaacha con cui collaboriamo, le lavagne, le sedie o i banchi alla scuola elementare di Mafuiane, un paesino rurale dove ha sede l’associazione con cui sto lavorando, addirittura le assi di legno utilizzate per creare un piccolo parco giochi di fronte alla chiesa del paese. Va detto che sono tutti articoli difficili da trovare nel mezzo della campagna mozambicana. Ma al momento la maledetta asta di metallo sembra, come tante cose che non capisco di questo paese, messa lì solamente per rompere il cazzo. Vabbè, mi dico, è un viaggio di solamente un’ora.
Arriviamo a Inhambane nella piazza dei due mercati, quello vecchio, bancarelle e carretti, e quello nuovo, un edificio in cemento imponente e mezzo vuoto. Chiediamo informazioni ad alcuni passeggeri che stanno per mettersi in viaggio come noi. Ci convincono che la cosa migliore sia evitare di attraversare in barca il Golfo di Inhambane e salire subito su uno chapa che sta lì parcheggiato, il rimorchio già piuttosto carico. Diminuire i mezzi di trasporto da prendere ci sembra un buon modo per limitare gli imprevisti, molliamo gli zaini, abbiamo un quarto d’ora per fare colazione e soprattutto trovare un caffè caldo. Non troviamo il caffè, ma in compenso incrocio lo sguardo ebete e smarrito di un uomo piuttosto lercio, intalliato, come si direbbe a Napoli, su un marciapiede dalle piastrelle divelte. M non ci fa caso, io le lancio un avvertimento lampo:
«Oi»
«Eh»
«Non ha i pantaloni»
«Chi?»
«Quell’uomo, non ti spaventare ma non ha i pantaloni»
«Qual….ah»
In questi mesi ho visto diverse volte persone nude in contesti in cui non me lo sarei aspettato: al casello dell’autostrada, nei video delle proteste post-elettorali che da ottobre stanno infiammando Maputo e le strade del Mozambico con violenti scontri fra i manifestanti anti-FRELIMO – il partito ininterrottamente al potere dai tempi dell’Indipendenza – e le forze di Polizia. Non è una nudità minacciosa o invadente, sembra più un atto di liberazione, anche se dettato dalla follia – o dalla sbronza. Mi è successo anche alla festa municipale di Namaacha, ma onestamente lì non sono rimasto poi così sorpreso.
Prima di salire sullo chapa, preventivamente, anche se per mezzogiorno o l’una dovremmo già essere a Vilankulo, compriamo da mangiare, io un pane con badjia, delle frittatine di farina di fagiolo nhemba per cui sto sviluppando una potentissima dipendenza, lei un pane con l’uovo sodo. Quaranta meticais – nome derivante dall’arabo mithqal, della moneta nazionale mozambicana – che ci salveranno, ma noi non lo sappiamo ancora, alla fine queste sono cose che non si sanno mai.
Partiamo, e per un’ora vaghiamo per Inhambane per raccogliere passeggeri e spedizioni varie. Il trasporto in chapa in Mozambico segue una logica semplice: il mezzo parte quando è pieno di persone e, per le tratte più lunghe, di merci, che si accumulano sul tetto o sul rimorchio posteriore. Si possono trasportare sacchi di riso, farina e carbone, animali, mobili, elettrodomestici, materassi, medicinali, documenti: un modo lo si trova sempre. E quando i passeggeri non arrivano allo chapa, allora è lo chapa che deve andare dai passeggeri, peregrinando per le strade alla ricerca di clienti, senza un orario di partenza determinato. Io e M non ci siamo ancora abituati a questa cosa, anzi ci snerva, anche perchè inizia a far caldo e vorremmo soltanto partire.
Finalmente lasciamo la città, i suoi quartieri raccattati, slabbrati e sabbiosi come tutti quelli che ho visto finora e che non siano Sommerschield a Maputo – il quartiere delle ambasciate e delle ONG per intenderci – o le case dei dipendenti della polizia di frontiera a Namaacha, costruite nuove o ricavate da vecchie villette coloniali lasciate dai portoghesi a godersi le dolci colline del distretto senza di loro. Cominciamo finalmente a circumnavigare il Golfo che da Inhambane descrive un arco, o meglio il lobo d’un orecchio, fino a Mai-Xixi. Fino a qui tutto bene, carichiamo e scarichiamo persone e merci, io e M avidamente ci mangiamo i nostri panini più tre banane comprate in una sosta per dieci meticais. Anche qui, la provvidenza ci porge tre banane belle verdi, toste, ma già abbastanza mature da essere mangiate. La mossa strategica che ci voleva per nutrirsi e allo stesso tempo dare una mano al nostro intestino ancora un po’ in subbuglio per il cambio di alimentazione degli ultimi cinque mesi. Ci serviranno, oh come ci serviranno.
Il viaggio sembra scorrere tranquillo, finché, sulla strada per Massinga, il nostro autista inizia a ricevere chiamate e a rispondervi con espressione preoccupata e poche semplici parole «Ah. Mmh. Fecharam a estrada. Mmh». Io e M vorremmo stupirci, la verità è che non è niente di nuovo, sono mesi che va avanti così, anche se è la prima volta che ci confrontiamo con le proteste post-elettorali in prima persona.
La causa diretta delle manifestazioni sono i brogli elettorali avvenuti durante e dopo le consultazioni del 9 ottobre, denunciati anche dagli osservatori inviati dall’Unione Europea e, più sorprendentemente, dalla Conferenza Episcopale Mozambicana. Ad animare le proteste sono per lo più i sostenitori di Venancio Mondlane. Ex membro dei principali partiti d’opposizione della giovane democrazia elettorale mozambicana, il MDM e la RENAMO – ne riparleremo –, Mondlane è confluito in un partito relativamente marginale, PODEMOS, per potersi candidare alle elezioni presidenziali.
Carismatico e soprattutto molto fotogenico, con un’esperienza anche come predicatore e pastore di una chiesa pentecostale, nel giro di una campagna elettorale ha trasformato un partito semi-sconosciuto nella seconda – o prima, brogli permettendo – forza parlamentare del Mozambico, usando i social network in modo intelligentissimo e dando voce al malcontento di una società giovane ma povera e ingabbiata dalle reti di corruzione e clientelismo costruiti dalle istituzioni finanziarie internazionali e dall’establishment mozambicano, soprattutto a partire dal processo di democratizzazione e liberalizzazione degli anni Novanta – non è mia intenzione fare in quest’articolo una lunga dissertazione sul tema, esistono tra l’altro intellettuali italiani estremamente ferrati sul tema, Corrado Tornimbeni e Luca Bussotti, e stranieri, come Joseph Hanlon, che possono essere approfonditi da chi volesse saperne di più.
L’apparato del potere si è chiaramente sentito minacciato dal movimento messo in piedi da Venancio Mondlane e nella notte fra il 19 e il 20 ottobre, dieci giorni dopo le elezioni e una settimana prima che la Commissione Elettorale validasse la vittoria della FRELIMO in un clima di tensione eccezionale, venivano uccisi nel centro di Maputo da venti colpi d’arma da fuoco Paulo Guambe e Elvino Dias, due rappresentanti di PODEMOS. Elvino Dias, in particolare, era al centro della squadra di PODEMOS incaricata di gestire la procedura legale per la contestazione dei risultati elettorali.
Da quel giorno, Venancio Mondlane, rifugiatosi fuori dal paese, ha iniziato a orchestrare una campagna di scioperi e manifestazioni che hanno scosso il Mozambico per mesi, repressa in ogni modo dal Governo. Per alcune settimane l’accesso a Internet è stato interrotto, sfruttando i legami con le principali compagnie di telecomunicazioni del paese: Guebuza, ex-Presidente della Repubblica, chiaramente appartenente alla FRELIMO, è azionista di Vodacom; l’altra compagnia, Movitel, è in parte proprietà del fondo SPI – Gestão e Investimentos, già accusata dal Centro de Integridade Pública nel 2012 di aver ricevuto favori dal governo in quanto controllata da membri della FRELIMO e considerata il braccio finanziario del Partito. Allo stesso tempo, le forze dell’ordine seminavano il terrore nelle strade del paese.
Nel nostro caso, tuttavia, più che in una protesta politica sembra che ci siamo imbattuti in dei gangster improvvisati, smunti e forti solo di qualche tronco buttato lì in mezzo alla strada, al limite di bastoni spigolosi ed esili – di legna fresca, non di rami nodosi – o di catane tenute fra le mutande e il pacco, a far vedere il manico come degli scagnozzi mostrerebbero minacciosamente l’impugnatura di una calibro 45. È questo l’equipaggiamento necessario a estorcere, principalmente a camionisti e autisti di chapa – non ci sono molte auto private sulla N4, in generale e quella mattina in particolare – cinquanta, al limite cento meticais, una cifra che va dagli ottanta centesimi all’euro a cinquanta, secondo le fluttuazioni del cambio.
La parola che sento echeggiare più spesso nel mezzo è ‘abuso’. Dall’inizio del nuovo anno in particolare la protesta politica della massa sembra cambiata, incattivita. Nei primi mesi, i blocchi stradali erano mirati, puntavano a bloccare le frontiere o i caselli autostradali, per penalizzare allo stesso tempo le casse dello Stato e i traffici commerciali dei padroni del paese. Venancio Mondlane annunciava, con una diretta Facebook, i giorni prescelti per le manifestazioni, persino gli orari, e questi venivano rispettati al millisecondo. Poi, improvvisamente, tutto è sfuggito di mano, le proteste e i blocchi stradali sono diventati imprevedibili, e le manifestazioni sono sfociate spesso e volentieri nel saccheggio indisturbato dei negozi di alimentari, elettrodomestici e quant’altro.
La violenza, fino a dicembre limitata per lo più ai posti di polizia e alle sedi della FRELIMO e motivata dalla feroce repressione delle manifestazioni pacifiche a opera delle forze dell’ordine, si è trasformata in gretto vandalismo, funzionale per lo più allo sciacallaggio, provocando la chiusura di diversi negozi e fabbriche, e quindi disoccupazione e disaffezione da parte di una fetta sempre più grande di popolazione nei confronti delle proteste.
Cos’è successo? verrebbe da chiedersi. È difficile non tornare con la mente al 26 dicembre, quando nella fase più calda delle proteste, dopo che la Corte Costituzionale aveva approvato definitivamente i risultati delle elezioni, di fatto sancendo l’impossibilità di una soluzione legale alla crisi post-elettorale, 6000 prigionieri sono scappati dal carcere di massima sicurezza di Maputo. Dopo la fuga, il capo della Polizia e la ministra competente per le carceri si contraddirono sulle cause della maxi-evasione, alimentando il sospetto che il tutto fosse orchestrato per distrarre l’opinione pubblica e aumentare il vandalismo generalizzato delle proteste.
Il succo, però, al di là delle congetture, è che la gente è stanca e non è più disposta a bloccare la propria vita soprattutto a causa dei giochi di quattro ragazzini annoiati con gli occhi iniettati di gin e poco interessati a contrastare il carovita – chissà se in questi mesi è aumentato il prezzo del gin: la 2M, la birra nazionale, di sicuro è aumentata da sessanta a sessantacinque fino a settanta meticais. Il carovita è aumentato sia per gli autisti dello chapa che per i passeggeri, quindi fosse anche una protesta come minimo sembra incoerente e mal indirizzata. Più che dei manifestanti sono dei casellanti, abbastanza ubriachi ed eccitati dall’essere gruppo, banda, gang. Siamo a un passo dal malinteso molto borghese per cui le uniche proteste ben accette sono quelle fatte civilmente e rispettando dei limiti ben definiti; meglio aprire una parentesi per evitare di cadere nel tranello.
Malyn Newitt, storico dell’Africa Lusofona e autore di un’onnipresente nelle – poche – librerie mozambicane, Storia del Mozambico, sostiene che la guerra civile mozambicana fra il governo e i miliziani della RENAMO, che ha devastato il paese da poco dopo l’indipendenza fino agli accordi di pace del 1992, abbia essenzialmente due responsabili. L’azione destabilizzatrice del Sudafrica dell’apartheid, principale finanziatore della RENAMO, e una strutturale disarticolazione della società mozambicana, organizzata in piccole comunità isolate fra di loro – e diversissime per lingue e cultura – e che si presterebbe, nei momenti di difficoltà, alla proliferazione del banditismo. Lo stesso Newitt vede il riflesso di questa tendenza anche nel (dis)funzionamento dello Stato Mozambicano (Newitt 1995, 574–577).
In parole povere potremmo anche utilizzare i versi di Willie Peyote in Vendesi: “abbiamo tutti un’attenuante se lo schifo è consensuale”.
Lo sperimenterò più avanti in prima persona; se da Tofo a Vilankulo sono i manifestanti a sbarrarci continuamente la strada esigendo il pagamento del pedaggio, la stessa scena da Vilankulo a Chimoio, nella parte successiva del mio viaggio, si ripeterà uguale e identica, ma con la polizia stradale come protagonista, in un normalissimo svolgersi della corruzione quotidiana, elemento tipico del vivere civile mozambicano. Ancora non lo so, esausto e disidratato sul finestrino dello chapa, ma non sono assolutamente nella posizione di giudicare nessuno, soprattutto mentre a casa mia i poliziotti massacrano gli studenti a colpi di manganello e gli spazi di protesta e dissenso ‘consentiti’ si assottigliano sempre di più. Senza considerare che, mentre i nostri politici in quel momento sono in prima linea a difendere i valori democratici in Ucraina e Israele, nessuno sembra far caso alla violenta repressione del Governo Mozambicano. Che c’entrino gli interessi di Eni mai messi in dubbio dall’élite della FRELIMO? Meglio distrarsi, appoggiare la fronte sul finestrino e sperare che questo viaggio interminabile finisca il prima possibile.
Piano piano arriviamo al centro di Massinga, dove la strada è di nuovo bloccata.
Qui a protestare sono gli adulti. A bloccare la strada non ci sono pochi tronchi, ma grossi camion parcheggiati di traverso a quella che, ipoteticamente, è la direzione della circolazione. Gli adulti non accettano denaro, vogliono solo esprimere il proprio dissenso e lo faranno, si dice in giro, fino alle ore sedici in punto.
È mezzogiorno. Il pane e badjia delle nove del mattino nel mio stomaco sapientemente inizia a rilasciare a muscoli e mente le energie che mi servono per rimanere lucido. Certo, siamo fermi nell’unico punto del Mozambico dove non c’è nei paraggi una griglia, una donna che frigge o un biliardo, e la cosa mi scoccia. M per tranquillizzarsi inizia a leggersi le carte, non i tarocchi, semplicemente le carte francesi. Dicono che arriveremo oggi, che partiremo entro le 16, che forse incontreremo qualche difficoltà. Basta e avanza, penso io. Poi giochiamo a tressette, e io le recito un atto unico di Čechov dall’unico libro che mi sono portato, l’edizione economica delle sue opere teatrali. Sulla copertina, i rami del ciliegio in fiore campeggiano su uno sfondo blu petrolio. Con inconsapevole saggezza deciderò di regalarlo all’autista dello chapa, ignaro della mia generosità e soprattutto dell’italiano; ma che volete, io dei libri non sono geloso, tanto meno delle edizioni economiche trovate al Libraccio.
Alle quattordici e trenta, qualcosa si muove. Dobbiamo tutti rientrare in macchina, Tio Ernesto l’autista si ricorda persino di una ragazzina vestita di rosa nascosta a bordo strada che ci insegue trafelata. Siamo tre chapa, e su ognuno dei tre sale un uomo sconosciuto, il nostro si chiama James ed è basso e magro, con una maglietta a righe, i denti storti circondati da una barbetta ispida e riccia, il cranio piccolo e rasato. James inizia a sbraitare al nostro autista, imparo la parola mulanzi, vuol dire “seguilo”. Si crea una piccola carovana di pulmini, che dalla strada principale si infila in un sentiero sabbioso di campagna, e lì capisco, sentendo parlare Tio Ernesto con il suo aiutante incastrato nei sedili posteriori. Abbiamo pagato questi uomini per guidarci nelle strade sterrate che contornano le machamba, i campi di mais e mandioca, e il mato, il bosco, per aggirare il blocco e guadagnare un po’ di tempo. Dei tre chapa, uno rimane incastrato nella sabbia, e lo abbandoniamo al suo destino. Non so perché quando invece ci incastriamo noi i passeggeri di entrambi i veicoli scendono a spingere e darsi una mano, non rimangono indifferenti.
Com’era prevedibile, incontriamo un altro blocco sulla strada, persino in mezzo alla cazzo di campagna. Degli uomini seduti sotto un albero d’acacia circondati da donne e bambini si alzano all’istante con fare intimidatorio, ma fortunatamente fa tutto parte del piano. Le nostre guide fanno dei segni a un uomo basso senza maglietta e con la boccia di gin che gli esce dalla tasca posteriore dei jeans. Quando passiamo il blocco, le donne da sotto l’albero ci salutano festanti, corrisposte dai passeggeri che, aizzati dalla nostra guida sempre più agitata, iniziano a cantare i cori delle proteste post-elettorali, «Este país é nosso, Venancio, Venancio…»
Ci fermiamo pure nel villaggio dopo, e in quello dopo ancora, anche se non c’è nessun blocco stradale. Le nostre guide in entrambi i casi scendono, spendono i soldi che hanno appena guadagnato per comprarsi una bottiglia di gin, se la sgollano in pochi istanti con lunghi sorsi ma decisi, secchi, comprano una sigaretta e rimontano a bordo, sporgendosi all’inverosimile dal finestrino per poter fumare e importunare ad altissima voce tutti i passanti che incontriamo.
«Futseka, futseka!» grida impertinente James, l’alito etilico che esala dal sedile dietro al mio. Perché sta urlando “fottetevi”? Lo grida ai passanti o ai piccoli contadini che lo guardano attoniti dalle loro verande colorate di lamiera. Lo grida al suo compare che tiene sempre per sé il fondo della bottiglia e che dopo il secondo giro di bevute gli mostra trionfante una borraccia piena d’acqua. Lui impreca di fronte all’altro che pur di sbeffeggiarlo quasi potrebbe ribaltarsi dal finestrino dello chapa in corsa, poi inizia a implorare in inglese me e M di dargli un po’ di WAAAAAAA – il ter non è mai arrivato – ma io il cazzo con le patate che gli darò la mia acqua.
Passiamo da larghe strade sterrate a sentieri strettissimi, sorvegliati da mucche in incognito infrattate in una folta vegetazione. Ogni tanto si aprono vasti giardini bianchi – bianchissimi – accecati dal sole e dal candore della terra battuta senza nemmeno un filo d’erba, che circondano case in lamiera pitturate da poco in giallo pastello, bianco o celeste, il cielo che vi fa da sfondo senza fondo. Mi sembrano palafitte sopra laghi di sale, trasmettono allo sguardo una leggerezza che manca alle case in muratura non stuccate o dalla vernice scrostata che si vedono in giro solitamente.
Ormai sono tre ore che le palme da cocco puntellano qui e là il paesaggio, ed è bello trovarle in scenari inediti, lungo valli strette tappezzate di verdissimi prati, o guardiane con le acacie di minuscole e scintillanti paludette, dove l’acqua si fa strada creando collane di cristalli tra sparuti fili d’erba per poi gettarsi in una grande pozza piena di bambini. Per attraversare la pozza c’è un ponte di legno dove i tronchi sono appoggiati gli uni sopra gli altri. Quando ci passiamo, addirittura un po’ inclinati, i bambini scherzano, fingono di spaventarsi per la nostra prossima caduta in acqua. La cosa mi diverte molto. All’improvviso, dietro l’ennesima aldeia, dove c’è già un po’ più di cemento rispetto a prima, dopo l’ultimo negozio di alcolici, finalmente spunta la linea tratteggiata della carreggiata, il giallo caldo che ci accompagnerà lungo la N4 fino a Vilankulo.
Il viaggio da lì sembra finito, anche se ci mancano ancora due ore e mezza, il meteo cambierà ancora sei o sette volte, la pioggia sottile e battente mi rinfrescherà il braccio sinistro che poi sarà asciugato e ustionato dal sole, e così a rotazione. Faremo ancora un centinaio di fermate, per caricare e scaricare merci e rifocillarci di arachidi, pannocchie e pasta fritta lungo i centri dell’autostrada fino alle porte di Vilankulo, dove poco prima del buio ci accolgono le natiche nude di un uomo aggrovigliato nei secchi canneti al bordo della strada sabbiosa e dissestata. «Ecco» dice M sorridendo «è con quest’uomo nudo che le carte hanno esaudito i nostri desideri e mantenuto la loro promessa; il nostro viaggio è terminato».
Almeno siamo arrivati, almeno nessuno ha assalito Morrumbene uccidendo un lavoratore dell’ospedale mentre noi ci passavamo in mezzo, almeno hanno aspettato un giorno per fare quest’azione discutibile. Meno male che all’altezza di Zandamela, nessuno ha rapito – e poi barbaramente ucciso a colpi d’arma da fuoco – un collaboratore di Venancio Mondlane scatenando un’ondata di proteste e blocchi stradali, meno male che hanno aspettato qualche settimana questi misteriosi uomini armati. Un tipo di ragionamento che, nel meraviglioso anno che ho passato in questo paese, mi è capitato di fare più volte.
Una definizione superficiale di cos’è un qualcosa alla Mozambicana, dalla prospettiva di un viziato visitatore occidentale, farebbe infatti riferimento “semplicemente” all’imprevedibilità insita in ogni situazione, persona, oggetto, piano o evento. Invece non è così, o meglio, è più raffinato. Un qualcosa è ‘alla mozambicana’ quando, pur essendo stato causa di sofferenza e fatica, si scopre che sarebbe potuta andare incommensurabilmente peggio di quanto non sia successo in realtà, creando un complesso di rassegnazione e quasi di sollievo per le sventure che hanno avuto almeno la delicatezza di palesarsi, uscire dall’ombra e scongiurare così l’apparizione di loro versioni più cupe e nocive.
È un discorso ricorrente, nell’esperienza umana sicuramente, ma in Mozambico in modo particolare: un luogo in cui, per dirla con le parole di Jason Sumich (2008) della London School of Economics, una parte consistente della società preferisce stare con il diavolo che conosce, timorosa che il cambiamento possa semplicemente portare al potere un clientela nuova, una classe cleptocratica potenzialmente più spregiudicata di quella precedente. Un concetto che spesso ho sentito esprimere in prima persona, o che chissà quante volte muove, o inibisce le mie azioni senza che nemmeno me ne renda conto.
Forse sono solo stanco, e non so più dove inizio io e finisce il delirio che mi circonda. E sono solo a metà del viaggio che mi porterà fino a Ilha de Moçambique, 2300 chilometri più a nord dalle verdi colline di Namaacha da cui sono partito.
Fotografia di Mário Macilau
Sito e Bibliografia
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