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Dicembre
4 Dicembre 2025

APPUN­TI DI VIAG­GIO DAL MOZAM­BI­CO

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A ORGIA DOS LOU­COS

Sono le sei di mat­ti­na del 22 feb­bra­io 2025, ci avvi­ci­nia­mo alla fine dell’estate mozam­bi­ca­na, tre mesi a par­ti­re da fine novem­bre a ini­zio mar­zo di cal­do afo­so e piog­ge tor­ren­zia­li. Mi rigi­ro svo­glia­ta­men­te per qual­che secon­do tra le len­zuo­la umi­de, poi, recu­pe­ra­te le ener­gie, sco­sto la zan­za­rie­ra, indos­so lo zai­no già pron­to dal­la sera pri­ma ed esco dal bun­ga­low. L’alba ha già fat­to capo­li­no da un po’ nel vil­lag­gio turi­sti­co di Tofo, dove abbia­mo pas­sa­to qual­che gior­no con una com­pa­gnia di ami­ci del Ser­vi­zio Civi­le. Riman­go per un atti­mo in com­pa­gnia del fra­go­re del­la risac­ca, fin­ché dopo pochi minu­ti non arri­va anche M, la mia com­pa­gna di viag­gio. 

Uscia­mo alle sei e mez­za e alle set­te sia­mo già sul­lo cha­pa. Non mi dilun­ghe­rò su que­sto par­ti­co­la­re, alla fine in mol­ti rac­con­ti sull’Africa il mez­zo di tra­spor­to più comu­ne è sem­pre lo stes­so, un fur­go­ne sul­lo sti­le dei Cara­vel­le Volk­swa­gen ria­dat­ta­to per far­ci entra­re una ven­ti­na di per­so­ne, in cin­que file da quat­tro pas­seg­ge­ri l’una. Un’asta di metal­lo per­cor­re tut­to il lato destro all’interno del vei­co­lo e mi impe­di­sce di appog­giar­mi al fine­stri­no. Per­ché è sal­da­ta lì? Per sco­rag­gia­re i ladri? For­se lo cha­pa rima­ne tan­to tem­po fer­mo con mer­ce den­tro? Ci sta che si rubi­no pure i sedi­li se non stan­no atten­ti.

Da quan­do sono arri­va­to, ho assi­sti­to o avu­to noti­zia di fur­ti per me piut­to­sto sin­go­la­ri: lam­pa­di­ne, cavi per rica­ri­ca­re le bat­te­rie del­le auto, sin­go­li pez­zi di ricam­bio dai com­pu­ter dall’aula di infor­ma­ti­ca dell’Istituto Agra­rio di Namaa­cha con cui col­la­bo­ria­mo, le lava­gne, le sedie o i ban­chi alla scuo­la ele­men­ta­re di Mafuia­ne, un pae­si­no rura­le dove ha sede l’associazione con cui sto lavo­ran­do, addi­rit­tu­ra le assi di legno uti­liz­za­te per crea­re un pic­co­lo par­co gio­chi di fron­te alla chie­sa del pae­se. Va det­to che sono tut­ti arti­co­li dif­fi­ci­li da tro­va­re nel mez­zo del­la cam­pa­gna mozam­bi­ca­na. Ma al momen­to la male­det­ta asta di metal­lo sem­bra, come tan­te cose che non capi­sco di que­sto pae­se, mes­sa lì sola­men­te per rom­pe­re il caz­zo. Vab­bè, mi dico, è un viag­gio di sola­men­te un’ora. 

Arri­via­mo a Inham­ba­ne nel­la piaz­za dei due mer­ca­ti, quel­lo vec­chio, ban­ca­rel­le e car­ret­ti, e quel­lo nuo­vo, un edi­fi­cio in cemen­to impo­nen­te e mez­zo vuo­to. Chie­dia­mo infor­ma­zio­ni ad alcu­ni pas­seg­ge­ri che stan­no per met­ter­si in viag­gio come noi. Ci con­vin­co­no che la cosa miglio­re sia evi­ta­re di attra­ver­sa­re in bar­ca il Gol­fo di Inham­ba­ne e sali­re subi­to su uno cha­pa che sta lì par­cheg­gia­to, il rimor­chio già piut­to­sto cari­co. Dimi­nui­re i mez­zi di tra­spor­to da pren­de­re ci sem­bra un buon modo per limi­ta­re gli impre­vi­sti, mol­lia­mo gli zai­ni, abbia­mo un quar­to d’ora per fare cola­zio­ne e soprat­tut­to tro­va­re un caf­fè cal­do. Non tro­via­mo il caf­fè, ma in com­pen­so incro­cio lo sguar­do ebe­te e smar­ri­to di un uomo piut­to­sto ler­cio, intal­lia­to, come si direb­be a Napo­li, su un mar­cia­pie­de dal­le pia­strel­le divel­te. M non ci fa caso, io le lan­cio un avver­ti­men­to lam­po:

«Oi»

«Eh»

«Non ha i pan­ta­lo­ni»

«Chi?»

«Quell’uomo, non ti spa­ven­ta­re ma non ha i pan­ta­lo­ni»

«Qual….ah»

In que­sti mesi ho visto diver­se vol­te per­so­ne nude in con­te­sti in cui non me lo sarei aspet­ta­to: al casel­lo dell’autostrada, nei video del­le pro­te­ste post-elet­to­ra­li che da otto­bre stan­no infiam­man­do Mapu­to e le stra­de del Mozam­bi­co con vio­len­ti scon­tri fra i mani­fe­stan­ti anti-FRE­LI­MO – il par­ti­to inin­ter­rot­ta­men­te al pote­re dai tem­pi dell’Indipendenza – e le for­ze di Poli­zia. Non è una nudi­tà minac­cio­sa o inva­den­te, sem­bra più un atto di libe­ra­zio­ne, anche se det­ta­to dal­la fol­lia – o dal­la sbron­za. Mi è suc­ces­so anche alla festa muni­ci­pa­le di Namaa­cha, ma one­sta­men­te lì non sono rima­sto poi così sor­pre­so.

Pri­ma di sali­re sul­lo cha­pa, pre­ven­ti­va­men­te, anche se per mez­zo­gior­no o l’una dovrem­mo già esse­re a Vilan­ku­lo, com­pria­mo da man­gia­re, io un pane con bad­jia, del­le frit­ta­ti­ne di fari­na di fagio­lo nhem­ba per cui sto svi­lup­pan­do una poten­tis­si­ma dipen­den­za, lei un pane con l’uovo sodo. Qua­ran­ta meti­cais – nome deri­van­te dall’arabo mith­qal, del­la mone­ta nazio­na­le mozam­bi­ca­na – che ci sal­ve­ran­no, ma noi non lo sap­pia­mo anco­ra, alla fine que­ste sono cose che non si san­no mai. 

Par­tia­mo, e per un’ora vaghia­mo per Inham­ba­ne per rac­co­glie­re pas­seg­ge­ri e spe­di­zio­ni varie. Il tra­spor­to in cha­pa in Mozam­bi­co segue una logi­ca sem­pli­ce: il mez­zo par­te quan­do è pie­no di per­so­ne e, per le trat­te più lun­ghe, di mer­ci, che si accu­mu­la­no sul tet­to o sul rimor­chio poste­rio­re. Si pos­so­no tra­spor­ta­re sac­chi di riso, fari­na e car­bo­ne, ani­ma­li, mobi­li, elet­tro­do­me­sti­ci, mate­ras­si, medi­ci­na­li, docu­men­ti: un modo lo si tro­va sem­pre. E quan­do i pas­seg­ge­ri non arri­va­no allo cha­pa, allo­ra è lo cha­pa che deve anda­re dai pas­seg­ge­ri, pere­gri­nan­do per le stra­de alla ricer­ca di clien­ti, sen­za un ora­rio di par­ten­za deter­mi­na­to. Io e M non ci sia­mo anco­ra abi­tua­ti a que­sta cosa, anzi ci sner­va, anche per­chè ini­zia a far cal­do e vor­rem­mo sol­tan­to par­ti­re. 

Final­men­te lascia­mo la cit­tà, i suoi quar­tie­ri rac­cat­ta­ti, slab­bra­ti e sab­bio­si come tut­ti quel­li che ho visto fino­ra e che non sia­no Som­mer­schield a Mapu­to – il quar­tie­re del­le amba­scia­te e del­le ONG per inten­der­ci – o le case dei dipen­den­ti del­la poli­zia di fron­tie­ra a Namaa­cha, costrui­te nuo­ve o rica­va­te da vec­chie vil­let­te colo­nia­li lascia­te dai por­to­ghe­si a goder­si le dol­ci col­li­ne del distret­to sen­za di loro. Comin­cia­mo final­men­te a cir­cum­na­vi­ga­re il Gol­fo che da Inham­ba­ne descri­ve un arco, o meglio il lobo d’un orec­chio, fino a Mai-Xixi. Fino a qui tut­to bene, cari­chia­mo e sca­ri­chia­mo per­so­ne e mer­ci, io e M avi­da­men­te ci man­gia­mo i nostri pani­ni più tre bana­ne com­pra­te in una sosta per die­ci meti­cais. Anche qui, la prov­vi­den­za ci por­ge tre bana­ne bel­le ver­di, toste, ma già abba­stan­za matu­re da esse­re man­gia­te. La mos­sa stra­te­gi­ca che ci vole­va per nutrir­si e allo stes­so tem­po dare una mano al nostro inte­sti­no anco­ra un po’ in sub­bu­glio per il cam­bio di ali­men­ta­zio­ne degli ulti­mi cin­que mesi. Ci ser­vi­ran­no, oh come ci ser­vi­ran­no. 

Il viag­gio sem­bra scor­re­re tran­quil­lo, fin­ché, sul­la stra­da per Mas­sin­ga, il nostro auti­sta ini­zia a rice­ve­re chia­ma­te e a rispon­der­vi con espres­sio­ne pre­oc­cu­pa­ta e poche sem­pli­ci paro­le «Ah. Mmh. Fecha­ram a estra­da. Mmh». Io e M vor­rem­mo stu­pir­ci, la veri­tà è che non è nien­te di nuo­vo, sono mesi che va avan­ti così, anche se è la pri­ma vol­ta che ci con­fron­tia­mo con le pro­te­ste post-elet­to­ra­li in pri­ma per­so­na. 

La cau­sa diret­ta del­le mani­fe­sta­zio­ni sono i bro­gli elet­to­ra­li avve­nu­ti duran­te e dopo le con­sul­ta­zio­ni del 9 otto­bre, denun­cia­ti anche dagli osser­va­to­ri invia­ti dall’Unio­ne Euro­pea e, più sor­pren­den­te­men­te, dal­la Con­fe­ren­za Epi­sco­pa­le Mozam­bi­ca­na. Ad ani­ma­re le pro­te­ste sono per lo più i soste­ni­to­ri di Venan­cio Mond­la­ne. Ex mem­bro dei prin­ci­pa­li par­ti­ti d’opposizione del­la gio­va­ne demo­cra­zia elet­to­ra­le mozam­bi­ca­na, il MDM e la RENA­MO – ne ripar­le­re­mo –, Mond­la­ne è con­flui­to in un par­ti­to rela­ti­va­men­te mar­gi­na­le, PODE­MOS, per poter­si can­di­da­re alle ele­zio­ni pre­si­den­zia­li.

Cari­sma­ti­co e soprat­tut­to mol­to foto­ge­ni­co, con un’esperienza anche come pre­di­ca­to­re e pasto­re di una chie­sa pen­te­co­sta­le, nel giro di una cam­pa­gna elet­to­ra­le ha tra­sfor­ma­to un par­ti­to semi-sco­no­sciu­to nel­la secon­da – o pri­ma, bro­gli per­met­ten­do – for­za par­la­men­ta­re del Mozam­bi­co, usan­do i social net­work in modo intel­li­gen­tis­si­mo e dan­do voce al mal­con­ten­to di una socie­tà gio­va­ne ma pove­ra e ingab­bia­ta dal­le reti di cor­ru­zio­ne e clien­te­li­smo costrui­ti dal­le isti­tu­zio­ni finan­zia­rie inter­na­zio­na­li e dal­l’e­sta­blish­ment mozam­bi­ca­no, soprat­tut­to a par­ti­re dal pro­ces­so di demo­cra­tiz­za­zio­ne e libe­ra­liz­za­zio­ne degli anni Novan­ta – non è mia inten­zio­ne fare in quest’articolo una lun­ga dis­ser­ta­zio­ne sul tema, esi­sto­no tra l’altro intel­let­tua­li ita­lia­ni estre­ma­men­te fer­ra­ti sul tema, Cor­ra­do Tor­nim­be­ni e Luca Bus­sot­ti, e stra­nie­ri, come Jose­ph Han­lon, che pos­so­no esse­re appro­fon­di­ti da chi voles­se saper­ne di più. 

L’apparato del pote­re si è chia­ra­men­te sen­ti­to minac­cia­to dal movi­men­to mes­so in pie­di da Venan­cio Mond­la­ne e nel­la not­te fra il 19 e il 20 otto­bre, die­ci gior­ni dopo le ele­zio­ni e una set­ti­ma­na pri­ma che la Com­mis­sio­ne Elet­to­ra­le vali­das­se la vit­to­ria del­la FRE­LI­MO in un cli­ma di ten­sio­ne ecce­zio­na­le, veni­va­no ucci­si nel cen­tro di Mapu­to da ven­ti col­pi d’arma da fuo­co Pau­lo Guam­be e Elvi­no Dias, due rap­pre­sen­tan­ti di PODE­MOS. Elvi­no Dias, in par­ti­co­la­re, era al cen­tro del­la squa­dra di PODE­MOS inca­ri­ca­ta di gesti­re la pro­ce­du­ra lega­le per la con­te­sta­zio­ne dei risul­ta­ti elet­to­ra­li.

Da quel gior­no, Venan­cio Mond­la­ne, rifu­gia­to­si fuo­ri dal pae­se, ha ini­zia­to a orche­stra­re una cam­pa­gna di scio­pe­ri e mani­fe­sta­zio­ni che han­no scos­so il Mozam­bi­co per mesi, repres­sa in ogni modo dal Gover­no. Per alcu­ne set­ti­ma­ne l’accesso a Inter­net è sta­to inter­rot­to, sfrut­tan­do i lega­mi con le prin­ci­pa­li com­pa­gnie di tele­co­mu­ni­ca­zio­ni del pae­se: Gue­bu­za, ex-Pre­si­den­te del­la Repub­bli­ca, chia­ra­men­te appar­te­nen­te alla FRE­LI­MO, è azio­ni­sta di Voda­com; l’altra com­pa­gnia, Movi­tel, è in par­te pro­prie­tà del fon­do SPI – Gestão e Inve­sti­men­tos, già accu­sa­ta dal Cen­tro de Inte­gri­da­de Públi­ca nel 2012 di aver rice­vu­to favo­ri dal gover­no in quan­to con­trol­la­ta da mem­bri del­la FRE­LI­MO e con­si­de­ra­ta il brac­cio finan­zia­rio del Par­ti­to. Allo stes­so tem­po, le for­ze dell’ordine semi­na­va­no il ter­ro­re nel­le stra­de del pae­se. 

Nel nostro caso, tut­ta­via, più che in una pro­te­sta poli­ti­ca sem­bra che ci sia­mo imbat­tu­ti in dei gang­ster improv­vi­sa­ti, smun­ti e for­ti solo di qual­che tron­co but­ta­to lì in mez­zo alla stra­da, al limi­te di basto­ni spi­go­lo­si ed esi­li – di legna fre­sca, non di rami nodo­si – o di cata­ne tenu­te fra le mutan­de e il pac­co, a far vede­re il mani­co come degli sca­gnoz­zi mostre­reb­be­ro minac­cio­sa­men­te l’impugnatura di una cali­bro 45. È que­sto l’equipaggiamento neces­sa­rio a estor­ce­re, prin­ci­pal­men­te a camio­ni­sti e auti­sti di cha­pa – non ci sono mol­te auto pri­va­te sul­la N4, in gene­ra­le e quel­la mat­ti­na in par­ti­co­la­re – cin­quan­ta, al limi­te cen­to meti­cais, una cifra che va dagli ottan­ta cen­te­si­mi all’euro a cin­quan­ta, secon­do le flut­tua­zio­ni del cam­bio. 

La paro­la che sen­to echeg­gia­re più spes­so nel mez­zo è ‘abu­so’. Dall’inizio del nuo­vo anno in par­ti­co­la­re la pro­te­sta poli­ti­ca del­la mas­sa sem­bra cam­bia­ta, incat­ti­vi­ta. Nei pri­mi mesi, i bloc­chi stra­da­li era­no mira­ti, pun­ta­va­no a bloc­ca­re le fron­tie­re o i casel­li auto­stra­da­li, per pena­liz­za­re allo stes­so tem­po le cas­se del­lo Sta­to e i traf­fi­ci com­mer­cia­li dei padro­ni del pae­se. Venan­cio Mond­la­ne annun­cia­va, con una diret­ta Face­book, i gior­ni pre­scel­ti per le mani­fe­sta­zio­ni, per­si­no gli ora­ri, e que­sti veni­va­no rispet­ta­ti al mil­li­se­con­do. Poi, improv­vi­sa­men­te, tut­to è sfug­gi­to di mano, le pro­te­ste e i bloc­chi stra­da­li sono diven­ta­ti impre­ve­di­bi­li, e le mani­fe­sta­zio­ni sono sfo­cia­te spes­so e volen­tie­ri nel sac­cheg­gio indi­stur­ba­to dei nego­zi di ali­men­ta­ri, elet­tro­do­me­sti­ci e quant’altro. 

La vio­len­za, fino a dicem­bre limi­ta­ta per lo più ai posti di poli­zia e alle sedi del­la FRE­LI­MO e moti­va­ta dal­la fero­ce repres­sio­ne del­le mani­fe­sta­zio­ni paci­fi­che a ope­ra del­le for­ze dell’ordine, si è tra­sfor­ma­ta in gret­to van­da­li­smo, fun­zio­na­le per lo più allo scia­cal­lag­gio, pro­vo­can­do la chiu­su­ra di diver­si nego­zi e fab­bri­che, e quin­di disoc­cu­pa­zio­ne e disaf­fe­zio­ne da par­te di una fet­ta sem­pre più gran­de di popo­la­zio­ne nei con­fron­ti del­le pro­te­ste. 

Cos’è suc­ces­so? ver­reb­be da chie­der­si. È dif­fi­ci­le non tor­na­re con la men­te al 26 dicem­bre, quan­do nel­la fase più cal­da del­le pro­te­ste, dopo che la Cor­te Costi­tu­zio­na­le ave­va appro­va­to defi­ni­ti­va­men­te i risul­ta­ti del­le ele­zio­ni, di fat­to san­cen­do l’impossibilità di una solu­zio­ne lega­le alla cri­si post-elet­to­ra­le, 6000 pri­gio­nie­ri sono scap­pa­ti dal car­ce­re di mas­si­ma sicu­rez­za di Mapu­to. Dopo la fuga, il capo del­la Poli­zia e la mini­stra com­pe­ten­te per le car­ce­ri si con­trad­di­ro­no sul­le cau­se del­la maxi-eva­sio­ne, ali­men­tan­do il sospet­to che il tut­to fos­se orche­stra­to per distrar­re l’opinione pub­bli­ca e aumen­ta­re il van­da­li­smo gene­ra­liz­za­to del­le pro­te­ste.

Il suc­co, però, al di là del­le con­get­tu­re, è che la gen­te è stan­ca e non è più dispo­sta a bloc­ca­re la pro­pria vita soprat­tut­to a cau­sa dei gio­chi di quat­tro ragaz­zi­ni anno­ia­ti con gli occhi iniet­ta­ti di gin e poco inte­res­sa­ti a con­tra­sta­re il caro­vi­ta – chis­sà se in que­sti mesi è aumen­ta­to il prez­zo del gin: la 2M, la bir­ra nazio­na­le, di sicu­ro è aumen­ta­ta da ses­san­ta a ses­san­ta­cin­que fino a set­tan­ta meti­cais. Il caro­vi­ta è aumen­ta­to sia per gli auti­sti del­lo cha­pa che per i pas­seg­ge­ri, quin­di fos­se anche una pro­te­sta come  mini­mo sem­bra incoe­ren­te e mal indi­riz­za­ta. Più che dei mani­fe­stan­ti sono dei casel­lan­ti, abba­stan­za ubria­chi ed ecci­ta­ti dall’essere grup­po, ban­da, gang. Sia­mo a un pas­so dal malin­te­so mol­to bor­ghe­se per cui le uni­che pro­te­ste ben accet­te sono quel­le fat­te civil­men­te e rispet­tan­do dei limi­ti ben defi­ni­ti; meglio apri­re una paren­te­si per evi­ta­re di cade­re nel tra­nel­lo. 

Malyn Newitt, sto­ri­co dell’Africa Luso­fo­na e auto­re di un’onnipresente nel­le – poche – libre­rie mozam­bi­ca­ne, Sto­ria del Mozam­bi­co, sostie­ne che la guer­ra civi­le mozam­bi­ca­na fra il gover­no e i mili­zia­ni del­la RENA­MO, che ha deva­sta­to il pae­se da poco dopo l’indipendenza fino agli accor­di di pace del 1992, abbia essen­zial­men­te due respon­sa­bi­li. L’azione desta­bi­liz­za­tri­ce del Suda­fri­ca dell’apartheid, prin­ci­pa­le finan­zia­to­re del­la RENA­MO, e una strut­tu­ra­le disar­ti­co­la­zio­ne del­la socie­tà mozam­bi­ca­na, orga­niz­za­ta in pic­co­le comu­ni­tà iso­la­te fra di loro – e diver­sis­si­me per lin­gue e cul­tu­ra – e che si pre­ste­reb­be, nei momen­ti di dif­fi­col­tà, alla pro­li­fe­ra­zio­ne del ban­di­ti­smo. Lo stes­so Newitt vede il rifles­so di que­sta ten­den­za anche nel (dis)funzionamento del­lo Sta­to Mozam­bi­ca­no (Newitt 1995, 574–577).

In paro­le pove­re potrem­mo anche uti­liz­za­re i ver­si di Wil­lie Peyo­te in Ven­de­si: “abbia­mo tut­ti un’attenuante se lo schi­fo è con­sen­sua­le”. 

Lo spe­ri­men­te­rò più avan­ti in pri­ma per­so­na; se da Tofo a Vilan­ku­lo sono i mani­fe­stan­ti a sbar­rar­ci con­ti­nua­men­te la stra­da esi­gen­do il paga­men­to del pedag­gio, la stes­sa sce­na da Vilan­ku­lo a Chi­mo­io, nel­la par­te suc­ces­si­va del mio viag­gio, si ripe­te­rà ugua­le e iden­ti­ca, ma con la poli­zia stra­da­le come pro­ta­go­ni­sta, in un nor­ma­lis­si­mo svol­ger­si del­la cor­ru­zio­ne quo­ti­dia­na, ele­men­to tipi­co del vive­re civi­le mozam­bi­ca­no. Anco­ra non lo so, esau­sto e disi­dra­ta­to sul fine­stri­no del­lo cha­pa, ma non sono asso­lu­ta­men­te nel­la posi­zio­ne di giu­di­ca­re nes­su­no, soprat­tut­to men­tre a casa mia i poli­ziot­ti mas­sa­cra­no gli stu­den­ti a col­pi di man­ga­nel­lo e gli spa­zi di pro­te­sta e dis­sen­so ‘con­sen­ti­ti’ si assot­ti­glia­no sem­pre di più. Sen­za con­si­de­ra­re che, men­tre i nostri poli­ti­ci in quel momen­to sono in pri­ma linea a difen­de­re i valo­ri demo­cra­ti­ci in Ucrai­na e Israe­le, nes­su­no sem­bra far caso alla vio­len­ta repres­sio­ne del Gover­no Mozam­bi­ca­no. Che c’entrino gli inte­res­si di Eni mai mes­si in dub­bio dal­l’é­li­te del­la FRE­LI­MO? Meglio distrar­si, appog­gia­re la fron­te sul fine­stri­no e spe­ra­re che que­sto viag­gio inter­mi­na­bi­le fini­sca il pri­ma pos­si­bi­le. 

Pia­no pia­no arri­via­mo al cen­tro di Mas­sin­ga, dove la stra­da è di nuo­vo bloc­ca­ta. 

Qui a pro­te­sta­re sono gli adul­ti. A bloc­ca­re la stra­da non ci sono pochi tron­chi, ma gros­si camion par­cheg­gia­ti di tra­ver­so a quel­la che, ipo­te­ti­ca­men­te, è la dire­zio­ne del­la cir­co­la­zio­ne. Gli adul­ti non accet­ta­no dena­ro, voglio­no solo espri­me­re il pro­prio dis­sen­so e lo faran­no, si dice in giro, fino alle ore sedi­ci in pun­to. 

È mez­zo­gior­no. Il pane e bad­jia del­le nove del mat­ti­no nel mio sto­ma­co sapien­te­men­te ini­zia a rila­scia­re a musco­li e men­te le ener­gie che mi ser­vo­no per rima­ne­re luci­do. Cer­to, sia­mo fer­mi nell’unico pun­to del Mozam­bi­co dove non c’è nei parag­gi una gri­glia, una don­na che frig­ge o un biliar­do, e la cosa mi scoc­cia. M per tran­quil­liz­zar­si ini­zia a leg­ger­si le car­te, non i taroc­chi, sem­pli­ce­men­te le car­te fran­ce­si. Dico­no che arri­ve­re­mo oggi, che par­ti­re­mo entro le 16, che for­se incon­tre­re­mo qual­che dif­fi­col­tà. Basta e avan­za, pen­so io. Poi gio­chia­mo a tres­set­te, e io le reci­to un atto uni­co di Čechov dall’unico libro che mi sono por­ta­to, l’edizione eco­no­mi­ca del­le sue ope­re tea­tra­li. Sul­la coper­ti­na, i rami del cilie­gio in fio­re cam­peg­gia­no su uno sfon­do blu petro­lio. Con incon­sa­pe­vo­le sag­gez­za deci­de­rò di rega­lar­lo all’autista del­lo cha­pa, igna­ro del­la mia gene­ro­si­tà e soprat­tut­to dell’italiano; ma che vole­te, io dei libri non sono gelo­so, tan­to meno del­le edi­zio­ni eco­no­mi­che tro­va­te al Librac­cio. 

Alle quat­tor­di­ci e tren­ta, qual­co­sa si muo­ve. Dob­bia­mo tut­ti rien­tra­re in mac­chi­na, Tio Erne­sto l’autista si ricor­da per­si­no di una ragaz­zi­na vesti­ta di rosa nasco­sta a bor­do stra­da che ci inse­gue tra­fe­la­ta. Sia­mo tre cha­pa, e su ognu­no dei tre sale un uomo sco­no­sciu­to, il nostro si chia­ma James ed è bas­so e magro, con una magliet­ta a righe, i den­ti stor­ti cir­con­da­ti da una bar­bet­ta ispi­da e ric­cia, il cra­nio pic­co­lo e rasa­to. James ini­zia a sbrai­ta­re al nostro auti­sta, impa­ro la paro­la mulan­zi, vuol dire “segui­lo”. Si crea una pic­co­la caro­va­na di pul­mi­ni, che dal­la stra­da prin­ci­pa­le si infi­la in un sen­tie­ro sab­bio­so di cam­pa­gna, e lì capi­sco, sen­ten­do par­la­re Tio Erne­sto con il suo aiu­tan­te inca­stra­to nei sedi­li poste­rio­ri. Abbia­mo paga­to que­sti uomi­ni per gui­dar­ci nel­le stra­de ster­ra­te che con­tor­na­no le macham­ba, i cam­pi di mais e man­dio­ca, e il mato, il bosco, per aggi­ra­re il bloc­co e gua­da­gna­re un po’ di tem­po. Dei tre cha­pa, uno rima­ne inca­stra­to nel­la sab­bia, e lo abban­do­nia­mo al suo desti­no. Non so per­ché quan­do inve­ce ci inca­stria­mo noi i pas­seg­ge­ri di entram­bi i vei­co­li scen­do­no a spin­ge­re e dar­si una mano, non riman­go­no indif­fe­ren­ti. 

Com’era pre­ve­di­bi­le, incon­tria­mo un altro bloc­co sul­la stra­da, per­si­no in mez­zo alla caz­zo di cam­pa­gna. Degli uomi­ni sedu­ti sot­to un albe­ro d’acacia cir­con­da­ti da don­ne e bam­bi­ni si alza­no all’istante con fare inti­mi­da­to­rio, ma for­tu­na­ta­men­te fa tut­to par­te del pia­no. Le nostre gui­de fan­no dei segni a un uomo bas­so sen­za magliet­ta e con la boc­cia di gin che gli esce dal­la tasca poste­rio­re dei jeans. Quan­do pas­sia­mo il bloc­co, le don­ne da sot­to l’albero ci salu­ta­no festan­ti, cor­ri­spo­ste dai pas­seg­ge­ri che, aiz­za­ti dal­la nostra gui­da sem­pre più agi­ta­ta, ini­zia­no a can­ta­re i cori del­le pro­te­ste post-elet­to­ra­li, «Este país é nos­so, Venan­cio, Venan­cio…»

Ci fer­mia­mo pure nel vil­lag­gio dopo, e in quel­lo dopo anco­ra, anche se non c’è nes­sun bloc­co stra­da­le. Le nostre gui­de in entram­bi i casi scen­do­no, spen­do­no i sol­di che han­no appe­na gua­da­gna­to per com­prar­si una bot­ti­glia di gin, se la sgol­la­no in pochi istan­ti con lun­ghi sor­si ma deci­si, sec­chi, com­pra­no una siga­ret­ta e rimon­ta­no a bor­do, spor­gen­do­si all’inverosimile dal fine­stri­no per poter fuma­re e impor­tu­na­re ad altis­si­ma voce tut­ti i pas­san­ti che incon­tria­mo. 

«Futse­ka, futse­ka!» gri­da imper­ti­nen­te James, l’alito eti­li­co che esa­la dal sedi­le die­tro al mio. Per­ché sta urlan­do “fot­te­te­vi”? Lo gri­da ai pas­san­ti o ai pic­co­li con­ta­di­ni che lo guar­da­no atto­ni­ti dal­le loro veran­de colo­ra­te di lamie­ra. Lo gri­da al suo com­pa­re che tie­ne sem­pre per sé il fon­do del­la bot­ti­glia e che dopo il secon­do giro di bevu­te gli mostra trion­fan­te una bor­rac­cia pie­na d’acqua. Lui impre­ca di fron­te all’altro che pur di sbef­feg­giar­lo qua­si potreb­be ribal­tar­si dal fine­stri­no del­lo cha­pa in cor­sa, poi ini­zia a implo­ra­re in ingle­se me e M di dar­gli un po’ di WAAAAAAA – il ter non è mai arri­va­to – ma io il caz­zo con le pata­te che gli darò la mia acqua.

Pas­sia­mo da lar­ghe stra­de ster­ra­te a sen­tie­ri stret­tis­si­mi, sor­ve­glia­ti da muc­che in inco­gni­to infrat­ta­te in una fol­ta vege­ta­zio­ne. Ogni tan­to si apro­no vasti giar­di­ni bian­chi – bian­chis­si­mi –  acce­ca­ti dal sole e dal can­do­re del­la ter­ra bat­tu­ta sen­za nem­me­no un filo d’erba, che cir­con­da­no case in lamie­ra pit­tu­ra­te da poco in gial­lo pastel­lo, bian­co o cele­ste, il cie­lo che vi fa da sfon­do sen­za fon­do. Mi sem­bra­no pala­fit­te sopra laghi di sale, tra­smet­to­no allo sguar­do una leg­ge­rez­za che man­ca alle case in mura­tu­ra non stuc­ca­te o dal­la ver­ni­ce scro­sta­ta che si vedo­no in giro soli­ta­men­te.

Ormai sono tre ore che le pal­me da coc­co pun­tel­la­no qui e là il pae­sag­gio, ed è bel­lo tro­var­le in sce­na­ri ine­di­ti, lun­go val­li stret­te tap­pez­za­te di ver­dis­si­mi pra­ti, o guar­dia­ne con le aca­cie di minu­sco­le e scin­til­lan­ti palu­det­te, dove l’acqua si fa stra­da crean­do col­la­ne di cri­stal­li tra spa­ru­ti fili d’erba per poi get­tar­si in una gran­de poz­za pie­na di bam­bi­ni. Per attra­ver­sa­re la poz­za c’è un pon­te di legno dove i tron­chi sono appog­gia­ti gli uni sopra gli altri. Quan­do ci pas­sia­mo, addi­rit­tu­ra un po’ incli­na­ti, i bam­bi­ni scher­za­no, fin­go­no di spa­ven­tar­si per la nostra pros­si­ma cadu­ta in acqua. La cosa mi diver­te mol­to. All’improvviso, die­tro l’ennesima aldeia, dove c’è già un po’ più di cemen­to rispet­to a pri­ma, dopo l’ultimo nego­zio di alco­li­ci, final­men­te spun­ta la linea trat­teg­gia­ta del­la car­reg­gia­ta, il gial­lo cal­do che ci accom­pa­gne­rà lun­go la N4 fino a Vilan­ku­lo. 

Il viag­gio da lì sem­bra fini­to, anche se ci man­ca­no anco­ra due ore e mez­za, il meteo cam­bie­rà anco­ra sei o set­te vol­te, la piog­gia sot­ti­le e bat­ten­te mi rin­fre­sche­rà il brac­cio sini­stro che poi sarà asciu­ga­to e ustio­na­to dal sole, e così a rota­zio­ne. Fare­mo anco­ra un cen­ti­na­io di fer­ma­te, per cari­ca­re e sca­ri­ca­re mer­ci e rifo­cil­lar­ci di ara­chi­di, pan­noc­chie e pasta frit­ta lun­go i cen­tri dell’autostrada fino alle por­te di Vilan­ku­lo, dove poco pri­ma del buio ci accol­go­no le nati­che nude di un uomo aggro­vi­glia­to nei sec­chi can­ne­ti al bor­do del­la stra­da sab­bio­sa e dis­se­sta­ta. «Ecco» dice M sor­ri­den­do «è con quest’uomo nudo che le car­te han­no esau­di­to i nostri desi­de­ri e man­te­nu­to la loro pro­mes­sa; il nostro viag­gio è ter­mi­na­to». 

Alme­no sia­mo arri­va­ti, alme­no nes­su­no ha assa­li­to Mor­rum­be­ne ucci­den­do un lavo­ra­to­re dell’ospedale men­tre noi ci pas­sa­va­mo in mez­zo, alme­no han­no aspet­ta­to un gior­no per fare quest’azione discu­ti­bi­le. Meno male che all’altezza di Zan­da­me­la, nes­su­no ha rapi­to – e poi bar­ba­ra­men­te ucci­so a col­pi d’arma da fuo­co – un col­la­bo­ra­to­re di Venan­cio Mond­la­ne sca­te­nan­do un’ondata di pro­te­ste e bloc­chi stra­da­li, meno male che han­no aspet­ta­to qual­che set­ti­ma­na que­sti miste­rio­si uomi­ni arma­ti. Un tipo di ragio­na­men­to che, nel mera­vi­glio­so anno che ho pas­sa­to in que­sto pae­se, mi è capi­ta­to di fare più vol­te. 

Una defi­ni­zio­ne super­fi­cia­le di cos’è un qual­co­sa alla Mozam­bi­ca­na, dal­la pro­spet­ti­va di un vizia­to visi­ta­to­re occi­den­ta­le, fareb­be infat­ti rife­ri­men­to “sem­pli­ce­men­te” all’imprevedibilità insi­ta in ogni situa­zio­ne, per­so­na, ogget­to, pia­no o even­to. Inve­ce non è così, o meglio, è più raf­fi­na­to. Un qual­co­sa è ‘alla mozam­bi­ca­na’ quan­do, pur essen­do sta­to cau­sa di sof­fe­ren­za e fati­ca, si sco­pre che sareb­be potu­ta anda­re incom­men­su­ra­bil­men­te peg­gio di quan­to non sia suc­ces­so in real­tà, crean­do un com­ples­so di ras­se­gna­zio­ne e qua­si di sol­lie­vo per le sven­tu­re che han­no avu­to alme­no la deli­ca­tez­za di pale­sar­si, usci­re dall’ombra e scon­giu­ra­re così l’apparizione di loro ver­sio­ni più cupe e noci­ve. 

È un discor­so ricor­ren­te, nell’esperienza uma­na sicu­ra­men­te, ma in Mozam­bi­co in modo par­ti­co­la­re: un luo­go in cui, per dir­la con le paro­le di Jason Sumich (2008) del­la Lon­don School of Eco­no­mics, una par­te con­si­sten­te del­la socie­tà pre­fe­ri­sce sta­re con il dia­vo­lo che cono­sce, timo­ro­sa che il cam­bia­men­to pos­sa sem­pli­ce­men­te por­ta­re al pote­re un clien­te­la nuo­va, una clas­se clep­to­cra­ti­ca poten­zial­men­te più spre­giu­di­ca­ta di quel­la pre­ce­den­te. Un con­cet­to che spes­so ho sen­ti­to espri­me­re in pri­ma per­so­na, o che chis­sà quan­te vol­te muo­ve, o ini­bi­sce le mie azio­ni sen­za che nem­me­no me ne ren­da con­to. 

For­se sono solo stan­co, e non so più dove ini­zio io e fini­sce il deli­rio che mi cir­con­da. E sono solo a metà del viag­gio che mi por­te­rà fino a Ilha de Moçam­bi­que, 2300 chi­lo­me­tri più a nord dal­le ver­di col­li­ne di Namaa­cha da cui sono par­ti­to. 

Foto­gra­fia di Mário Maci­lau

Sito e Biblio­gra­fia

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