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Novembre
14 Novembre 2025

ASCOL­TA LA TUA OMBRA

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La recen­sio­ne di Una lun­ghis­si­ma ombra, il nuo­vo disco di Andrea Lasz­lo De Simo­ne

Il mec­ca­ni­smo del­la sto­ria ha smes­so ormai defi­ni­ti­va­men­te di fun­zio­na­re da qual­che decen­nio. Cam­mi­nia­mo in un pae­sag­gio di rovi­ne, cer­can­do di maneg­gia­re il sen­so di col­pa di que­sta ster­mi­na­ta disfat­ta del­l’u­ma­ni­tà. Rac­co­glia­mo dei coc­ci di sto­ria per dispor­li in manie­re anco­ra sor­pren­den­ti e la chia­mia­mo arte.

La musi­ca di Lasz­lo De Simo­ne è sem­pre sta­ta una musi­ca del­le rovi­ne. La sua voce fil­tra­ta, come tut­to il trat­ta­men­to sono­ro dei suoi album enfa­tiz­za­no un suo­no sem­pre leg­ger­men­te distor­to, che a disca­pi­to del­la chia­rez­za d’ascolto, rag­giun­ge un’organicità di tut­ti i tim­bri, lega­ti insie­me in quell’unica mas­sa sono­ra che sem­bra dia­lo­ga­re diret­ta­men­te con il nostro sub­con­scio. Appa­re quan­to di più vici­no ad una ope­ra­zio­ne di ucro­nia musi­ca­le, quel­la che Car­rè­re nel suo libro omo­ni­mo defi­ni­sce la nar­ra­zio­ne in cui “la sto­ria diven­ta pale­se­men­te altra, modi­fi­ca­ta da distor­sio­ni irre­ver­si­bi­li” (Car­rè­re 2024). Que­ste distor­sio­ni irre­ver­si­bi­li sono le stes­se che Andrea Lasz­lo De Simo­ne appli­ca alla sua musi­ca, inven­tan­do una sto­ria del­la musi­ca leg­ge­ra pale­se­men­te altra. Can­zo­ni che ven­go­no da un altro mon­do – mai esi­sti­to – che guar­da il nostro con una stra­na ed esta­ti­ca malin­co­nia.

Già con i suoi lavo­ri pre­ce­den­ti Uomo Don­na (2017) e l’EP Immen­si­tà (2020), usci­ti entram­bi per 42 Records, si era mos­so nel tem­po pri­va­to – sono­ro e ver­ba­le – del ricor­do.
Quel­la musi­ca rive­la­va una sen­si­bi­li­tà arti­sti­ca che ave­va biso­gno di com­pie­re uno sfor­zo imma­ne per con­fron­tar­si con il pre­sen­te, pro­prio nel com­pie­re quel­lo sfor­zo però risplen­de­va il suo talen­to più pro­fon­do e pre­zio­so. Uno sfor­zo che è anche il cuo­re di Una lun­ghis­si­ma ombra.
Negli ulti­mi cin­que anni, De Simo­ne si è allon­ta­na­to dal­la sce­na musi­ca­le per dedi­car­si al cine­ma, la sua pri­ma pas­sio­ne arti­sti­ca, in cui ave­va già lavo­ra­to a lun­go come video assi­st. Ha com­po­sto la colon­na sono­ra di Le Règne Ani­mal (2024), con cui ha vin­to un pre­mio César, con­ti­nuan­do a dare cre­di­to all’in­ten­zio­ne di voler abban­do­na­re la scrit­tu­ra di can­zo­ni per dedi­car­si inte­ra­men­te alle colon­ne sono­re. In quel mestie­re diver­so spa­ri­va la neces­si­tà di can­ta­re, spa­ri­va­no le paro­le e anche il suo per­so­nag­gio pub­bli­co tro­va­va mag­gio­ri mar­gi­ni di occul­ta­men­to. Pote­va­no esse­re le imma­gi­ni in movi­men­to del­la pel­li­co­la – e non il suo cor­po e la voce – a far­si vei­co­lo del­la sua musi­ca.
In una recen­te lun­ghis­si­ma inter­vi­sta su Rol­ling Sto­ne, De Simo­ne riba­di­sce come si sen­ta poco a suo agio nel pano­ra­ma musi­ca­le con­tem­po­ra­neo e nel ruo­lo di cele­bri­tà che è chia­ma­to a reci­ta­re l’ar­ti­sta. Con l’u­sci­ta di que­sto album non farà con­cer­ti, il pal­co l’af­fa­ti­ca e vuo­le dedi­ca­re le sue ener­gie alla fami­glia: “è dolo­ro­so per me per­ché non sono un atto­re, non rie­sco a infi­lar­mi una masche­ra. […] È bel­lo suo­na­re, non smet­te di pia­cer­mi, ma mi affa­ti­ca. E poi sei lon­ta­no da casa e io non voglio per­de­re la chan­ce che si pre­sen­ta una vol­ta sola nel­la vita di vede­re i 5 anni di mia figlia”.

Pog­gio il pri­mo dei due vini­li di Una lun­ghis­si­ma ombra sul gira­di­schi, dopo qual­che minu­to, la sua voce distor­ta – pri­va­ta nel mix del­le fre­quen­ze più estre­me del­lo spet­tro – into­na del­le paro­le che esi­sto­no sol­tan­to in un uni­ver­so poe­ti­co ormai com­ple­ta­men­te postic­cio. Sem­bra di ascol­tar­lo in bian­co e nero. È la voce di un cadet­to spa­zia­le che spe­di­sce mes­sag­gi nel­la sua navi­cel­la alla deri­va; è la voce del­l’ul­ti­mo bam­bi­no ter­re­stre, il cui lamen­to vie­ne regi­stra­to con mez­zi di for­tu­na dai super­sti­ti del­l’a­po­ca­lis­se eco­lo­gi­ca.
Ciò che distin­gue il lavo­ro di Lasz­lo De Simo­ne nel­l’o­dier­no pano­ra­ma musi­ca­le ita­lia­no – ed è la gran­de con­fer­ma di que­sto nuo­vo album – è la pie­na con­sa­pe­vo­lez­za del suo sti­le musi­ca­le. Non si limi­ta infat­ti a scri­ve­re testi in manie­ra corag­gio­sa e per­so­na­lis­si­ma ma dà alla sua musi­ca un suo­no per­fet­ta­men­te coe­ren­te, rico­no­sci­bi­le, auto­si­gni­fi­can­te. È dav­ve­ro raro nel­la sce­na musi­ca­le ita­lia­na tro­va­re arti­sti che abbia­no un con­trol­lo così cri­stal­li­no del pro­prio uni­ver­so tim­bri­co, fac­cio qual­che nome casua­le: quel­lo dei Bau­stel­le è diven­ta­to ormai un fetic­cio che sa di moquet­te spor­ca; Vasco Bron­di non è mai riu­sci­to a tro­var­lo, appog­gian­do­si, dopo il pri­mo album, su un’i­den­ti­tà sono­ra sem­pre più gene­ri­ca e ano­ni­ma; per fare un altro nome, Ioso­noun­ca­ne, sta costruen­do il suo suo­no album dopo album, ma col rischio di veni­re inghiot­ti­to dal suo stes­so gigan­ti­smo elet­troa­cu­sti­co.

Nel­la musi­ca di Lasz­lo De Simo­ne tut­to è estre­ma­men­te misu­ra­to, dan­do l’i­dea di entra­re in sala di regi­stra­zio­ne con un’idea sono­ra quan­to mai pre­ci­sa, che trae for­za dal­l’es­se­re in un rap­por­to di per­fet­ta sim­bio­si con la sua scrit­tu­ra: armo­ni­ca, sem­pli­ci giri di accor­di che ci ripor­ta­no imme­dia­ta­men­te ad arran­gia­men­ti pop del secon­do dopo­guer­ra; e poe­ti­ca, i tron­ca­men­ti del­le voca­li fina­li, le rime bacia­te e quel voca­bo­la­rio obso­le­to, fan­no rife­ri­men­to ad un uni­ver­so poe­ti­co tan­to pre­ci­so quan­to com­ple­ta­men­te anti-rea­li­sti­co. Il suo è uno stra­no e osti­na­to col­lo­car­si fuo­ri dal tem­po pre­sen­te per tro­va­re con que­st’ul­ti­mo un dia­lo­go auten­ti­co. Una tale posi­zio­ne arti­sti­ca potreb­be appa­ri­re rea­zio­na­ria, manie­ri­sti­ca, ma appro­fon­den­do l’a­scol­to di Una lun­ghis­si­ma ombra, trac­cia dopo trac­cia si rive­la come sia pro­prio que­sta ricer­ca di una musi­ca­li­tà altra che gli per­met­te di costrui­re quel par­ti­co­la­re sguar­do poe­ti­co sul­la real­tà.

Tor­nia­mo al pri­mo neris­si­mo LP che ha comin­cia­to a vor­ti­ca­re sul mio gira­di­schi. Con l’in­tro­du­zio­ne ambien­ta­le del Buio entria­mo in una fan­fa­ra, rumo­ri sospe­si tra una festa e una sce­na di guer­ri­glia, che si scio­glie pre­sto in un tap­pe­to di dro­ni e cori. In Ricor­do Tat­ti­le com­pa­re un orga­no sot­ti­le che tes­se un giro armo­ni­co, arric­chi­to dal­l’in­ter­ven­to degli archi, qual­che bat­tu­ta dopo entra la bat­te­ria e un arpeg­gio di pia­no­for­te in sei otta­vi. La voce distor­ta ripe­te “Spre­mo­no la tua car­ne a fon­do”, è il suo cor­po-son­da, che tor­ne­rà per tut­to il disco come stru­men­to sacri­fi­ca­le di con­fron­to con la real­tà, impre­gna­to di ricor­di diven­ta il covo di una nostal­gia stra­nian­te: “Qua­si all’im­bru­ni­re / Fil­tra­no i ricor­di / Come fio­ri incol­ti / Fra le tue rovi­ne”. Il pae­sag­gio astrat­to di Neon è accom­pa­gna­to da dro­ni immer­si in un velo di neb­bia sin­te­ti­ca e distor­ta. Le can­zo­ni emer­go­no dal caos infor­me dise­gnan­do deli­ca­ti con­trap­pun­ti di flau­ti e pia­no­for­te, come nel­la suc­ces­si­va La Not­te che, dopo un’in­tro­du­zio­ne stru­men­ta­le som­mes­sa, si tra­sfor­ma in un moti­vet­to di cori e fischi dal sapo­re bal­nea­re. “E ora scon­vol­to dal dolo­re / Abban­do­na­to nel­la mia sven­tu­ra / Se c’è qual­cu­no che non ha pau­ra / Io pre­go mi soc­cor­ra”. Un ven­to sin­te­ti­co lascia spa­zio alla chi­tar­ra di Col­pe­vo­le, tra le melo­die degli archi e il testo mini­ma­le che si ripe­te nel­l’in­ca­stro rit­mi­co di due paro­le: “sono col­pe­vo­le”.
Giro sul lato oppo­sto il vini­le, siste­mo la pun­ti­na e mi acco­glie un respi­ro affan­na­to. L’in­gres­so di un man­do­li­no apre la stra­da agli archi e agli arpeg­gi di Quan­do, uno dei testi più bel­li: “È col­pa del respi­ro, fra­gi­le come me / Se sof­fro tan­to, ma sono vivo / È col­pa del­la boc­ca, stu­pi­da come me / E del tuo cor­po che la toc­ca”. La novi­tà più feli­ce del disco da un pun­to di vista stru­men­ta­le è la rit­mi­ca, mute­vo­le, pri­ma acu­sti­ca poi sin­te­ti­ca, impre­zio­si­ta da trian­go­li e cabáse che si rin­cor­ro­no nel­l’o­sti­na­to ter­zi­na­to degli arran­gia­men­ti. Un tap­pe­to esta­ti­co e mini­ma­li­sta di arpeg­gi di pia­no, cori e sin­te­tiz­za­to­ri ci accom­pa­gna ver­so il pros­si­mo pez­zo: Aspet­te­rò. Intro­dot­to da un tem­po­ra­le, il suo­no del­lo scac­cia­pen­sie­ri e la melo­dia fischia­ta sem­bra­no por­tar­ci in ter­ri­to­ri western, poi la sezio­ne rit­mi­ca accen­de nuo­va­men­te il juke­box del­la can­zo­net­ta san­re­me­se, fino a un ritor­nel­lo che mesco­la il nichi­li­smo a una stra­na e sini­stra alle­gria: “Sapen­do che non sono nien­te e nien­te avrò / Per­ché di nien­te è fat­to tut­to, ed io lo so”. Come nei gran­di capo­la­vo­ri del pop, l’in­cu­bo è imper­la­to di una melo­dia lumi­no­sa. La voce di una bam­bi­na che can­tic­chia ci por­ta a Per te, un arpeg­gio di chi­tar­ra con vibra­to, fischiet­ta­men­ti e per­cus­sio­ni sba­raz­zi­ne che rac­con­ta­no l’as­so­lu­to del­la geni­to­ria­li­tà.

Tol­go il disco che ral­len­ta e met­to sul piat­to il secon­do. Un con­to alla rove­scia, la fine del­l’an­no o l’i­ni­zio del mon­do. È Un momen­to miglio­re , tra le vet­te del­l’al­bum: “Ho per­so il cuo­re ed un ami­co vero / Ho per­so tut­ti e non ho più nes­su­no / Ho dato amo­re, ma non son sta­to sin­ce­ro / Ed ho men­ti­to sen­za rimor­so alcu­no”. Una con­fes­sio­ne del­la smi­su­ra­ta sof­fe­ren­za del vive­re comu­ne, del tem­po che tra­spor­ta l’e­si­sten­za attra­ver­so le età, la per­di­ta di sé e degli affet­ti che, inve­ce di implo­de­re, vie­ne tra­sfi­gu­ra­ta in un inno di spe­ran­za: “Nes­su­no, nes­su­no / Ha mai avu­to un momen­to miglio­re / Mai”. Anco­ra la sta­si di una regi­stra­zio­ne ambien­ta­le, Dif­fra­zio­ne. Un ambi­guo arpeg­gio di chi­tar­ra intro­du­ce Pie­na­men­te, ritor­na l’op­pri­men­te sen­so di vacui­tà del­l’e­si­ste­re nel­la sua tau­to­lo­gia irri­sol­ta (“chi vive, mori­rà”), poi sfu­ma su un rapi­do e deli­ca­to arpeg­gio di sin­te­tiz­za­to­re. In que­sta eter­na lot­ta tra il buio e la luce, in Pla­nan­do sui rag­gi del sole, la secon­da diven­ta pro­ta­go­ni­sta, nel­la spe­ran­za di un volo che supe­ri l’il­lu­sio­ne: “Guar­da­ci, volia­mo come ange­li / Pla­nan­do sui rag­gi del sole”. Un rit­mo mar­zia­le rac­co­glie l’e­si­le slan­cio del ritor­nel­lo e lo tra­sci­na fino a distrug­ger­si sugli sco­gli di un bas­so sin­te­ti­co, un sax e una bat­te­ria swin­ga­ta si rac­col­go­no su quel­la piat­ta­for­ma sono­ra, ed è come fos­si­mo entra­ti improv­vi­sa­men­te nel fumo­so jazz club del para­di­so. Sen­tia­mo il bat­ti­ma­ni e il pub­bli­co inco­rag­gia­re i musi­ci­sti, sono momen­ti di musi­ca esta­ti­ca, altis­si­ma, che sfu­ma lascian­do­ci appe­si a una nostal­gia appic­ci­co­sa e al ven­to fred­do che riem­pie Spi­ra­gli insie­me ai sem­pi­ter­ni arran­gia­men­ti d’ar­chi. Le paro­le, già cen­tel­li­na­te, da qui in poi comin­ce­ran­no a stin­ge­re fino a spa­ri­re, i testi diven­ta­no sfi­bra­ti e sem­pre più con­ci­si.

Giro il vini­le sul­l’ul­ti­ma fac­cia­ta. Quel­lo che ero una vol­ta è una pre­ghie­ra lai­ca su per­cus­sio­ni sin­te­ti­che e sin­te­tiz­za­to­ri pul­san­ti: “La debo­lez­za è una col­pa / Che ten­do a giu­sti­fi­ca­re / Una que­stio­ne irri­sol­ta / Che mi costrin­ge a sba­glia­re / E non c’è cosa peg­gio­re”. L’or­ga­no fle­bi­le di Rifra­zio­ne intro­du­ce le ulti­me due trac­ce del­l’al­bum, in cui il mira­co­lo d’e­qui­li­bri­smo tra distru­zio­ne e accet­ta­zio­ne di sé sem­bra com­pier­si. Non è rea­le arri­va come fos­se un sin­go­lo radio­fo­ni­co, ma spez­za a metà qua­lun­que spe­ran­za di vita. In un’o­pe­ra­zio­ne chi­rur­gi­ca spi­ri­tua­le, estrae il suo nucleo oscu­ro di sogno tra una rit­mi­ca post-punk e le pul­sa­zio­ni dei sin­te­tiz­za­to­ri sem­pre più pre­sen­ti, men­tre De Simo­ne ripe­te come in un man­tra “Non è rea­le”. Un’eco rim­bal­za fino a spa­ri­re nel­la distor­sio­ne intro­du­cen­do l’o­mo­ni­ma Una lun­ghis­si­ma ombra, l’ul­ti­ma can­zo­ne del­l’al­bum, un mini­mo qua­dret­to folk, la mar­cet­ta fune­bre che segna la fine di que­sto viag­gio e di ogni viag­gio. 

Quan­do la pun­ti­na si fer­ma rima­ne l’im­pres­sio­ne che diven­ta­re gran­de – un uomo, un padre, un arti­sta – sia ciò che più spa­ven­ta e, allo stes­so tem­po, affa­sci­na Andrea Lasz­lo De Simo­ne. Così, Una lun­ghis­si­ma ombra sem­bra usa­re il tram­po­li­no del dolo­re pri­va­to per pene­tra­re nel midol­lo del mon­do, lo fa con la sua musi­ca ele­gia­ca, raf­fi­na­ta e inge­nua allo stes­so tem­po, sem­pre corag­gio­sa e inco­scien­te, sem­pre vera. Quel­l’om­bra ine­sau­sta che rima­ne nel­le nostre orec­chie, ascol­to dopo ascol­to, pren­de la for­ma di una doman­da che inter­ro­ga diret­ta­men­te il mon­do e la nostra sto­ria: non sarà pro­prio que­sto pri­va­to irri­sol­to, in costan­te con­flit­to con il sé, con il dolo­re del­l’e­si­ste­re e la pro­spet­ti­va di una mor­te cer­ta, non sarà pro­prio quel pri­va­to com­pas­sio­ne­vo­le, un pun­to di vista pri­vi­le­gia­to sul­l’o­dier­no? Un pri­va­to che si fa gru­mo asso­lu­to di uma­ni­tà, attra­ver­so il suo­no, un pun­to d’in­con­tro, ina­lie­na­bi­le e uni­ver­sa­le, come un’om­bra che ci avvol­ge, ci inquie­ta e ci ras­se­re­na. 

Foto­gra­fia di Gior­gia Bel­lot­ti

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