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Novembre
13 Novembre 2025

INTER­VI­STA A SAN­DRO VERO­NE­SI

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26 min

Il peri­co­lo di oggi è nel­l’en­tro­pia
non abbia­mo più un’i­dea di futu­ro

Per chi ama leg­ge­re, quan­do il pre­sen­te è com­ples­so e il futu­ro inde­ci­fra­bi­le, è comu­ne cer­ca­re rifu­gio nei libri e nei gran­di nar­ra­to­ri. E San­dro Vero­ne­si, due vol­te Pre­mio Stre­ga, pri­ma con Caos Cal­mo (2005) e poi con Il Coli­brì (2019), da mol­ti rico­no­sciu­to come il più gran­de roman­zie­re ita­lia­no viven­te, per me è sem­pre sta­to il più impor­tan­te dei mae­stri fin dai tem­pi in cui inse­gna­va alla Scuo­la Hol­den e io ero un suo allie­vo. L’intervista nasce da que­sta mia neces­si­tà di tro­va­re un por­to sicu­ro. 

Vor­rei par­ti­re da un bra­no di Caos Cal­mo (2005) in cui il pro­ta­go­ni­sta e la figlia gio­ca­no a “Pur­trop­po” in mac­chi­na. Quan­do il navi­ga­to­re dice: «Svol­ta a destra ORA!», il pro­ta­go­ni­sta rispon­de: «Pur­trop­po non mi va» e gira a sini­stra e il pro­gram­ma è costret­to a rical­co­la­re il per­cor­so men­tre la bam­bi­na ride. 
Rilet­to ora che l’intelligenza arti­fi­cia­le sem­bra limi­ta­re le nostre scel­te e ali­men­ta­re la nostra pigri­zia, può esse­re un moni­to per ricor­da­re alla figlia che è anco­ra pos­si­bi­le fare di testa pro­pria?

Sì, l’idea era quel­la, anche se il mec­ca­ni­smo è diver­ten­te di per sé con il navi­ga­to­re che vie­ne sbu­giar­da­to, rical­co­la e poi ina­scol­ta­to di nuo­vo; fa ride­re quell’ottusa pazien­za digi­ta­le che noi non avrem­mo, per­ché noi man­de­rem­mo al dia­vo­lo uno che siste­ma­ti­ca­men­te fa l’opposto del­le nostre indi­ca­zio­ni. 

Hai det­to bene: la nostra pigri­zia sta facen­do dell’intelligenza arti­fi­cia­le un fetic­cio. Ed è la pigri­zia di non voler scri­ve­re di tuo pugno una let­te­ra di invi­to o di rifiu­to o, peg­gio, la sinos­si di un libro o una recen­sio­ne. Insom­ma, se vie­ni paga­to per recen­si­re libri — o anche no, maga­ri hai aper­to un blog — per qua­le ragio­ne dovre­sti far­la fare a un algo­rit­mo? Allo­ra non hai dav­ve­ro voglia di espri­me­re il tuo pun­to di vista. Io non cre­do che l’intelligenza arti­fi­cia­le stia facen­do nul­la da sola per assog­get­tar­ci. Sia­mo noi che ci stia­mo assog­get­tan­do, non par­lia­mo d’altro. È diven­ta­ta una spe­cie di optio­nal che met­to­no pure nel­la piz­za e se c’è l’intelligenza arti­fi­cia­le quel­la piz­za costa un euro di più. È un iste­ri­smo che diven­ta peri­co­lo­so per­ché è chia­ro che quel­la è roba che più pren­de pie­de e più potreb­be ten­de­re a sop­pian­ta­re l’attività uma­na. C’è pro­prio biso­gno di tut­ta que­sta intel­li­gen­za arti­fi­cia­le? A me sem­bra che la gen­te che usa l’intelligenza arti­fi­cia­le fati­chi a ren­der­si con­to di che cosa sia. Anche chi l’ha inven­ta­ta. C’è, infat­ti, la rac­co­man­da­zio­ne di usar­la poco da par­te di chi te la ven­de. A me sem­bra fran­ca­men­te una fol­lia que­sta foga. È un peri­co­lo che ovvia­men­te denun­cia­no in mol­ti, semi­na il ter­ro­re sul web, però poi si con­ti­nua a vene­rar­la. 

Per scri­ve­re, per dise­gna­re o per gira­re sce­ne di film io fran­ca­men­te non ne vedo il biso­gno. Fac­cia­mo degli spa­zi nei qua­li non è neces­sa­ria e quin­di non si usa. In una casa edi­tri­ce non dovreb­be esse­re accet­ta­ta la pos­si­bi­li­tà che un redat­to­re uti­liz­zi l’in­tel­li­gen­za arti­fi­cia­le per fare la sche­da di un libro, solo per­ché ti fa rispar­mia­re tem­po. Ma poi quan­to tem­po? Cin­que minu­ti? E cosa dovre­sti fare con quei cin­que minu­ti rispar­mia­ti? È il tuo lavo­ro: che c’è di più impor­tan­te? È il tuo inte­res­se, e tu quel­la cosa la fai fare a una mac­chi­na.

Tiria­mo una riga e dicia­mo: c’è dav­ve­ro biso­gno del­l’in­tel­li­gen­za arti­fi­cia­le per scri­ve­re, per esem­pio, una let­te­ra di con­do­glian­ze? Ciò che deve espri­me­re pen­sie­ro o sen­ti­men­to non può pas­sa­re attra­ver­so un algo­rit­mo. È ovvio, per­ché l’algoritmo rap­pre­sen­ta un’entità che non pro­va né sen­ti­men­to né pen­sie­ro, cioè non ela­bo­ra, è gene­ra­ti­va per­ché com­bi­na insie­me le cose, ma non è gene­ra­ti­va per­ché si inven­ta un caval­lo a pois. Poi, sic­co­me in pan­cia avrà anche Pip­pi Cal­ze­lun­ghe, ti tire­rà fuo­ri un caval­lo a pois, e tan­ta gen­te pen­se­rà che è ori­gi­na­le. Con un po’ di atten­zio­ne, potrem­mo tener­la entro i limi­ti che ci fan­no como­do e non dire ‘ades­so domi­ne­rà il mon­do’. Domi­ne­rà il mon­do per­ché ti fai scri­ve­re la lista del­la spe­sa da ChatGPT. Que­sta rinun­cia a fare cose da sé è fol­le. Se alme­no fos­se un mon­do di per­so­ne che van­no a pesca­re men­tre l’intelligenza arti­fi­cia­le sgob­ba per loro, ma inve­ce no, stan­no lì a caz­zeg­gia­re su Tik­Tok e que­sto, non c’è biso­gno che lo dica io, è una cosa che si auto­de­nun­cia: vuol dire fine del­la civil­tà. Se noi rinun­cia­mo alle par­ti suc­co­se del nostro dove­re sul­la ter­ra, le fac­cia­mo fare a una mac­chi­na per sta­re die­tro alle stron­za­te, è chia­ro che è fini­ta.

Nel tuo ulti­mo roman­zo Set­tem­bre Nero (2024), il ragaz­zi­no pro­ta­go­ni­sta ha dav­ve­ro pochi sti­mo­li negli anni ’70 — la rivi­sta Linus, i pri­mi dischi, lo sport in tele­vi­sio­ne — ma ne rica­va enor­mi spin­te for­ma­ti­ve. Una vol­ta ero a par­la­re in un liceo e duran­te la discus­sio­ne una ragaz­za para­go­na la sua gene­ra­zio­ne a un clien­te che andan­do al risto­ran­te rice­ve un menù gran­de come un’enciclopedia, con un elen­co infi­ni­to di scel­te, e alla fine non ordi­na nien­te per­ché sovra­sta­to dal­le pos­si­bi­li­tà. 

Il peri­co­lo che dice que­sta ragaz­za si chia­ma entro­pia. Quan­do io ero all’università di Archi­tet­tu­ra, qua­ran­t’an­ni fa, già si par­la­va del peri­co­lo entro­pi­co. Ci met­te­va­no in guar­dia nei con­fron­ti dell’entropia e tut­to ciò che ave­va una cari­ca entro­pi­ca lo dove­va­mo scan­sa­re, evi­ta­re o trat­ta­re coi guan­ti. Ades­so sia­mo in pie­na entro­pia nel suo signi­fi­ca­to di mor­te ter­mi­ca, di fine del­le dif­fe­ren­ze, del­la fine di un siste­ma. E il peri­co­lo è che la gen­te non lo sap­pia. È come nel­la sto­riel­la che rac­con­ta­va David Foster Wal­la­ce, quel­la con il pesce vec­chio che dice ai pesci gio­va­ni: “Com’è l’acqua oggi?”. E loro: “Che caz­zo è l’acqua?”. Que­sta ragaz­za se n’è accor­ta. Era­va­mo sta­ti mes­si in guar­dia, quin­di sia­mo anco­ra più col­pe­vo­li di ave­re crea­to un siste­ma tale e  per non aver volu­to deter­mi­na­re noi le nostre scel­te. Il web è il luo­go del­l’en­tro­pia per eccel­len­za, è uno sta­gno dove la scar­pa mar­cia che io ci ho but­ta­to vent’anni fa sta sem­pre là, non spa­ri­rà mai e si con­fon­de con le altre, diven­ta un’opzione. Alme­no ce ne ren­des­si­mo con­to, pro­vas­si­mo a met­te­re in cam­po una serie di pre­cau­zio­ni, altri­men­ti sarà come dice quel­la ragaz­za lì: a un cer­to pun­to tut­to si equi­va­le e io che fac­cio? Io non fac­cio nien­te.

Il rac­con­to di Wal­la­ce mi fa veni­re in men­te un’altra meta­fo­ra, che hai uti­liz­za­to anche tu nel­lo scor­so Salo­ne del Libro pre­sen­tan­do Il gior­no dell’ape (2025) di Paul Mur­ray, ovve­ro quel­la del­la rana den­tro un pen­to­lo­ne sul fuo­co che non si ren­de con­to che l’acqua sta per bol­li­re se non quan­do è ormai trop­po tar­di. Secon­do te, a che pun­to è la cot­tu­ra?  

Il pro­ble­ma è che fino a che non sei cot­to, non ti sen­ti nem­me­no in peri­co­lo, per­ché l’acqua alla fine pro­teg­ge, riscal­da, sem­bra qua­si di sta­re meglio, per­ché pri­ma face­va fred­do e ades­so non fa più fred­do, per­ché pri­ma il mon­do pesa­va e ades­so gal­leg­gi e non pesa più. Noi dob­bia­mo cre­de­re al nostro pen­sie­ro, per­ché se cre­dia­mo solo ai nostri sen­si il riscal­da­men­to glo­ba­le può esse­re anche un bene per­ché c’è più cal­di­no, basta scan­sa­re i luo­ghi tor­ri­di o sfo­gar­si con l’aria con­di­zio­na­ta. Non è che la gen­te sta peg­gio, è il siste­ma che sta peg­gio e che tra­su­da sin­to­mi, uno dei qua­li è il riscal­da­men­to glo­ba­le. Ma se noi sia­mo la cau­sa, è chia­ro che quan­do sen­ti­re­mo l’impulso di fug­gi­re sarà trop­po tar­di. Non ti so dire a che pun­to stia­mo ma biso­gna con­ce­pi­re un model­lo diver­so; e nel mon­do stan­no facen­do usci­re fuo­ri tut­to tran­ne que­sto. Stan­no pen­san­do a tut­to quel­lo che riem­pie i tito­li dei tele­gior­na­li, ma non stan­no pen­san­do a cam­bia­re il siste­ma. Il siste­ma ades­so è un pen­to­lo­ne sopra il fuo­co con dell’acqua e noi sia­mo la rana den­tro. È un note­vo­le pas­so indie­tro rispet­to a quel­lo che abbia­mo imma­gi­na­to e sogna­to cinquant’anni fa, ed è anche un pas­so indie­tro rispet­to a quel­lo che era­va­mo arri­va­ti a esse­re alla fine del seco­lo scor­so. Se gli Sta­ti Uni­ti d’A­me­ri­ca sono diven­ta­ti in poco tem­po un luo­go dove io non met­te­rei pie­de, man­co se mi paga­no, può dar­si che la rana ci met­ta poco per arri­va­re a cot­tu­ra; la dire­zio­ne è quel­la, stia­mo per­den­do una serie di con­qui­ste occi­den­ta­li. Se non ci sem­bra gra­ve, è inu­ti­le pre­ve­de­re quan­do sarà trop­po cal­da l’acqua. Per me lo è già ades­so, ma non vedo nes­su­no che stia facen­do qual­co­sa di con­cre­to, anche solo dir­lo, a pre­scin­de­re dal­le noti­zie del gior­no, per­ché si par­la solo di quel­le. Non si par­la del­la neces­si­tà di un cam­bia­men­to del siste­ma al qua­le chia­ma­re a con­tri­bui­re le gio­va­ni gene­ra­zio­ni. Ed è una col­pa ter­ri­bi­le per­ché chi ades­so sta bal­lan­do sul pon­te del­la nave che affon­da, non sta deci­den­do solo per sé, ma anche per le gene­ra­zio­ni che ver­ran­no. Allo­ra è inu­ti­le che mi venia­te a dire che qual­cu­no è un bra­vo padre se trat­ta bene i suoi due figli e poi con­tri­bui­sce a deser­ti­fi­ca­re, a sovrap­po­po­la­re, a toglie­re dirit­ti, pro­spe­ri­tà o distri­bu­zio­ne del­la ric­chez­za a tut­ti i milio­ni, i miliar­di di ragaz­zi e ragaz­ze come i suoi figli, come tut­ti i figli che ci sono al mon­do. E con­tri­bui­sce al soli­di­fi­car­si di que­sta situa­zio­ne entro­pi­ca al pun­to da far sen­ti­re una ragaz­za inca­pa­ce di allun­ga­re una mano e pren­de­re un libro e leg­ger­lo per­ché sono trop­pi e per­ché pren­de­re una deci­sio­ne all’interno di un siste­ma così aper­to diven­ta dif­fi­ci­le.

Tu, che sei sem­pre sta­to un nar­ra­to­re del tuo pre­sen­te, con Set­tem­bre Nero hai guar­da­to al pas­sa­to. Cosa sei riu­sci­to a capi­re del pre­sen­te?

Io sono anda­to nel pas­sa­to a cer­ca­re futu­ro. È il futu­ro quel­lo che mi man­ca ades­so e che man­ca non a me per­so­nal­men­te, ma nell’aria che respi­ro, nel­le cose che leg­go, in quel­lo che vedo suc­ce­de­re nel mon­do. Non se ne par­la più, non esi­sto­no più gli stru­men­ti. Ti fac­cio un esem­pio: l’urbanistica, che deter­mi­na del­le pro­spet­ti­ve, che neces­si­ta di un’idea di futu­ro, non c’è più. A Mila­no c’è un’indagine in cor­so e, anche se non sem­bra sia­no sta­ti com­mes­si dei rea­ti, il vero rea­to è che non c’è più l’urbanistica. E, allo­ra, tu puoi far cre­sce­re un grat­ta­cie­lo dove caz­zo ti pare. E però quel­lo non è costrui­re una capan­na, quel­lo con­di­zio­na il futu­ro. Hai deci­so pri­ma che dove­va esse­re con­di­zio­na­to in quel­la dire­zio­ne? Puoi pure sba­glia­re, ma alme­no l’hai fat­to con una visio­ne? No. È solo un’occasione che hai volu­to coglie­re. Quel­lo che non sop­por­to di que­sto tem­po è il pre­sen­te in fun­zio­ne dell’assenza di futu­ro, la gen­te non pen­sa di esse­re pas­seg­ge­ra, tran­si­tan­te, par­te di un ciclo che ha un gran­de pas­sa­to, e dovreb­be ave­re un altret­tan­to gran­de futu­ro. Abbia­mo tol­to di mez­zo l’idea del futu­ro. E a me que­sto, fran­ca­men­te, non pia­ce rac­con­tar­lo. Già non mi pia­ce viver­lo e dover­lo vive­re. Se mi met­to a tavo­li­no a scri­ve­re, con tut­to l’im­pe­gno che mi ci vuo­le, io non voglio rinun­cia­re al futu­ro, anche quan­do scri­vo, e quin­di per la pri­ma vol­ta sono anda­to nel pas­sa­to per­ché là il futu­ro c’era. Poi che nel pas­sa­to ci fos­se un futu­ro idea­le che non si è avve­ra­to non ha nes­su­na impor­tan­za. È che lo svi­lup­po del pen­sie­ro c’è quan­do c’è un ingom­bro die­tro, un’urgenza nel pre­sen­te e anche, però, un ingom­bro davan­ti con il qua­le devi fare i con­ti. Non vede­re il futu­ro e pen­sa­re sol­tan­to a que­sta stri­scia di tem­po che è l’oggi, nel qua­le fai fati­ca anche sol­tan­to a con­ta­re i mor­ti, per­ché è ovvio che se ridu­ci il tuo pen­sie­ro a otti­miz­za­re il pre­sen­te, tu non fai nean­che pri­gio­nie­ri, fai diret­ta­men­te mor­ti. Il futu­ro non è con­tem­pla­to. Non è con­tem­pla­to il futu­ro nell’idea di patria che ha il gover­no israe­lia­no che, pen­san­do di aver­ne il dirit­to per via dell’ingombro del pro­prio pas­sa­to, vuo­le sba­raz­zar­si di tut­ti i pale­sti­ne­si che ci sono lì. Ora, a un orro­re del gene­re, pro­va a pog­giar­ci un’idea di futu­ro che non sia mili­ta­riz­za­to. Se ucci­di o depor­ti due milio­ni e mez­zo di per­so­ne e poi a Gaza ci fai i resort con i sur­fi­sti come la gesti­sci? Per­ché basta uno che si fa sal­ta­re in aria per ren­de­re un infer­no quel­la vita che vole­vi final­men­te tran­quil­la. E non ci vuo­le tan­to a far­si sal­ta­re in aria.

Che tipo di ere­di­tà — mi ver­reb­be da dire che tipo di patri­mo­nio, pen­san­do a Phi­lip Roth per il qua­le era rap­pre­sen­ta­to dal­la mer­da da puli­re del padre mala­to — stia­mo lascian­do alle nuo­ve gene­ra­zio­ni?

Non lo so. Quel­lo che io cer­co di fare con i miei figli è di vigi­la­re e assi­ster­li affin­ché pos­sa­no diven­ta­re se stes­si in manie­ra auto­no­ma. Non voglio lasciar­gli trop­po. Pri­mo, per­ché non ho mol­to da lasciar­gli, in tut­ti i sen­si: sono cin­que e quin­di tan­to da lascia­re, divi­so per cin­que, non ce l’ho. Secon­do, per­ché devo­no com­ple­tar­si da soli. Fac­cio un lavo­ro per cui lascio anche trop­po, lascio i miei libri, poi ne faran­no quel­lo che voglio­no, maga­ri ci pareg­ge­ran­no le gam­be a un tavo­li­no. Ma non cer­co l’illusione che la mia vita si pro­lun­ghe­rà anche dopo la mor­te per­ché ho incul­ca­to qual­co­sa nei miei figli. Il pro­ble­ma è che i figli, nel loro esse­re figli, sono pie­ni di futu­ro. Maga­ri con­fu­so e peri­co­lo­so, ma nes­su­no si tira indie­tro dai pro­pri vent’anni per­ché ne ha altri ses­san­ta da cam­pa­re. I padri e le madri inve­ce non sono pie­ni di futu­ro, sono pie­ni di pas­sa­to o di pre­sen­te, ma il futu­ro, anche quan­do c’era, anche quan­do cir­co­la­va nel­la socie­tà, non li riguar­da più se non attra­ver­so i figli. Quel tipo di geni­to­re che si sen­te di fare il bene dei figli incul­can­do ciò che vor­reb­be loro faces­se­ro quan­do non ci sarà più — ed è un tipo di geni­to­re mol­to fre­quen­te — fa la for­tu­na dei roman­zie­ri. Puoi solo cer­ca­re di met­ter­li in sicu­rez­za in quel­lo che loro deci­do­no di fare. Non par­lo di mes­sa in sicu­rez­za eco­no­mi­ca, non c’è biso­gno di sol­di per dia­lo­ga­re con i pro­pri figli e cer­ca­re di far­gli capi­re che l’intelligenza arti­fi­cia­le sul tele­fo­ni­no, al livel­lo al qua­le si tro­va­no loro, è più una per­di­ta che un gua­da­gno. Que­sta è una mes­sa in sicu­rez­za del­la loro crea­ti­vi­tà, del­la loro voglia di espri­mer­si sin­go­lar­men­te e in manie­ra ori­gi­na­le. Non può far­lo la scuo­la, per­ché lo fa pas­sa­re per un dove­re. Tu hai la pos­si­bi­li­tà di met­te­re in aller­ta i tuoi figlio­li pro­prio per quel futu­ro che loro andran­no a costrui­re e a vive­re e che non ti riguar­da. Noi assi­stia­mo alla fami­glia come zona di guer­ra così ben rac­con­ta­ta da capo­la­vo­ri del­la let­te­ra­tu­ra solo per il rifiu­to di padri e madri di ricor­da­re di quan­do sono sta­ti figli. È mol­to più sem­pli­ce repli­ca­re il model­lo che li ave­va oppres­si quan­do era­no ragaz­zi. Que­sto cor­to­cir­cui­to gene­ra la gran­de let­te­ra­tu­ra, alme­no la gran­de let­te­ra­tu­ra bor­ghe­se che par­la di fami­glia. È anche la ragio­ne per cui io nel mio pic­co­lo par­lo di fami­glia.

Ho l’impressione che sia in atto una riva­lu­ta­zio­ne cri­ti­ca del­la let­te­ra­tu­ra fan­ta­scien­ti­fi­ca. Un pic­co­lo even­to rivo­lu­zio­na­rio è sta­to l’uscita di un Meri­dia­no (2025) dedi­ca­to a Phi­lip Dick, cura­to da Ema­nue­le Tre­vi. Un tri­bu­to non così scon­ta­to che tu hai salu­ta­to con una lun­ga recen­sio­ne sul Cor­rie­re del­la Sera dove par­la­vi del cor­to­me­trag­gio pre­mio Oscar I’m not a robot, in cui una ragaz­za è alle pre­se con un test CAPT­CHA, quel­le scher­ma­te in cui ti vie­ne chie­sto, per dimo­stra­re di non esse­re un robot, sem­pli­ce­men­te di indi­ca­re le foto con stri­sce pedo­na­li…

Cosa che a me non rie­sce mai. 

…e ti è mai venu­to il dub­bio, come nel fina­le di quel cor­to, che maga­ri non sei un uma­no?

C’è già un’umanizzazione dei bot che sta aven­do luo­go, fino a quan­do sapran­no distin­gue­re le stri­sce pedo­na­li. Sia­mo sicu­ri che vada bene? Sono gli stes­si che pro­du­co­no que­ste cose, ci dico­no “occhio: qua non sap­pia­mo nean­che noi come va a fini­re”. Ma con­ti­nuia­mo lo stes­so. Se io inve­sto tan­ti sol­di nell’intelligenza arti­fi­cia­le e que­sti sol­di mi pro­du­co­no subi­to altri sol­di, pri­ma anco­ra che io abbia capi­to bene cosa sto facen­do, è chia­ro che c’è qual­co­sa di sba­glia­to nel siste­ma, ed è esat­ta­men­te quel­lo che suc­ce­de quan­do ti bec­chi un can­cro: la ripro­du­zio­ne del­le cel­lu­le del tuo cor­po vie­ne rivo­lu­zio­na­ta da un nucleo di cel­lu­le che fan­no quel caz­zo che gli pare. E que­sti inva­so­ri non te li han­no ino­cu­la­ti, li hai pro­dot­ti tu. Solo che tu non hai uno stru­men­to per impe­dir­ti di pro­dur­re cel­lu­le tumo­ra­li, men­tre dovre­sti ave­re gli stru­men­ti per impe­dir­ti di pro­dur­re un’intelligenza arti­fi­cia­le che ser­ve ai caz­zo­ni per scri­ve­re le let­te­re, i cur­ri­cu­la e può esse­re uti­liz­za­ta per fare tut­ti i fake del mon­do. Tut­to ciò che pri­ma si dice­va “l’ho visto coi miei occhi”, ades­so non vale più. Ades­so se lo vedi coi tuoi occhi è pro­ba­bil­men­te fal­so.

In Coli­brì c’è una rifles­sio­ne pro­prio sul­lo scon­tro tra veri­tà e liber­tà. Un feno­me­no che in Occi­den­te ha por­ta­to Donald Trump ed Elon Musk, che tu una vol­ta hai para­go­na­to a Pen­guin e Joker in un’America ridot­ta a un’enorme Gotham City sen­za Bat­man. Sem­bria­mo fini­ti in un rac­con­to di David Foster Wal­la­ce o in un film di David Lynch. Tu sei un raf­fi­na­to stu­dio­so del­la cul­tu­ra ame­ri­ca­na, hai cura­to una rac­col­ta di roman­zi monu­men­ta­le, Ame­ri­ca­na, ripren­den­do il lavo­ro di Vit­to­ri­ni. C’era con­sa­pe­vo­lez­za in que­sti libri che l’America si sareb­be potu­ta ridur­re così?

Cer­to, c’era con­sa­pe­vo­lez­za di quel­lo che sta­va suc­ce­den­do, di que­sta avi­di­tà insul­sa con cui le per­so­ne a milio­ni si con­se­gna­no alle stron­za­te di Tik­Tok inge­ren­do tut­to quel­lo che quel­le stron­za­te por­ta­no e quin­di para­liz­zan­do­si. Stia­mo sem­pre par­lan­do di entro­pia. Se pren­di Infi­ni­te Jest (1996), quel libro è sta­to scrit­to pri­ma di inter­net o alme­no pri­ma dell’uso che c’è ades­so di inter­net. E, infat­ti, lui si deve inven­ta­re una spe­cie di inter­net par­lan­do di gen­te che met­te una video­cas­set­ta e non rie­sce a smet­te­re di guar­dar­la e muo­re per­ché non rie­sce nem­me­no a man­gia­re. Se non è un moni­to que­sto! Che potes­se­ro esi­ste­re Pen­guin e Joker lo sap­pia­mo da sessant’anni, è para­dos­sa­le che gli ame­ri­ca­ni si dica­no le cose e poi non si ascol­ti­no. Per­ché quel­la roba ha avu­to suc­ces­so, l’han­no vista tut­ti, l’han­no sen­ti­ta tut­ti; Infi­ni­te Jest è un libro che ha avu­to tan­tis­si­mi let­to­ri. Davan­ti alla sto­ria di gen­te che sta sedu­ta sui bina­ri e poi vie­ne fal­cia­ta sen­za accor­ger­se­ne non ti pas­sa per la men­te che for­se anche tu non stai veden­do arri­va­re il tre­no? E que­sti auto­ri dal suc­ces­so sono sta­ti acca­rez­za­ti, pre­mia­ti; que­sto vuol dire che il loro pen­sie­ro, le loro ope­re, si sono dif­fu­se. Per tut­to il ‘900, dopo Freud, ci sia­mo deli­zia­ti con una serie di roman­zi che non pre­fi­gu­ra­va­no peri­co­li per tut­ti, ma per ognu­no a modo suo. Si sono rac­con­ta­te cose soprat­tut­to nel­la sfe­ra ses­sua­le, lega­te all’in­di­vi­duo, ego­ri­fe­ri­te. David Foster Wal­la­ce ci par­la del­la socie­tà, ci par­la di un cor­po che è com­po­sto da tan­ti esse­ri che gene­ra­no mol­ti più pro­ble­mi stan­do insie­me di quel­li che gene­ra­no a se stes­si stan­do da soli. Wal­la­ce nel suo tem­po è sta­to uno dei pri­mi, ma poi ci sono sta­ti mol­ti altri che sono anda­ti in quel­la dire­zio­ne affron­tan­do il mon­do così come sta­va diven­tan­do, mol­to diver­so da com’era nel seco­lo scor­so. Ades­so il bari­cen­tro, spia­ce dir­lo, si è spo­sta­to trop­po ver­so, chia­mia­mo­la così, un’inter­ru­zio­ne bru­sca per­ché se a que­sta socie­tà tu togli improv­vi­sa­men­te qual­co­sa, non fun­zio­na più nien­te. È evi­den­te che que­sto è un perio­do di tran­si­zio­ne. Non c’è pos­si­bi­li­tà che que­sta roba duri. Io cre­do che si stia andan­do nel­la dire­zio­ne in cui improv­vi­sa­men­te quel­lo che oggi dia­mo per scon­ta­to non ci sarà più. E, quin­di, saran­no pre­mia­ti quel­li che ne avran­no fat­to a meno e saran­no in gra­do di sop­pe­ri­re, avran­no alter­na­ti­ve.

Foto­gra­fia di Gia­co­mo Bian­co

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