Davide Coltri è un operatore umanitario, che dal 2013 ha lavorato come Education Specialist in Siria, Iraq, Kenya, Tanzania, Nepal e Sierra Leone. Nel 2019 ha pubblicato la raccolta Dov’è casa mia, uno spaccato narrativo, scevro da ogni pietismo e paternalismo, dei contesti, delle difficoltà e delle persone incontrate negli anni di missione in giro per il mondo. Il principale pregio del libro è l’onestà con cui, nella sezione finale, sono mostrate le “suture”, per usare le parole dell’autore, ovvero “le tecniche adottate nella resa estetica dei fatti”. In questo modo, il lettore è messo al corrente di cosa è riportato fedelmente dall’esperienza e cosa invece è stato rielaborato. Come appassionato di letteratura e aspirante lavoratore del mondo della cooperazione allo sviluppo, ho intervistato Davide per fargli alcune domande sul suo lavoro e sui racconti che compongono la raccolta.
In cosa consiste il tuo lavoro nel settore umanitario come Education Specialist?
In pratica, mi occupo di elaborare e gestire programmi educativi in contesti di crisi. Inizialmente, si fa una stima di quali sono stati i danni subiti dal sistema educativo. In base a questa stima, cerco di scrivere una strategia che risponda ai bisogni educativi della popolazione. Dopodiché parte la ricerca dei donatori, a cui sottoponiamo un progetto in base alle risorse messe a disposizione. Mi devo poi occupare della parte tecnica, i manuali e le formazioni da sviluppare per far andare avanti il tutto. Ad esempio, se vogliamo realizzare un progetto di avviamento al lavoro in Siria per ragazzi fra i 15 e i 24 anni, potrebbero mancare i libri con cui insegnare ai ragazzi a, per esempio, riparare i telefoni: io devo premurarmi che il testo segua criteri pedagogici adeguati. Devo collaborare anche con i colleghi degli altri settori affinché le scuole siano un posto sicuro, gli insegnanti preparati a supportare i bambini anche a livello psicologico, le strutture sufficienti e adeguate a livello sanitario… Chiaramente il lavoro è molto meno lineare di come te l’ho presentato adesso, con vari progetti in fasi diverse che devono essere gestiti nello stesso momento.
Perché durante un’emergenza è importante occuparsi della scuola?
Le ragioni sono varie. Dato che alcune emergenze durano anni, se non inizi a occuparti della scuola perché aspetti che la crisi finisca, potresti non farlo mai. Il rischio è di perdere un’opportunità che poi è sempre più difficile recuperare in futuro e che va colta nel momento più appropriato, quando sei più predisposto e, banalmente, non hai vincoli come la cura dei tuoi figli. La scuola costituisce poi uno spazio sicuro in un contesto di crisi e disordine, senza il quale bambini e ragazzi diventano grandi troppo presto, rischiando di finire in situazioni di sfruttamento lavorativo, matrimoni precoci e altre strategie di adattamento controproducenti, come l’affiliazione a gang e bande armate. C’è anche un discorso di supporto alle famiglie, poiché la scuola fornisce uno spazio in cui i genitori possano fidarsi a lasciare i bambini, per avere il tempo di andare a procurarsi il necessario per arrivare a fine giornata o di occuparsi un po’ di sé stessi. Alla fine, sono tutte funzioni che la scuola assolve anche in contesti pacifici e che diventano cruciali per arginare le conseguenze a lungo e medio termine di un’emergenza in corso.
Passando al libro, vorrei partire da Cos’è importante per Anneke, in cui racconti di una tua collega che, in Sudan, viene molestata sul lavoro dal capomissione, con la complicità dei colleghi. Questo è un problema strutturale del settore umanitario?
Il settore umanitario, come tutti gli altri settori, sta vivendo l’aumento di sensibilità che sta facendo emergere un po’ ovunque casi di molestie sul lavoro, passati finora sottotraccia. Nel contesto del racconto, quando il capomissione palpeggia in bagno Anneke e la reazione dei colleghi consiste in un risolino di scherno, ciò con cui si scontra la protagonista è essenzialmente una diversa sensibilità. Nel Sudan in piena guerra civile lo stupro era diventata una vera e propria arma di guerra. Io sono stato lì nel 2016 e ricordo un dipendente sudanese di un’altra organizzazione quasi infastidito dalle persone vittime di violenza che attiravano l’attenzione sul tema. “Di cosa si lamentano? Siamo in guerra!”. Un’idea abbastanza agghiacciante di per sé, ancora di più se viene da un operatore umanitario. Ma questa cosa per lui non era tanto grave quanto invece lo era per me. Più in piccolo, Anneke subisce sulla sua pelle esattamente questo meccanismo. Questa cosa crea diversi dilemmi interiori in noi lavoratori umanitari, che con i nostri valori ci ritroviamo in contesti in cui questi non possono essere dati per scontati.
In questo racconto c’è, penso, un’ammissione di vulnerabilità anche da parte tua. In uno scambio tu scrivi ad Anneke: “sento una voce maledetta che mi fa vergognare ogni volta che penso a quello che farebbe bene a me, perché sono qui per aiutare gli altri”. Anneke, interiorizzando questo messaggio, rinuncia a fare i conti con la molestia che ha subito. In questi contesti, come si aiuta il collega? E come si gestisce questo senso di colpa?
In quel caso, personalmente non ebbi la prontezza di capire e il senso di colpa è forte in contesti in cui la violenza di genere è tollerata. Ti senti in colpa quando intorno a te stanno succedendo cose molto più gravi, stanno venendo bombardati villaggi interi, mentre tu sei stata ‘solo’ palpeggiata in ufficio. Lo scompenso è veramente grande e diventa difficile ribadire che anche questa cosa non è giusta. Il disastro fuori non dovrebbe diventare un motivo per buttare giù le molestie subite personalmente. Tuttavia superare questa lacerazione richiede una lucidità molto difficile da mantenere, perché o diventi cinico o ti fai travolgere. È un dilemma difficile da risolvere. Nel momento in cui scrivevo il libro era una delle cose che mi metteva più in difficoltà.
È una lacerazione che poi proietti anche quando torni a casa, sulle persone che ti raccontano problemi come uno stop che è diventato una rotonda. Mi sembra a volta di vivere fra due mondi che non possono combaciare, una cosa che però può anche far sorridere. Ad esempio, quando i miei colleghi siriani mi dicevano di stare attento ad andare in Polonia, dove ho lavorato con i profughi scappati dall’Ucraina all’inizio della guerra. La distanza può creare cortocircuiti divertenti, perché da un lato i mondi ti sembrano incompatibili, dall’altro i siriani che sono in guerra da tredici anni mi fanno le stesse raccomandazioni di mia madre ma da contesti molto differenti. Ti direi che ci sono delle cose comuni che emergono, altre su cui è più faticoso convergere.
In Solo Attentati racconti di uno scambio fra te e tre medici turchi che lavorano in Siria, riparati in casa tua subito dopo l’esplosione di una bomba. Quando i medici lasciano casa tua, dici “Qua la guerra non c’è, sono solo attentati” e uno di loro ti risponde “Continua pure a chiamarli solo attentati”. In questa conversazione si intuisce la lacerazione fra te e il contesto. In tutto questo, una signora se la prende con un venditore ambulante in strada, un prezioso segnale di normalità per te, ma una pericolosa illusione per lei. Come spieghi questa sfasatura fra te e la realtà intorno?
Nel racconto, la sfasatura è in realtà l’incapacità di capire che cosa è appropriato in una certa situazione. La normalità in un contesto di emergenza diventa problematica, soprattutto per lo spettatore esterno: uno non può essere un medico di guerra e farsi una partita di pallone, come i medici del racconto, o vivere in povertà assoluta e voler fare una festa. Ma quando allarghi il campo, ti rendi conto che allora dovremmo sempre essere fermi. Secondo questa prospettiva nei campi profughi non ci si dovrebbe sposare, le persone non dovrebbero fare figli o feste. Anche io prima di iniziare a lavorare ero convinto che la vita delle persone nei campi profughi fosse sospesa. Quando però sono andato nel campo profughi di Domiz (Ndr in Iraq), una delle prime cose che vidi fu un negozio di vestiti da sposa. Con il tempo ho realizzato che in questi contesti cercare di mantenere la normalità e di provare a divertirsi ha un valore intrinseco. Forse ne ero meno convinto quando ho scritto il libro e, se adesso riscrivessi il racconto, la signora al balcone, che è l’unico personaggio di fantasia, sarebbe contenta di vedere il venditore ambulante per strada anche se c’è appena stato un attentato: un piccolo gesto di resistenza che non cambia nulla, ma è comunque prezioso.
Nel racconto Baracche, ambientato nello slum di Kibera a Nairobi, il protagonista è Njeni, il padre di una ragazza diversamente abile che viene cacciata da scuola perché rimasta incinta a seguito di uno stupro. Di nuovo assistiamo a un ribaltamento di prospettiva: Njeni vorrebbe consolare l’operatrice umanitaria desolata dalla situazione, poi cede a un’altra famiglia il posto a scuola della figlia. Un cliché dell’aiuto allo sviluppo è che il beneficiario deve essere ed è attivo, un aspetto che però non sempre si avverte nella pratica, dove ci si può scontrare con comunità in perenne attesa dell’aiuto esterno e progetti che alimentano la dipendenza delle comunità dall’intervento umanitario. Qual è stata la tua esperienza in proposito?
Il gesto del racconto è stato rielaborato, ma Njeni è basato su una persona conosciuta a Kibera, dove stavo lavorando a un progetto di inclusione di ragazzi disabili a scuola. In Kenya, la disabilità si porta dietro ancora molto stigma sociale, e tendenzialmente i padri abbandonano le famiglie in questi casi. Lì, a Kibera, avevo invece incontrato un gruppo di padri con una grande forza d’animo rispetto alle aspettative che avevo io, a ciò che credevo di trovare fra persone che oltre a vivere in una baraccopoli dovevano anche occuparsi di figli con disabilità. Avevano una forza d’animo capace di gesti veramente incredibili. Njeni era stato abbandonato dalla moglie, e la sua positività non era ingenua ma consapevole dei problemi, un aspetto che mi ha fatto fare un passo indietro. Ho realizzato che in questi progetti come nella vita incontri persone, e fra queste può esserci chi lotta e non si lascia travolgere dalle circostanze e chi invece aspetta passivamente l’assistenza esterna. Il racconto vuole mostrare che non esistono beneficiari, esistono persone e il range quindi è vario tanto quanto lo è nella realtà di tutti i giorni.
Il tema delle ONG che invece di puntare sull’empowerment [Ndr. sull’acquisizione di consapevolezza del proprio potenziale] del beneficiario lo confinano a una posizione passiva io lo vedo in due termini. Da un lato sicuramente ci sono comunità in cui l’abitudine a ricevere aiuti soffoca l’iniziativa, o l’agency [Ndr. la capacità di agire in modo indipendente e autonomo] dei suoi membri. È anche vero che l’importanza di questo meccanismo, pur perverso, non va esagerata. Ho condotto progetti d’emergenza in Italia in contesti dove di norma lo spirito d’iniziativa c’è e dove ho comunque trovato molta passività, addirittura nel mio stesso comune. Non bisogna esagerare in nessuna delle due visioni, da un lato sicuramente c’è un problema di dipendenza dall’aiuto umanitario, dall’altro però non bisogna dare per scontato che tutte le comunità e tutti gli individui possiedano grande spirito d’iniziativa.
Su Ātman Journal è uscito un podcast sulla comunicazione utilizzata dalle organizzazioni umanitarie nelle campagne di fundraising. Ammesso e non concesso che da un lato si debbano toccare le corde che spingono le persone a donare, lo stile di comunicazione incide fortemente sulla percezione complessiva dei contesti narrati, una responsabilità di cui raramente queste campagne sembrano farsi carico. Prendendo come esempio il tuo libro, la letteratura può giocare un ruolo nella comunicazione delle ONG e del mondo della cooperazione allo sviluppo?
Temo che fra le due cose ci sia poca contaminazione, tuttavia sono d’accordo che nel fundraising siamo molto legati a immagini pietistiche e stereotipate, che raccontano il contesto a cui vengono destinati i fondi in modo molto superficiale. Allo stesso tempo però siamo in presenza di una crisi del fundraising, e le ONG scontano un po’ di ostilità nei loro confronti. Il pool di persone che si fanno smuovere in quei modi si sta restringendo ed è urgente secondo me trovare altre strategie. Ammiro molto i tentativi di iniziative come RadiAid, che cercano di valorizzare stili di comunicazione più innovativi. In generale, con il libro ho cercato di presentare le persone nella loro complessità e problematicità. Mi sembra che siamo fermi anche nella narrativa a rappresentazioni molto vecchie. I libri che parlano di assistenza umanitaria tendono a presentare solo disgraziati e poveretti che devono essere salvati e non persone a tutto tondo, come se la necessità di assistenza fosse il loro unico tratto distintivo. Quando nella realtà trovi poi persone diverse e i conti non tornano, questo è un problema secondo me. Se il rifugiato che trovo in Italia non corrisponde alla mia immagine della povera vittima indifesa, sono più vulnerabile a narrazioni per cui se non rientri in quei canoni, allora sei problematico, magari un criminale.
Parlando sempre di comunicazione, nella sezione finale del libro difendi la tua scelta di narrare in prima persona le storie di personaggi diversi da te per genere, età, religione o nazionalità. Scrivi: “ritengo illusoria la speranza di annullare la distanza fra individui concentrandosi solo sulle identità — per mezzo cioè di una letteratura identitaria, dove solo i membri di un certo gruppo sono autorizzati a scriverne. Tale approccio […] rischia di precludere la possibilità di una comunicazione autentica”. In che modo la comunicazione si fa invece più autentica se ti prendi la libertà di impersonare una donna curda in fuga dalla guerra o in un bambino siriano bombardato da Assad?
È giusto dare voce a chi finora è stato oppresso e non ha avuto possibilità di esprimersi, ma se le identità diventano compartimenti stagni rinunciamo a parlarci apertamente fra tutti. Partirei dal lato opposto, ossia che secondo me è inautentica una comunicazione basata esclusivamente sull’identità. Diventa una specie di neo-tribalismo in cui solo chi ha determinate caratteristiche può parlare del gruppo a cui appartiene, ma quel parlarne rimane il suo parlarne, non lo rende più autentico perché di quel gruppo ne fa parte, secondo me. Poi a me piace scrivere storie universali, che mi permettano di mettermi nei panni degli altri.
Un altro aspetto è l’affidabilità del criterio dell’identità. Quando sono andato in Iraq la prima volta ho dovuto fare la residenza e mi hanno chiesto la religione. Io sono ateo e sbattezzato. Ma quando stavo per dirgli “Non ce l’ho”, loro subito hanno detto “Christian, christian”. Ne ricavo che spesso la nostra identità è un concetto costruito a partire da elementi non scelti liberamente, ma ereditati, imposti e immutabili: il colore della pelle, la religione, la nazionalità, il sesso biologico… Se quindi iniziamo a scambiarci opinioni solamente sulla base di questa appartenenza e non su come ci sentiamo come individui, la comunicazione diventa inautentica perché è una comunicazione basata su identità costruite, che non rende giustizia alla fluidità della realtà. È ovvio che ognuno ha il suo background, ma non dovrebbe essere quello a determinarci.
Nel racconto Scoramenti però parli anche un po’ di te. È un pezzo molto poetico, che sembra descrivere un percorso spirituale fatto di “sfasature”, fughe, “scoramenti” e culminante nell’accettazione del limite. A quattro anni dalla pubblicazione del racconto come ti poni di fronte a questo percorso?
Guarda, me lo fai notare tu, ma secondo me hai colto il punto. Mi ci ritrovo tantissimo, mi risuona. Io credo che se una persona ha una curiosità del mondo, al di là del settore umanitario, e ha a che fare soprattutto con situazioni problematiche, questi sono dei passi inevitabili da fare. Magari serve dell’ingenuità, dell’entusiasmo e della curiosità iniziale, che ti portano poi all’accettazione del limite indispensabile per riguadagnare la capacità di andare avanti. Ci sono sempre dei momenti problematici, con cui è importante riuscire a fare i conti per poter iniziare ancora il processo, all’infinito.
Quali sono state le difficoltà principali che hai dovuto affrontare nella tua carriera?
Prima di tutto, il divario fra ciò che volevo fare e ciò che poi effettivamente ottenevo, pur sforzandomi al massimo. È un po’ il problema del “limite”. Si parte con tanto idealismo e molta arroganza e per sbarazzarmene ci ho messo tanto tempo. È stata sicuramente una causa di sofferenza, anche in Scoramenti a un certo punto risuona questa angoscia: “e poi arrivi tu, e salvi il mondo? Aspettavano tutti te, perchè gli salvassi il mondo?”. Ma anche se un po’ di disincanto fa bene, è chiaro che non bisogna assolutamente rassegnarsi all’idea che non si avrà mai alcun impatto, non bisogna diventare cinici.
Più in generale, rispetto al mondo delle ONG e degli aiuti umanitari, la cosa che mi ha fatto e tutt’ora mi fa disperare è che, rispetto ad altre forze (politiche, economiche, militari), il mondo umanitario ha veramente le “armi” spuntate e una certa tendenza all’autosabotaggio. Per autosabotaggio intendo il non voler mai imporre una propria visione, la determinazione a rimanere neutrali anche di fronte a situazioni evidentemente poco virtuose. Penso che ciò derivi da un trauma post-coloniale che invita l’operatore umanitario a rapportarsi con estrema cautela ai sistemi culturali locali e da un’egemonia di pensiero postmodernista per cui qualunque discorso “deciso” viene sempre guardato con un po’ di sospetto. Io sento la necessità di analisi più profonde di così. Alla fine è anche il senso del settore in cui lavoro, quello educativo, cercare di mettere in discussione alcune dinamiche di contesto disfunzionali, per porvi rimedio o almeno mitigarne gli effetti. Ad esempio, tante volte non si mette in discussione il programma scolastico di un certo paese, anche se è il primo elemento di segregazione di genere perché prevede percorsi separati per uomini e donne. La stessa cosa che in Italia verrebbe vista come problematica qui non viene nemmeno percepita, un po’ perché è difficile da cambiare, un po’ perché comporta tanti rischi, un po’ perché “ma chi siamo noi”…io su questa cosa però ho delle riserve.
Che strategie hai trovato per prenderti cura di te nei momenti di sofferenza?
Capire il limite di ciò che posso fare sicuramente mi ha aiutato in generale, a diminuire la sofferenza di fondo. Poi, per quanto possa essere disilluso circa l’universo delle ONG, ridimensionare il contributo che personalmente posso dare mi ha fatto realizzare che sul mio lavoro sono bravo a fare alcune cose, e che sono contento quando ho la possibilità di farle. Ad esempio, al momento sono in Mozambico. Mi piace lavorare per chiarire scopo, strumenti e modalità del progetto a tutti i livelli della gerarchia, affinché non vada tutto a rotoli perché non ci siamo preoccupati di coinvolgere chi sarebbe andato a lavorare sul campo. Sul versante pratico, cerco di non viaggiare tanto come facevo prima, di non lavorare troppe ore e di fare attività fisica, ad esempio qui mi sono iscritto in una palestra. Cerco di stare con persone positive, di evitare quelle che non lo sono o che non percepisco come tali: alla fine non sono cose poi molto diverse da quelle che farei a casa mia, per tornare al titolo del libro.
Ma a proposito, quindi? Hai trovato casa tua?
Quello è un tema che con il tempo si è un po’ attenuato, l’incapacità di trovarla in un posto solo è diventata la capacità di trovarla in tanti posti. Poi, allo stesso tempo, è successa se vuoi una cosa molto banale: quattro anni fa con mia moglie abbiamo comprato casa e questo, anche se non ci sto tanto, mi ha permesso di avere almeno un posto dove tornare. Questa cosa mi ha dato modo di apprezzare anche le altre case che ho, non parlo necessariamente di case fisiche. Rispetto agli anni del libro, quando praticamente ogni due mesi cambiavo posto, viaggio molto meno, ma la casa è diventata una dimensione, una rete fatta di amicizie e di relazioni, alcuni posti che mi sono rimasti nel cuore, il nord dell’Iraq, Beirut… Avere un punto fermo però mi ha permesso di godermi di più anche le altre case.